lunedì 12 luglio 2010

F1) Il ruolo della guerra

Oggi siamo abituati a interpretare la religione ebraica alla luce della dottrina cristiana della nonviolenza, che collega l’idea di Dio con quelle di amore, perdono, tolleranza, condivisione e solidarietà e rende pressoché inconcepibile un coinvolgimento di Dio con ogni forma di violenza esercitata nei confronti del prossimo. Sin da bambini ci è stato insegnato che è peccato perfino il male che facciamo ai nostri simili col semplice pensiero o con la semplice mancanza di rispetto o con la maldicenza. Figuriamoci quanto grande dovrà essere il nostro peccato in caso di rapina, saccheggio, stupro, omicidio, strage e genocidio. Ebbene, poiché tutti questi peccati sono compendiati nella guerra finale immaginata dagli ebrei, ci chiediamo come sia possibile conciliare un simile evento col monoteismo, ovvero con la concezione di un Dio-Padre di tutti gli uomini, sulla quale apparentemente tutti gli ebrei concordano. “Se l’ebraismo non avesse avuto una concezione universalistica del mondo, la Torah non avrebbe avuto inizio con la creazione di Adamo, progenitore di tutta l’umanità” (Brunetti Luzzati, Della Rocca 2007: 122). Ebbene, i fatti dicono che dall’idea che Dio è padre di tutti gli ebrei non deducono che gli uomini sono tutti fratelli.
Non solo il monoteismo ebraico non esclude la violenza, ma anzi, almeno secondo l’opinione di Jan Assmann, esso costituisce l’unica forma di religione che parla “il linguaggio della violenza” (2007: 33). Ora, secondo lo studioso, il fatto è da ritenere bizzarro, dal momento che la violenza è di norma un elemento connotativo della sfera politica ed estranea alla religione. “La violenza pertiene all’ambito della politica, non a quello della religione, e una religione che si rifà alla violenza rimane bloccata nel campo della politica, mancando al suo specifico compito in questo mondo” (Assmann 2007: 133). Come possiamo spiegare questo paradosso?
I fatti dimostrano che la guerra è stata praticata e contemplata dagli ebrei come strumento ordinario della loro volontà di potenza, almeno fino alla definitiva distruzione del tempio (135 d.C.) e, dunque, ben oltre l’affermazione del monoteismo. “L’Antico Testamento è pieno di esempi di guerra, e non c’è nessuna prova che indichi che la guerra sia di per sé considerata un male necessario. È data per scontata come parte della vita” (Hobbs 1997: 16). Lo scrittore sacro incita gli ebrei a combattere e a non avere paura di attaccare i nemici, perché Dio è con loro (Dt 20,1-4) e fornisce le seguenti istruzioni: prima dovete offrire ai nemici la possibilità di arrendersi, nel qual caso risparmierete le loro vite e li tratterete come schiavi (Dt 20,10-11); se invece non vorranno arrendersi, ponete lo stato di assedio e, quando la città cadrà nelle vostre mani, uccidete tutti gli uomini, tenendo, come bottino di guerra, le donne, i bambini, il bestiame e ogni altro bene (Dt 20,12-14).
La soluzione della guerra armata come la strada prescelta da Dio per salvare il suo popolo e il proprio «nome» è presa in considerazione dagli ebrei sin dai tempi di Giosuè e della prima monarchia, allorché si tende ad immaginare il Signore mentre guida il suo popolo alla vittoria sul campo di battaglia, oppure mentre rifiuta di intervenire in suo aiuto, votandolo così alla disfatta. A Dio si attribuisce ogni merito per la vittoria (Sal 18,40-46). “Il Signore combatterà per voi, voi state tranquilli” (Es 14,14). “Il Signore avanza come un eroe, come un guerriero è pronto alla battaglia. Lancia grida di guerra, e affronta con coraggio i suoi nemici” (Is 42,13; cf. 2Cr 25,8). Nelle vicende belliche narrate nel libro di Giosuè risulta con chiarezza che il vero guerriero, il vero artefice delle vittorie e delle sconfitte, è Dio. “Il Signore ha combattuto per voi” (Gs 23,3; Gs 23,10; Gdc 7,2). Il ritardo del trionfo in campo di battaglia su tutti i nemici viene spiegato con l’ostinata inosservanza della Legge da parte del popolo. Il Signore, ammonisce Giosuè, continuerà a combattere per voi (Gs 23,5) a patto però che “voi siate sempre costanti nell’osservare ed eseguire tutto ciò che sta scritto nei libri della legge di Mosè, senza piegare né a destra, né a sinistra” (Gs 23,6). Purtroppo, nel campo di battaglia le cose non vanno sempre bene e capita che gli ebrei subiscano cocenti sconfitte (1Sam 4,10; 2Re 8,21), oppure rimangano impietriti di fronte alla schiacciante superiorità di certi nemici e si rassegnino a subire. In ogni caso, il principio generalmente accettato è che il merito della vittoria dev’essere attribuito unicamente a Dio, mentre la sconfitta è da addebitarsi esclusivamente a colpe umane che indispongono Dio e lo inducono a negare i suoi favori o a rivolgerli altrove.
Il credere che tutti gli eventi della storia sono decisi da Dio non impedisce agli ebrei di prendere le proprie iniziative e di comportarsi come se Dio non ci fosse e tutto dipendesse da loro. Apparentemente, anche gli ebrei si comportano come i nemici contro i quali combattono. Anche per gli ebrei, infatti, è il re che dichiara la guerra, reperisce le risorse, stabilisce le modalità dell’arruolamento, il tipo di addestramento e di armamento, le dimensioni dell’esercito, la strategia del combattimento, il premio per i più valorosi, le sanzioni per i disertori. Anche gli ebrei si organizzano e si avvalgono di funzionari, che collaborano con il re e fanno da tramite tra lui e il popolo, prelevano le tasse necessarie per il mantenimento dell’esercito, arruolano i combattenti e comminano le sanzioni per coloro che non rispettano la volontà del sovrano. Ebbene, a tale riguardo non si apprezzano differenze sostanziali fra gli ebrei e gli altri popoli.
Ai tempi di Davide, Israele dispone di un esercito permanente, composto da una fanteria, che costituisce la forza principale ed è costituita da soldati armati di spada o di lancia, di arcieri e di frombolieri, e da una cavalleria, mentre, con Salomone, fanno il loro ingresso i carri da combattimento (Herzog, Gichon 2003). L’unità fondamentale dell’esercito rimane ancora il manipolo clanico, come nel periodo dei giudici, ma sotto la monarchia compaiono delle figure di comandanti intermedi, ciascuna delle quali è preposta ad un corpo dell’esercito, e la figura di un capo supremo, tutte scelte dal re e a lui subordinate. Forte di questo apparato, il re dovrà dimostrare di essere meritevole del trono e il modo migliore per farlo è quello di non subire sconfitte, in caso di guerra di difesa, e di riportare vittorie, in caso di guerre d’attacco. Il re dovrà perciò curare il suo esercito in ogni suo aspetto, sì da conservarlo in piena efficienza e funzionalità e uno degli aspetti più delicati in tal senso è il morale delle truppe: quando questo è alto, aumentano le probabilità di affermazione.
Per gli ebrei, la morte in battaglia non è preludio di una seconda vita felice (va ricordato che essi non credono nell’aldilà), ma semplicemente una punizione divina per qualche colpa commessa. Nondimeno, anche per gli ebrei la religione svolge un ruolo primario nella motivazione a combattere, nella misura in cui li rafferma nella fede di essere sostenuti da un Dio onnipotente, al quale essi devono semplicemente abbandonarsi, certi che, comunque vada, sarà un successo. “Ascoltate, Israeliti! Oggi state per attaccare i vostri nemici. Non perdetevi di coraggio e non abbiate paura! Non smarritevi e non spaventatevi di loro! Il Signore, vostro Dio, vi accompagna contro i vostri nemici, per farvi vincere” (Dt 20,3-4).
Ora, tutto questo può andar bene nelle culture enoteistiche, dove si riconoscono diverse divinità e dove si ritiene che spetta al singolo dio decidere, a sua insindacabile giudizio, a quale popolo legarsi per attuare i propri disegni, ma diventa inadeguato in caso di monoteismo assoluto. Che senso può avere, infatti, che l’unico Dio di tutti gli uomini stringa un rapporto di alleanza esclusivo con un popolo soltanto e lo guidi a combattere contro tutti gli altri? Ebbene, gli ebrei non sembrano avvedersi di questo paradosso e continuano a sognare un imminente intervento armato di Dio, come mezzo per attuare la Promessa, la quale prevede il ribaltamento dei rapporti attuali fra le nazioni e il collocamento d’Israele al vertice del mondo: “gli stranieri ricostruiranno le tue mura e i loro re ti serviranno” (Is 60,10).

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