lunedì 12 luglio 2010

V.2. L’eredità ebraica

Gli ebrei non costituiscono il modello di un grande popolo in senso politico o militare, come lo sono stati egizi, assiri, babilonesi, persiani e romani. Lo sono, invece, sotto il profilo religioso. Dalla loro religione, infatti, ha preso origine il cristianesimo e l’islamismo, e questi, a loro volta, hanno permeato, fin nel profondo, la cultura di mezzo mondo, tanto da indurre Thomas Cahill ad esclamare: “Tutto ebbe inizio con gli Ebrei” (1999: 13). Secondo Cahill, gli ebrei sono gli “inventori della cultura occidentale” (1999: 13) e tutti noi dovremmo sentirci ebrei: “difficilmente possiamo alzarci la mattina o attraversare la strada senza essere Ebrei” (1999: 207). Anche se non si dovessero condividere i toni entusiastici di Cahill, non si può non riconoscere che l’influsso che la cultura ebraica ha esercitato, e continua ad esercitare, nel mondo occidentale è enorme. Sulla genesi e sullo sviluppo di questa cultura abbiamo avuto modo di soffermarci a lungo. Dobbiamo adesso occuparci della sua essenza. In che consiste la cultura ebraica? e quale messaggio profondo promana da essa?
Secondo il racconto biblico, in origine Dio interdice all’uomo la conoscenza del bene e del male, vale a dire l’autonomia morale, e lo vota a “vivere in una condizione infantile di semplicità e di obbedienza a Dio” (Strauss 1998: 14). Adamo ed Eva peccano perché aspirano al discernimento morale ed è per questo che vengono cacciati dal paradiso terrestre. Ebbene, l’ebreo guarda con nostalgia a quel lontano passato e anela a recuperare la beata innocenza del bambino: il suo scopo ultimo è guadagnarsi il sostegno del Padre, in cui egli vede l’unico modo per allontanare da sé ogni male e conseguire la felicità. La massima aspirazione dell’ebreo è quella di vivere secondo la Legge del suo Dio, che viene dall’alto ed esige un’ubbidienza incondizionata e acritica. Per questo non gli serve la ragione: gli basta la fede.
Il modello dell’ebreo pio è Mosè. “Mosè è un uomo che non ha un’alta opinione di sé, che non fa mai affidamento sulle proprie capacità, ma solo sulla parola di Dio” (Cahill 1999: 142). Con Mosè ha inizio quel processo che condurrà al monoteismo e in virtù del quale Dio verrà collocato così in alto e lontano da diventare incomprensibile. Come dirà Agostino d’Ippona: “Stiamo parlando di Dio. Quale meraviglia credete di comprendere. Se comprendete allora non è Dio” (in Cahill 1999: 139. Bisogna osservare la Legge, anche se non la si comprende, e bisogna piegare le ginocchia davanti al Signore, anche quando il suo comportamento appare palesemente ingiusto. Il monoteismo ebraico porta non solo all’adorazione, senza «se» e senza «ma», di Dio, ma anche all’accettazione, senza «se» e senza «ma», di tutto ciò che avviene nel mondo. Il risultato è che, di fronte alle ingiustizie quotidiane, anche le più efferate e ripugnanti, l’uomo non può fare altro che chinare il capo di fronte al suo Dio e prendere atto, ma senza porsi domande e soprattutto senza sollevare critiche. All’uomo non è concesso di guardare negli occhi il suo Dio. Egli può solo prostrarsi dinanzi a lui e gettarsi cenere sulla testa.
Sarà infantile l’ebreo, ma non stupido. Egli accetta quella condizione di cieca sottomissione in cambio di un premio, che, crede, gli verrà attribuito da quello stesso Dio che lo opprime, privandolo di ogni libertà e perfino di ogni dignità umana. L’ebreo spera che un giorno, quando Dio vorrà, il suo dolore si trasformerà in trionfo e lui, l’uomo-bambino, potrà estendere la sua signoria sul mondo, mentre tutti gli altri uomini, quelli che hanno contato sulle proprie qualità e si sono creduti grandi, si troveranno a strisciare ai suoi piedi. Gli ebrei credono che tutto ciò si avvererà un giorno per opera di Dio o di un suo mediatore. Essi si pongono al centro del mondo e sognano “un mondo migliore” (Sacchi 1999: 60), ovvero un mondo in cui essi potranno vivere nell’abbondanza e senza più nemici in grado di minacciarli, e considerano «male» tutto ciò che discorda da questo quadro. Ebbene, gli ebrei sanno perché c’è il male nel mondo e sanno anche che Dio è in grado di eliminarlo; quello che non sanno è perché Dio continua a permetterlo, ed è su questo che essi s’interrogano a lungo, impegnando gran parte delle proprie risorse mentali.
Secondo gli ebrei, il male è causato da essi stessi, ed ecco perché il pio ebreo se ne sta in attesa e in preghiera: attende che Dio mantenga la sua promessa e prega affinché ciò avvenga al più presto. Lo scopo dell’ebreo è quello di indurre all’azione Dio, giammai di diventare egli stesso protagonista. Poiché tutto il bene viene da Dio, così ragiona l’ebreo, ne consegue che il riporre fiducia nei propri mezzi è, quanto meno, rischioso. Se un uomo opera bene, infatti, non è certo per merito suo, né dell’educazione che ha ricevuto: è solo una precisa volontà di Dio. È facile allora comprendere perché gli ebrei non si impegnano né per migliorare il mondo in cui vivono, né per migliorare se stessi (il che in fondo è la stessa cosa). L’unica loro opera di rilievo, la Bibbia, diviene possibile solo perché non è considerata opera umana: l’uomo non ne è l’artefice, bensì un semplice strumento, il vero autore è Dio.
Per le stesse ragioni, gli ebrei non potrebbero mai concepire la storia come la intenderanno gli antichi Greci, ossia come il risultato di libere azioni umane. E, infatti, essi interpretano la storia come il disvelarsi della volontà divina. Ora, se la causa della storia è Dio, indagare sulle cause della storia equivarrebbe ad indagare su Dio, e ciò sarebbe peccaminoso. Perciò, l’uomo dovrà limitarsi a leggere i segni della storia, sforzarsi di comprendere i messaggi che Dio gli invia attraverso i fenomeni naturali e gli accadimenti sociali, ma, in nessun caso, dovrà ergersi a protagonista, né della storia, né della critica storiografica.
Convinti che dall’uomo non possa venire niente di buono, gli ebrei sono riluttanti ad attribuire a se stessi alcunché di positivo e non si impegnano in alcun campo dello scibile, affinché sia chiaro che tutto deriva da Dio. A differenza degli altri popoli coevi che, in maggiore o minore misura, fanno affidamento sulle capacità umane, essi si appoggiano totalmente a Dio, come un bambino si appoggia al padre, e giungono perfino a rifiutare la loro stessa umanità, nella misura in cui essa implica assunzione di responsabilità. Ed è proprio in questo «appoggiarsi» incondizionato che possiamo ravvisare il modello ebraico. Quando di fronte ad una difficoltà il bambino corre verso il padre o la madre e piange per richiamare la loro attenzione, noi diciamo che questo comportamento è fisiologico, ma quando è un adulto a comportarsi in questo modo, allora possiamo parlare di «ebraismo». La scuola non funziona? Ci pensino gli insegnanti. Gli insegnanti non sono preparati? Ci pensi il ministro della Pubblica Istruzione. Il ministro è corrotto? Ci pensi la magistratura. I servizi della mia città sono carenti? Ci pensi il sindaco. C’è la disoccupazione? Ci pensi il Governo. E si potrebbe continuare all’infinito. Quando, di fronte a situazioni problematiche, a carenze, ad esigenze, ad aspirazioni, a tutte le sfide della vita, un adulto dice «ci pensi qualcun altro», invece di cercare di comprendere e di contribuire, per quello che gli consentono le proprie capacità, alla risoluzione dei problemi, allora possiamo arguire che è lo spirito ebraico a prevalere in lui. Analogamente, definiamo «ebraica» una società dove questo spirito prevalga.
L’eredità che gli ebrei lasciano al mondo è racchiusa in questo loro modello culturale, che assegna all’uomo il ruolo dell’eterno bambino e lo invita ad aspettarsi tutto da Dio. Il messaggio è semplice e chiaro: come fa il bambino nei confronti del padre, anche l’uomo adulto accetti ogni cosa con rassegnazione, non pretenda di capire i disegni divini, non osi ragionare con la sua testa e si dia un governo paternalistico, dove sovrano è il Dio-Padre e il popolo è gregge.

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