martedì 13 luglio 2010

I. INTRODUZIONE

I.1. Sapere e conoscenza: dall’alto o dal basso?

Sin da piccoli siamo stati educati a vedere la nostra società come un sistema duale, in cui ogni persona è nettamente distinta da ogni altra sulla base dei suoi ruoli riconosciuti. Applicata nei campi del sapere e della conoscenza, questa regola colloca le persone in due distinte categorie: da un lato i professionisti, gli esperti, i cattedratici, i maestri, ovvero coloro che possiedono ed esibiscono titoli attestanti un livello di conoscenza in un ramo del sapere sensibilmente superiore rispetto a qualsiasi altra persona sprovvista di quei titoli; dall’altro lato i cittadini comuni, ovvero qualsiasi persona deprivata di ogni etichetta. Da questa definizione consegue che, se il Signor Mario Rossi si presenta come «biologo», ne ricaviamo che egli è un esperto in biologia, ma se lo stesso si presenta semplicemente come Signor Mario Rossi, ne discende che egli è, o vuole che noi lo consideriamo, come un cittadino comune. In pratica, un esperto che non esibisca i suoi titoli e sia disposto a confrontarsi con altri su un piano di parità si comporta e diventa a tutti gli effetti un cittadino comune.
Ebbene, nella nostra società duale gli esperti sono legittimati a impartire lezioni, tenere conferenze, organizzare corsi di studio e rendere pubblico il proprio pensiero con tutti i mezzi possibili, che vanno dalle riviste ai giornali, dai libri alla tv, dai congressi al web. Dai cittadini comuni, invece, ci aspettiamo che partecipino, ascoltino, prendano appunti, memorizzino e ripetano. I primi sono preposti all’insegnamento, i secondi devono limitarsi ad apprendere. Questa regola, che ha poche eccezioni, separa con un taglio netto i detentori del sapere da tutti gli altri e stabilisce che la trasmissione delle conoscenze debba avvenire dall’alto in basso. Tale è il cliché che ciascuno di noi ha dovuto interiorizzare nell’infanzia e che è largamente dominante nella nostra cultura contemporanea.
Ora, immaginiamo che un cittadino comune, dotato di intelligenza e cultura medie, si senta pervaso dalla voglia di comprendere autonomamente le basi del proprio sistema sociale. Secondo il pregiudizio prevalente, questa impresa dovrebbe risultare pressoché impossibile e il nostro cittadino dovrebbe mutuare quella conoscenza da un qualche esperto riconosciuto. Io credo invece che anche i cittadini comuni costituiscano una potenziale fonte di sapere e di conoscenza, non meno importante di quella rappresentata dagli esperti, per le ragioni che vado a spiegare.
Inizio la mia argomentazione con due verità assiomatiche. Il primo assioma è che, essendo lo scibile umano sostanzialmente illimitato ed essendo invece il cervello dell’uomo limitato, nessuno può essere esperto in tutto. Al contrario, quanto più ci si addentri nei meandri di un tema, tanto più si rischia di perdere la cognizione del tutto. Ne discende che il sapere dell’esperto potrà risultare indispensabile in tutti i casi in cui ci servano conoscenze puntiformi, ma sarà di scarsa utilità quando affrontiamo temi molto ampi, come lo è quello che stiamo qui prendendo in considerazione. Il secondo assioma è che, essendo l’uomo sprovvisto di conoscenze innate, tutto il suo sapere dovrà necessariamente provenire dall’apprendimento, che potrà essere conseguito attraverso esperienze dirette e/o l’imitazione e/o lo studio del pensiero di altri.
Ritornando al caso del cittadino comune, che abbiamo supposto essersi sentito pervaso dalla voglia di acquisire conoscenze sulle basi del proprio sistema sociale. Egli potrà attingere alle opere degli esperti in quel campo, da cui potrà ricavare elementi che, in aggiunta al proprio intuito, alla propria sensibilità personale e al confronto coi suoi pari, gli consentirà di farsi una propria idea, ovvero di elaborare una propria opinione personale autonoma informata (da qui in avanti semplicemente «opinione»).
L’opinione è una forma particolare di conoscenza che risponde a certe caratteristiche: non può essere data una volta per tutte, né può essere imposta come vincolante per tutti, ma è invece una verità soggettiva che potrà essere cambiata in ogni momento dallo stesso soggetto che l’abbia formulata o da chiunque altro; si muove in direzione orizzontale e pone i soggetti che la dibattono in condizioni di parità; non può essere proposta o imposta come se fosse una verità assoluta. Essendo fallibili per definizione, tutte le opinioni sono ugualmente degne di rispetto, anche se ciò non significa che sono indifferenti: un’opinione potrà essere giudicata migliore o peggiore di un’altra a seconda che venga ritenuta più o meno ben supportata, più o meno ben articolata, più o meno convincente. Così concepita, l’opinione non si presta ad un uso cattedratico, ma risulta invece particolarmente adatta a spingere le persone che condividano gli stessi interessi speculativi verso un libero confronto fra loro.
Ebbene, io credo che le opinioni prodotte in modo concertato da più persone e condivise, pur rimanendo opinioni, abbiano un valore non inferiore e meritino lo stesso rispetto che siamo soliti riservare alla conoscenza prodotta da esperti. Si tratta inoltre, a mio avviso, di due forme di conoscenza che si muovono su livelli diversi e possono proficuamente integrarsi.

I.2. I presupposti del libro

Il pensiero espresso nel presente libro ha per sfondo e per cornice le seguenti verità, di cui mi sono occupato altrove, ma che in questa sede assumo come se fossero certe e incontrovertibili:
1. Ogni persona è dotata di mezzi per soddisfare i propri bisogni e conseguire la propria felicità su questa terra. Chiamerò questa caratteristica umana «volontà di potenza».
2. Non tutte le persone attuano la volontà di potenza allo stesso modo.
3. Lo Stato è vantaggioso per i clan più potenti.
4. La religione serve ad unire molti clan e tribù in un unico Stato.
5. La guerra serve a fondare lo Stato e a difenderlo.
Nelle pagine che seguono proverò a spiegare un po’ meglio ciascuno di questi punti, che potranno essere d’aiuto al lettore per comprendere il contenuto di questo libro.

A) Un aspetto della natura umana: la volontà di potenza
Ogni individuo, senza eccezione alcuna, ha dei bisogni da soddisfare, ma sono pochi i bisogni che possono essere soddisfatti in modo semplice, diretto e immediato dalla stessa persona che ne è portatrice, come raccogliere cibo con le proprie mani o bere acqua da una sorgente. Nella stragrande maggioranza dei casi i bisogni possono essere soddisfatti solo a livello sociale. Ciò avviene, ad esempio, quando l’oggetto del desiderio richieda l’azione congiunta di più persone (ad esempio, abbattere un animale di grossa taglia), oppure si collochi al di là delle possibilità di una singola persona (ad esempio, arginare le acque di un fiume), oppure sia troppo generico per essere conseguito a livello esclusivamente individuale (ad esempio, la voglia di essere felice), oppure implichi il coinvolgimento razionale e/o emotivo di altre ben determinate persone (ad esempio, trovare un partner), e via dicendo. In tutti questi casi il soggetto dovrà ricorrere ad una qualche strategia psicosociale, come la costituzione di un gruppo esteso e solidale, nel caso voglia costruire un argine sulle sponde del fiume, oppure praticare i riti della magia o della religione, nel caso voglia vincere le forze del male ed esaudire i propri desideri, oppure ricorrere all’arte della seduzione, nel caso voglia conquistare un partner, e via dicendo.
Ora, in linea di massima, ogni persona è naturalmente dotata dei mezzi necessari per soddisfare i propri bisogni, sia quelli esaudibili per via diretta sia quelli esaudibili per via sociale. Le scienze psicosociali usano espressioni del tipo «affermazione del sé» o «volontà di potenza», semplicemente per dire che i nostri atti “sono governati da scopi” (Russell 1976: 33) e che dobbiamo mettere in atto “una serie progressiva di sforzi per risolvere problemi” (Cohen 1981: 46) e superare gli ostacoli che si frappongono fra noi e i nostri obiettivi. Ebbene, l’affermazione del sé e la volontà di potenza esprimono l’inclinazione dell’individuo a soddisfare i propri bisogni e a vivere meglio che può, avvalendosi, a tal fine, di tutti i mezzi di cui è naturalmente dotato, come l’intelligenza, la forza fisica e la cooperazione a livello parentale, ovvero di tutto il proprio armamentario biologico. A livello biologico, tuttavia, la cooperazione è limitata alla cerchia parentale, mentre nei confronti degli estranei prevalgono nettamente i rapporti di forza.
Ad un certo punto, però, l’uomo capisce che non può ottenere tutto con i mezzi naturali e, a questo punto, egli ha escogita dei mezzi «culturali», come la cooperazione sociale estesa e il diritto: la prima è favorita dalla fede nello stesso dio e nella comunanza di interessi, ma ha il difetto di non essere sufficientemente stabile; il diritto è più stabile, ma richiede l’esistenza di uno Stato ben organizzato. Il fatto è che, generalmente, il diritto riflette la volontà del più forte (della classe dominante, dei più ricchi, del maggior numero, ecc.), In effetti, un diritto perfettamente equo e giusto non è mai esistito e forse non è nemmeno umanamente possibile. Ne consegue che nessun diritto potrà mai essere accettato da tutti, ed è per questo che esso può essere applicato solo a condizione di sostenerlo con un adeguato apparato di forza armata. In realtà, a ben vedere, il diritto continua ad essere usato con la stessa logica della forza bruta e le ragioni della sua fortuna vanno ricercate nel fatto che, rispetto alla forza bruta, esso consente il conseguimento di scopi in modo apparentemente pacifico e senza spargimento di sangue.

B) L’uomo maturo/immaturo e la questione dell’autonomia morale
Tutti gli uomini sviluppano una qualche volontà di potenza, ma non tutti lo fanno allo stesso modo. Abbiamo detto che gli uomini sono sostanzialmente uguali (cf. cap. I.2.). Ora dobbiamo precisare che «uguali» non significa «identici». Nella realtà nessun individuo è la perfetta copia di un altro, ma ciascuno presenta elementi di diversità (a livello fisico e mentale, nell’intelligenza e nella volontà), ciascuno ha un proprio modo di rapportarsi con se stesso e con la società. Alla fine, possiamo distinguere le persone in due categorie: persone autonome nel giudizio morale o mature e persone dipendenti da altri o immature.
La natura ha voluto che l’uomo abbia un’infanzia particolarmente lunga, il che gli consente di pervenire all’età adulta con la maturità sufficiente ad elaborare autonomamente i contenuti e i modi della propria libertà e della propria felicità. L’autonomia morale rappresenta lo spartiacque fra infanzia ed età adulta, ma non tutti la conseguono, per la semplice ragione che essa richiede un uso intensivo del proprio cervello e non tutti dispongono della volontà necessaria a tale scopo. Nella realtà avviene che solo poche persone fanno lavorare a pieno regime la propria materia grigia, mentre la maggior parte si comporta pigramente e preferisce ragionare con la testa di qualche leader. Ebbene, solo chi consegua l’autonomia morale merita di essere ritenuto una persona matura.
L’uomo maturo si distingue perché esibisce un atteggiamento attivo piuttosto che passivo, tende a risolvere i problemi da sé piuttosto che aspettare che li risolvano altri, costruisce autonomamente i propri valori e li interpreta in modo coerente, sa guardare ai problemi della vita con distacco e serenità, rispetta i propri simili, sa controllare le proprie emozioni, ha fiducia in sé e non esita ad usare la propria testa anche a costo di sbagliare, convinto com’è che è meglio sbagliare con la propria testa che con quella di altri.
L’uomo immaturo ha scarsa fiducia in sé e non sopporta il peso del dubbio né il rischio di sbagliare, non tollera l’incertezza e rifiuta di usare la propria ragione, mentre è disposto ad accettare per fede pseudoverità preconfezionate da altri, che gli danno un senso di serenità e di pace, piuttosto che crearsi verità proprie, che, essendo gravate dal dubbio, gli inducono un senso di insicurezza insostenibile. Di ciò spesso abitualmente approfittano le classi dominanti per esercitare indisturbate il loro potere sulle masse. È così che si diffonde il gregarismo emotivo e irrazionale e si affermano i governi autoritari.

“La diffusione dello spirito gregario nelle moderne società di massa trae origine dal tentativo di superare artificialmente un’angoscia esistenziale. E questo tentativo artificioso, per produrre qualche effetto, implica una rinunzia più o meno grande a informarsi, controllare, sapere. Ogni energia viene infatti rivolta a consolidare la fede, non a metterla in dubbio. È difficile, per fare un esempio banale, che un gregario acquisti il giornale del partito avverso, perché di solito egli respinge pregiudizialmente la critica. Ed è difficile che abbia amici nel campo avverso. L’uomo in cerca di rassicurazione sceglie quasi tutti gli amici nel suo stesso partito, perché soffre acerbamente ogniqualvolta il suo partito, la sua ideologia, il suo capo, vengono disapprovati o, peggio ancora, ridicolizzati […]. L’uomo delle società di massa sacrifica troppo spesso l’autonomia e lo spirito critico per ottenere in cambio false certezze” (Hinde 1981: 144-5).


Non sempre le masse oppresse se ne rimangono indifferenti o passive, ma talvolta si lasciano sobillare da qualche capopopolo e reclamano tumultuosamente dei loro diritti. Ebbene, negli ultimi cinquemila anni, ovvero da quando si è affermato lo Stato come persona giuridica e come soggetto politico indipendente, la storia dell’uomo è segnata da periodiche sollevazioni di masse, contro le quali si sono levate le classi dominanti in nome della ragion di Stato. Ma le masse qualche significativo passo avanti sono riuscite a farlo, sicché, col passare del tempo, l’eterodirezione imposta in nome della ragion di Stato ha dovuto cedere spazio alla crescente domanda di autodirezione da parte degli individui. Il risultato di questo processo è che oggi il conseguimento dell’autonomia personale viene salutato non più come un peccato di superbia e nemmeno come male assoluto, ma come un fausto segno di maturità personale. E, infatti, come osserva Nash, la nostra epoca è contrassegnata dal rifiuto dell’autorità costituita e dalla tendenza a farci guidare “da regole per cui ogni persona diviene l’autorità di se stessa” (1975: 443). Evidentemente abbiamo imparato ad esorcizzare la paura del dubbio e a confidare in noi stessi.
Oggi siamo soliti distinguere uno Stato autoritario da uno democratico sulla base che il primo favorisce la formazione di uomini-massa, il secondo la formazione di uomini liberi, e crediamo che il secondo sia preferibile al primo: esattamente il contrario di quanto si credeva nell’Antico Egitto e nell’Antico Israele. Oggi le persone amano sentirsi libere e responsabili ed è sempre più sentita l’esigenza di una società nuova, in cui ci sia meno ragion di Stato e maggiore libertà delle persone, una nuova società in cui ci sia consapevolezza che, solo attraverso la “realizzazione di se stessi, senza l’intermediazione di mitici capi o di mitiche ideologie, è possibile aiutare gli altri” (Melograni 1977: 125).
Questa presa di coscienza da parte delle persone ha importanti riflessi soprattutto sul piano morale. “La morale, finora, è stata presentata sotto forma di comandamenti, prescrizioni, proibizioni […]. Sempre, comunque, qualcosa che gli altri ci impongono di fare, un limite alla nostra libertà e una costrizione dei nostri impulsi, dei nostri sentimenti e della nostra spontaneità. Questa immagine della morale è destinata a tramontare” (Alberoni, Veca 1988: 97). Ebbene, a mano a mano che va crescendo il numero delle persone autonome, libere, responsabili e capaci di elaborare un proprio codice morale, si va riducendo la domanda di governi autoritari e di sistemi morali esterni, mentre, di pari passo, va crescendo la domanda di democrazia.

C) La funzione dello Stato
Nello stato di natura l’individuo è sovrano, ma costantemente insicuro per la propria vita. Il gruppo esteso, invece, avvantaggia le famiglie e le persone offrendosi ai loro occhi come un formidabile strumento cui ricorrere nei momenti di crisi (il gruppo può prendersi cura di una famiglia in difficoltà), ma anche come forza di offesa (un singolo individuo o una famiglia possono servirsi della forza del gruppo per sopraffare altri gruppi e perseguire una politica di potenza). Da qui la tendenza universale a costituire gruppi sempre più estesi e più forti, finché si giunge allo Stato per volontà dei clan dominanti, che si uniscono fra loro per tutelare sempre meglio i propri interessi.

D) La funzione della magia e della religione
L’uomo prova un senso di disagio quando si trovi di fronte a qualcosa che non comprende o quando versi in condizioni di insicurezza, e non esiterà a ricorrere a qualsiasi espediente atto a farlo sentire padrone della situazione e sicuro nella propria persona e nei propri averi. In altri termini, quando ci troviamo in difficoltà persistenti che non riusciamo a controllare pienamente, tendiamo a costruire con l’immaginazione qualcosa che ci aiuti a ritrovare la pace e la gioia di vivere. “Incapaci di dare un senso alla realtà, ci creiamo una realtà alternativa e illusoria che la sostituisca e nella quale siano dati come risolti i problemi insoluti” (Tullio-Altan 1983: 195).
In genere esigiamo che gli espedienti elaborati dalla nostra immaginazione abbiano un effetto immediato, ma siamo anche disposti ad accettare un effetto differito in un tempo futuro. “L’uomo può scegliere la migliore alternativa nel complesso perché è capace di passare in rassegna tutte le alternative, tutti i futuri possibili” (Elster 1983: 56). La prefigurazione del futuro rende accettabile una sofferenza nel presente: «perdere oggi per guadagnare domani» è una strategia tipicamente umana. A differenza della maggior parte degli animali, che procedono risoluti verso l’obiettivo, l’uomo è l’unico (o quasi) essere capace di fare “un passo indietro per poter fare due passi avanti” (Elster 1983: 48), l’unico essere capace di indietreggiare davanti al traguardo per raggiungere situazioni più favorevoli in un secondo tempo e puntare alla «massimizzazione globale». Ebbene, tra i numerosi espedienti concepiti dall’immaginazione umana al fine di controllare il futuro, due spiccano su tutti gli altri: la magia e la religione. La prima è più primitiva e più adatta a gente più semplice, la seconda è più moderna e adatta anche a persone istruite, ma la sostanza è la stessa. Anche la religione “risponde al bisogno di sicurezza dell’uomo di fronte a un universo incontrollabile” (Mair 1980: 223).
Abbiamo detto che magia e religione aiutano l’uomo tanto nel presente quanto in prospettiva futura. Ora, prendiamo il caso delle numerose popolazioni tribali che affollano la Fertile Mezzaluna nell’Età dei Metalli, il cui grado di competizione è tale che solo le tribù capaci di unirsi fino a formare un grande popolo hanno significative probabilità di sopravvivere. La cosa però è resa difficile dal fatto che ciascuna tribù ha alla spalle una storia millenaria vissuta all’insegna dell’indipendenza e nessuna è disposta ad abbandonare i costumi dei loro padri, a meno che non ci sia un santone che parla con un dio e opera prodigi. Ora, se questo santone annuncia che il suo dio intende guidare alcune tribù verso un futuro radioso, a condizione che si uniscano sotto un unico capo, non è escluso che i capifamiglia prestino fede alle sue parole. Alla fine, la fede nello stesso dio avrà unito più tribù in un solo popolo, e non importa se il santone abbia detto la verità: quel che conta è che la gente creda che ciò che afferma il santone sia la verità.
Magia e religione prendono piede in tutti i casi in cui può risultare preferibile una verità piuttosto che la verità: ad esempio, allorché dei clan dominanti vogliano mettersi a capo di molte tribù per poter avere ragione di un nemico altrimenti troppo potente oppure vogliano fondare una città allo scopo di controllare meglio un territorio o attuare una politica di espansione. In simili casi, l’adesione ad una verità, qualunque essa sia, può svolgere la funzione di unire i gruppi e renderli solidali, al contrario de la verità, che è praticamente impossibile da provare e divide le persone. Ciò dà conto del fatto che “Per la maggior parte delle persone, in tutti i tempi e in tutte le culture, è necessario avere delle conoscenze, anche se sbagliate, piuttosto che non averne affatto” (Beattie 1978: 288). Quando diciamo che è “meglio una spiegazione qualsiasi che nessuna spiegazione” (Nietzsche 1980: 5), diciamo semplicemente che una pseudoverità può avere l’effetto di rassicurare le persone e unirle, con tutti i vantaggi che ne conseguono.
In definitiva, magia e religione offrono certezze garantite da ogni forma di dubbio e risposte ai molti interrogativi spinosi della vita che altrimenti richiederebbero lunghe e gravose spremute di cervello, che talvolta non solo non conseguono risultati apprezzabili, ma finiscono anche col generare frustrazione e angoscia. Così concepite, magia e religione hanno un “sicuro valore terapeutico, poiché offrono all’uomo disorientato un prontuario di manovra che gli evita di riflettere, classifica le informazioni che lo raggiungono in un quadro prestabilito e per di più fa in modo che egli non senta le informazioni che non rientrano in questo quadro” (Laborit 1985: 59). Ma è soprattutto la religione che, con il suo contenuto dottrinale e con il suo pacchetto di verità pronti per l’uso, ha il potere di unire molti popoli diversi sotto una stessa bandiera, renderli docili e obbedienti alle autorità costituite e muoverli compatti verso obiettivi comuni con le migliori probabilità di successo.
La religione, tuttavia, non offre solo vantaggi, ma comporta anche dei rischi. Un primo rischio è quello di limitare la libertà delle persone e indurle a fare un uso limitato delle proprie facoltà critiche, con conseguente compressione del capitale umano. Un secondo rischio consiste in questo che, essendo le verità religiose indimostrabili, non c’è altro modo di imporle ai dissenzienti che con la forza. Un terzo rischio è che quando una religione non sia condivisa a livello universale, essa crea barriere culturali e determina i presupposti per possibili scontri armati fra i popoli.

E) La funzione della guerra
Nello Stato il suddito (o il cittadino) non deve più temere per la propria vita, ma deve rinunciare alla propria sovranità e ad ogni velleità di provvedere autarchicamente ai propri bisogni. Il problema è che non c’è altro modo di appianare le contese insanabili se non la guerra. Ebbene, gli Stati si servono della guerra non solo per far valere le proprie ragioni o a scopo difensivo, ma anche per procurarsi risorse a danno di altri. Ora, nessuna persona sarà disposta a rischiare la propria vita per niente e, di conseguenza, lo Stato dovrà o costringere ciascuno con la forza oppure offrirgli delle buone ragioni, ma poiché obbligare un suddito con la forza è molto dispendioso, alla fine, si preferisce convincerlo promettendogli un pezzo di terra o una parte del bottino. Ai tempi di Hammurabi, è costume che il sovrano conceda ai soldati l’usufrutto di una terra (ilkum) in cambio del loro servizio (Charpin 2005: 131). In caso di saccheggio, il bottino viene diviso secondo “regole rigide” (Charpin 2005: 141). È costume anche che una città assediata possa “comprare il ritiro dei nemici” (Charpin 2005: 141).
Ma la promessa di un premio potrebbe non bastare a giustificare una guerra di conquista, soprattutto se essa si prolunghi per anni. Perciò una guerra offensiva dovrà essere sostenuta anche da ragioni ideologiche. Solitamente esse sono di tre tipi: o si descrive il nemico come un soggetto malvagio e pericoloso, o si descrive se stessi come superiori e meritevoli di imporre agli altri il proprio modello culturale, o si promettono agli arruolati benefici economici, tanto importanti da rendere difficile il rinunciarvi, oppure le tre cose insieme. Dall’esigenza di porre il proprio sistema culturale sopra quello degli altri, originano i fenomeni dell’«etnocentrismo» e del «nazionalismo», ovverosia la tendenza a collocare la propria etnia o la propria nazione al centro dell’universo, fino a giustificare la guerra di religione e l’imperialismo. In ogni caso, o per il servizio reso o perché vittoriosi sul campo di battaglia o perché pagati dai nemici, i soldati incamerano risorse e ciò li ripaga del rischio corso e giustifica la loro fedeltà al re.

I.3. Questo libro: origine, metodo e contenuti

Questo libro nasce dalla voglia che ha preso me, cittadino comune, già un quarto di secolo fa, di conoscere il contesto geopolitico in cui gli ebrei si sono affermati come popolo e hanno prodotto la loro singolare cultura, convinto che questo studio mi avrebbe permesso un’adeguata conoscenza degli ebrei stessi, che, a sua volta, mi avrebbe aiutato a comprendere meglio il nostro sistema sociale presente. L’idea da cui parto è che la cultura dell’odierna Europa Occidentale, la nostra cultura, affonda le sue radici nelle culture dei popoli vissuti in tempi lontani, in particolare quelli che hanno affollato la Fertile Mezzaluna (una regione delimitata da Turchia e Golfo Persico, Egitto ed Iran) nel periodo compreso fra 5-2,5 mila anni fa, fra i quali gli ebrei sono forse i più importanti per noi, almeno per due ragioni: sono l’unico popolo sopravvissuto fino ai nostri giorni ed sono anche l’unico popolo che ha fatto del monoteismo la sua bandiera, una bandiera che è giunta fino a noi attraverso il cristianesimo. Quando parliamo di «radici cristiane» dell’Europa ci riferiamo a questo passaggio di cultura che è veicolato da quello straordinario complesso di testi sacri, chiamato Bibbia, che forse è il libro più diffuso e letto in tutto l’Occidente.
Ora, è del tutto evidente che, se vogliamo ben comprendere la nostra cultura non possiamo ignorare il monoteismo ebraico e le ragioni della sua affermazione. Questo è il succo del mio interesse speculativo sull’argomento e il principale scopo del presente libro. Così motivato, ho cominciato a leggere la Bibbia e altre opere sull’argomento scelte a caso. Poi, quando ho creduto di essermi fatta un’idea abbastanza chiara sugli ebrei, ho deciso di pubblicare la mia opinione in un libro intitolato L’eredità ebraica (1990). Da un paio di anni, dopo un periodo in cui sono stato preso da altri interessi, ho ripreso le mie letture sugli ebrei, finché mi è ritornata la voglia di riscrivere le mie opinioni in forma nuova e aggiornata, anche se in tutti questi anni la sostanza del mio pensiero è rimasta pressoché invariata.
Svilupperò le mie argomentazioni partendo da tre assiomi. Il primo assioma è che gli uomini sono sostanzialmente uguali in tutti i tempi e in tutti i luoghi, perché sono accomunati dalla medesima struttura organica, dai medesimi processi biochimici e mentali, dalla stessa logica di pensiero: tutti hanno la stessa tipologia di desideri, paure ed emozioni; tutti sono legati alla vita; tutti cercano acqua, cibo e condizioni di sicurezza; tutti hanno bisogno dei propri simili; tutti vogliono vivere nelle migliori condizioni possibili; tutti manifestano una volontà di potenza (cf. cap. I.2.A.). Il secondo assioma è che tutti gli uomini di tutti i tempi si sono mossi al fine di assicurare per se stessi le migliori condizioni possibili in termini di sicurezza e prosperità e si sono serviti della magia, della religione e dello Stato con questi intenti (cf. cap. I.2.C-D.). Il terzo assioma stabilisce che anche gli ebrei antichi erano uomini come tutti gli altri e, pertanto, essi possono essere adeguatamente compresi attraverso le consuete tecniche della psico-sociologia, ma anche attraverso un esame comparativo con gli altri popoli della Fertile Mezzaluna (cf. la terza sezione di questo libro).
Sulla base di queste presunte verità, anche il presente libro, come già il precedente, esprime la mia opinione sugli ebrei, sulla loro storia passata e presente e sulla loro cultura, in una parola sull’ebraismo, l’opinione di un cittadino comune che vuole mettersi in discussione con altre persone che coltivino lo stesso interesse, al solo fine di poter produrre una conoscenza collettiva e dal basso, proprio come avviene per la ben nota enciclopedia on line wikipedia.
Il libro si compone di tre sezioni.
La prima sezione descrive il contesto storico in cui sono vissuti gli antichi ebrei. In particolare, essa passa in rassegna i principali popoli che si sono costituiti nella Fertile Mezzaluna nel periodo compreso fra 5-2,5 mila anni fa, mettendo in particolare evidenza le rispettive organizzazioni sociali e politiche.
La seconda sezione tratta della storia politica del popolo ebraico, dal momento della sua formazione fino ai giorni nostri.
La terza sezione tenta di spiegare le ragioni psico-sociali che hanno spinto gli ebrei a comportarsi nel modo che sappiamo e a costruire la loro singolare cultura religiosa.
Non mi rimane che chiarire come sono arrivato al titolo. In un primo momento, ho pensato a Ebraismo, ma ho accantonato quest’idea dopo che un amico mi ha fatto notare la sua eccessiva genericità. Allora ho pensato a L’ebraismo spiegato a me stesso. Credevo in questo modo di sottolineare il fatto che il libro è in realtà il tentativo da parte di un cittadino comune di capire con le proprie forze tutte le complesse questioni che ruotano intorno alla figura dell’ebreo. Alla fine ho preferito Libro aperto sugli ebrei, perché mi sembra che esso spieghi meglio il mio intento, che è quello di scrivere un libro che, senza seguire il consueto schema tradizionale, non sia cattedratico, non proceda dall’alto in basso, non sia l’opera di un esperto e nemmeno una lezione magistrale, insomma, un libro che non vuole insegnare niente a nessuno. È semplicemente l’opinione di un cittadino comune che ha voluto studiare in modo dilettantistico la vicenda storica degli ebrei e lo sviluppo della loro cultura, fino a crearsene una propria opinione, che come tutte le opinioni, è discutibile. Un libro, dunque, che parte dal basso, che segue uno schema orizzontale e che è «aperto» alle critiche costruttive e ai contributi di chiunque condivida l’interesse su questo argomento e abbia piacere di confrontarvisi al fine di spiegare in modo sempre più chiaro che cosa significhino per l’uomo d’oggi espressioni quali «essere ebreo» ed «ebraismo».
Ringrazio fin da ora quanti volessero unirsi con me in questa appassionante fatica.

II. IL CONTESTO STORICO (5,5 – 2,5 mila anni fa)

II.1. Aspetti generali

II.1.1. Il mondo dei nomadi
Per poter ben comprendere la specificità e l’importanza della cultura ebraica è necessario partire dagli eventi che hanno avuto per protagonisti i paesi racchiusi nella cosiddetta «Fertile Mezzaluna», in particolare l’Egitto, la Palestina, la Fenicia, la Siria e la Mesopotamia, nel periodo compreso fra 30-5,5 mila anni fa, cioè prima che inizi la storia. Nelle fasi iniziali del periodo indicato, questi paesi sono caratterizzati da una densità demografica molto bassa e sono abitati principalmente da gruppi nomadi e seminomadi, che vivono essenzialmente di caccia e raccolta, mentre l’agricoltura è ancora praticata in modo non sistematico.
I nomadi raccolgono ciò che cresce spontaneamente e che, secondo una tradizione che si tramanda lungo le generazioni, è commestibile. Il cibo spontaneo però è prodotto in quantità insufficiente per la sussistenza di gruppi che tendono a diventare sempre più numerosi e, poiché non c’è un surplus, i singoli clan (decine di persone) devono spostarsi continuamente alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, oltre che di acqua. Abitualmente i nomadi dormono all’aperto o in ripari naturali, talvolta in semplici tende facilmente trasportabili. Non conoscono la gerarchia sociale. Le principali forme di vita comunitaria sono la famiglia e il clan, la cui coesione è garantita dalla vicinanza fisica e dalla consanguineità, che è resa possibile da un sistema matrimoniale endogamico.
Quando si trattengono un po’ più a lungo nello stesso luogo, i nomadi creano un villaggio. “I villaggi sono di norma piccoli e radi. La dimensione ridotta, valutata di concerto alle strategie matrimoniali, induce a ritenere che l’insediamento coincidesse con poche famiglie estese, e al limite con una sola, e che comunque l’imparentamento all’interno del villaggio fosse pressoché generalizzato. La struttura sociale e decisionale è dunque impostata sulla presenza di uno o di pochi capi-famiglia («anziani» o «patriarchi» che dir si voglia); su differenziazioni drastiche per sesso, età, provenienza; ma su differenziazioni relativamente modeste di carattere socio-politico. Non emergono ancora, neppure dai corredi delle sepolture – per non dire della dimensione e attrezzatura delle abitazioni – differenze di rango significative” (Liverani 1988: 75). Nel villaggio non esistono gerarchie, né in campo religioso, né in campo politico. “All’interno della comunità il ruolo dei singoli nuclei è largamente paritetico, e la loro aggregazione è sostanzialmente cumulativa” (Liverani 1988: 76). E infatti, le tombe risalenti a questo periodo sono caratterizzate dalla presenza di un corredo che presenta differenziazioni legate all’età e al sesso, ma non al rango (Guidi 2000: 99).
Col passare del tempo gli uomini cominciano a credere nell’esistenza di esseri divini che governano gli eventi naturali e le vicende umane, e si pongono sotto la loro protezione. Così facendo, essi aggiungono un altro fattore di coesione sociale che, a differenza della vicinanza fisica e della consanguineità, questa volta è di natura culturale.
Ora, grazie al fattore religioso, è possibile creare gruppi più numerosi, ossia le tribù, i cui membri si riconoscono affini perché figli dello stesso dio. In pratica, la tribù è composta da un certo numero di famiglie e di clan non necessariamente imparentati fra loro e nemmeno fisicamente vicini, ma uniti dalla fede nello stesso dio. Non c’è ancora un’autorità costituita, ad eccezione dello sciamano, cui si riconosce la facoltà di farsi tramite fra il dio e i suoi uomini, ma a lui ci si rivolge solo in casi eccezionali, quando cioè vi sia un pericolo incombente. In condizioni ordinarie, invece, le singole famiglie sono sovrane e si affidano alle decisioni del più anziano, oppure, nel caso in cui occorra prendere decisioni che riguardano l’intera tribù, ricorrono al consiglio degli «anziani», che è il massimo organo politico, giuridico ed esecutivo della tribù.
In mancanza di pericoli evidenti, ciascuna famiglia e ciascun clan hanno il medesimo peso politico e nessuno ha il potere di decidere per un altro. In teoria ogni famiglia e ogni clan sono liberi di andare dove vogliono. In pratica è raro che una famiglia abbandoni il proprio clan, e lo stesso vale per il clan nei confronti della tribù, ma con delle differenze. Una famiglia non spezzerebbe mai spontaneamente i legami clanici, perché ciò equivarrebbe ad essere abbandonata anche dal proprio dio ed essere destinata ad una fine tragica pressoché certa, una vera e propria maledizione che tutti vogliono evitare nel modo più categorico. Per un clan le cose sono un po’ diverse, nel senso che, se un clan è abbastanza numeroso e ben organizzato, può sperare di farcela da solo. In effetti, in caso di situazioni particolarmente critiche, non è raro che un clan abbandoni la propria tribù in cerca di fortuna altrove, avendo discrete probabilità di riuscire nell’impresa. Il caso di Terach ne è un esempio (cf. cap. III.1.3.).
Un tratto specifico della tribù è la comparsa di una prima divisione del lavoro, che è ben rappresentata dalla figura dello sciamano e dal consiglio degli anziani, già menzionati, ma anche da altre figure di uomini, che controllano le aree periferiche del territorio, vigilano su eventuali movimenti sospetti e curano i rapporti di buon vicinato con le tribù confinanti.
Nelle regioni ad alta densità demografica, non è facile per una tribù abbandonare il proprio territorio. Ora, il fatto di poter controllare un territorio più esteso e per periodi più lunghi offre dei vantaggi, fra i quali spiccano per importanza l’addomesticamento di alcuni animali (i primi sono il cane, le capre e le pecore, seguono buoi e maiali) e la diffusione della pastorizia. Gli animali addomesticati costituiscono una riserva alimentare tale da consentire, per la prima volta, di prolungare ulteriormente la sosta nello stesso posto. Ciò risulta molto utile nei casi in cui uno spostamento comporti per la tribù il rischio di dover affrontare dei nemici ed essere annientati. In questi casi, il fatto di poter prolungare la sosta, consente alla tribù di scegliere il momento migliore per levare le tende e mettersi alla ricerca di un nuovo insediamento. È il primo passo verso il controllo della natura e il superamento del nomadismo.
La permanenza prolungata in un luogo offre all’uomo un altro vantaggio, quello di metterlo in condizione di “cogliere il rapporto, tutt’altro che ovvio, che lega la seminagione alla nascita dei vegetali” (Liverani 1988: 71). Grazie all’invenzione dell’agricoltura l’uomo può ora disporre di un’altra fonte di surplus alimentare che, opportunamente gestito, consolida la tendenza alla vita sedentaria e porta alla nascita dei primi villaggi stanziali veri e propri. Come osserva Liverani, la sostanza della rivoluzione neolitica sta tutta qui: “nella progressiva messa a punto di tecniche per la produzione di cibo (agricoltura e allevamento) in sostituzione delle tecniche di semplice sfruttamento (caccia e raccolta) del cibo già esistente in natura” (1988: 62). L’uomo, insomma, comincia a padroneggiare la natura anziché subirla totalmente.
Il fatto è che la campagna non produce in modo regolare, né in quantità proporzionale alla crescita demografica e, pertanto, la popolazione deve imparare a convivere con ricorrenti periodi di scarsità. Ebbene, quando la situazione si fa critica, una tribù non può fare altro che guardare ad un vicino, che magari è stato più fortunato. In un simile frangente il consiglio degli anziani può deliberare di rivolgersi ad un’altra tribù per chiedere un prestito, oppure di depredarla e perfino distruggerla. Ora, sia che prevalgano i rapporti di buon vicinato o i rapporti di ostilità, l’effetto è simile: le tribù tendono a conoscersi e a comprendersi meglio. Così può capitare che più tribù si facciano guerra oppure che stringano rapporti improntati alla solidarietà e alla cooperazione, fino ad integrarsi come se fossero un sol popolo. Generalmente, le tribù si uniscono o a causa dei loro buoni rapporti (che, a loro volta, sono favoriti da comunione di religione, lingua, usi e costumi, oppure da scambi di favori e di donne, alleanze a scopo difensivo, ecc.), o perché costrette con la forza.

II.1.2. La città
Il periodo che va da 5.500 a 2.600 anni fa è caratterizzato dalla scoperta dei metalli e dalla loro lavorazione, ed è perciò chiamato Età dei Metalli. I primi metalli che l’uomo impara a riconoscere, estrarre e lavorare sono il rame e l’oro, i quali risultano particolarmente adatti a realizzare oggetti ornamentali e utensili che costituiscono più un simbolo di status sociale e di prestigio che oggetti di reale utilità pratica. Solo con la scoperta del bronzo, una lega composta di rame e stagno, si può disporre di un metallo avente caratteristiche meccaniche idonee a costruire punte di frecce, asce, pugnali e lance: nascono così, intorno a 5 kyr fa, le prime armi metalliche .
In questo periodo clan e tribù tendono ad unirsi sotto un capo comune e a darsi nuove e più complesse forme di organizzazione sociale, allo scopo di assicurarsi maggiori probabilità di sopravvivenza e migliori condizioni di vita, ovvero allo scopo di attuare la propria volontà di potenza. In questa corsa, i più favoriti risultano, come vedremo, i clan specializzati nell’arte predatoria, alcuni dei quali, grazie proprio alla loro organizzazione di tipo militare, fonderanno città, regni e imperi, costringendo numerose etnie a convivere all’interno di un’unica entità politica, che chiameremo Stato, come se fossero un unico popolo. I clan guerrieri lasciano alle famiglie contadine solo il minimo per la sussistenza e incamerano il surplus col quale finanziano gli apparati militare e amministrativo, che sono necessari per conservare la propria posizione di potere.
Insieme ai metalli si vanno affermando nuove figure di lavoratori, come il prospettore e il fabbro, e nasce la metallurgia. Il prospettore esegue ricerche sul terreno finalizzate ad individuare i giacimenti del metallo, che poi viene estratto da squadre di operai e quindi affidato al fabbro, il quale lo ammorbidisce alla fiamma e infine lo forgia, oppure lo fonde al calore e lo cola in appositi stampi in pietra al fine di realizzarne l’oggetto desiderato. I metalli consentono di costruire non solo armi, ma anche utensili e arnesi di lavoro sempre più perfezionati ed efficienti che, insieme all’invenzione della ruota, danno un forte impulso alla produttività agricola e alle tecniche costruttive, rendendo così possibile non solo sfamare un numero maggiore di persone, ma anche costruire città fortificate, atte a proteggere le persone e i loro averi. La città differisce dal villaggio più per l’organizzazione interna che per la dimensione. Essa

“è un raggruppamento fondato sulla divisione del lavoro, sicché nessuno è autosufficiente, tutti lavorano in funzione degli altri, e il risultato è assai superiore sul piano quantitativo e sul piano qualitativo rispetto ad una giustapposizione meccanica di tanti contributi autosufficienti ed eguali. Come la struttura di villaggio comporta la collegialità di eguali, così la struttura urbana comporta una scalarità e un coordinamento di funzioni e piani diversi, comporta cioè una struttura unitaria, accentrata. Le decisioni non possono essere lasciate ai singoli gruppi familiari, liberi di essere tutti d’accordo ma anche di tirarsi fuori in un caso o nell’altro; le decisioni devono essere vincolanti per tutti, unitarie, perché il «tirarsi fuori» di un gruppo ha conseguenze per tutti. La decisione deve dunque essere non unanime ma unitaria, non può risultare da libero confronto, ma da imposizione vincolante” (Liverani 1976: 350).


La città è in primo luogo la sede del tempio e del palazzo.

“Sono questi grossi complessi architettonici e organizzativi che fanno la differenza tra città e villaggi: le città sono quegli insediamenti che sono sedi di «grandi organizzazioni», i villaggi quelli che ne sono privi. Tra tempio e palazzo la differenza è notevole, perché il tempio è innanzi tutto la sede delle attività cultuali, la «casa del dio» ove la comunità presta al suo capo simbolico il culto giornaliero e periodico (feste); il palazzo è invece innanzi tutto la residenza del capo umano, il re con la sua cerchia più stretta (famiglia reale, corte). Ma altrettanto importanti sono le affinità: palazzo e tempio sono entrambi la sede delle attività amministrative e decisionali, e la sede dell’accumulo delle eccedenze sul quale è fondato l’intero meccanismo retributivo” (Liverani 1988: 111).


A differenza del villaggio, l’organizzazione sociale della città è di tipo apicale e gerarchizzato. Al vertice c’è il re che decide per tutti. Non esistono assemblee o organismi collegiali di eguali. Non esistono legami di sangue né ideali comuni per tutta la popolazione. Non ci si sente membri di un’unica stirpe o di un’unica nazione. I cittadini vivono essenzialmente come sudditi e subiscono l’amministrazione della corte, senza necessariamente condividerne gli obiettivi. Il più delle volte, gli interessi dei cittadini non coincidono con quelli del palazzo, perciò l’avvicendamento dei sovrani lascia i popoli pressoché indifferenti. Si spiega allora come mai i regni dell’Antico Oriente si affermano e tramontano con la stessa facilità, senza che ciò produca turbamento nelle popolazioni delle città, dei villaggi e delle campagne.
Una peculiarità della città è quella di ospitare in uno spazio relativamente angusto migliaia di persone, in certi casi decine di migliaia, che sono unite, oltre e più che dai soliti legami (apparentamento, vicinanza fisica, fede nello stesso dio), anche dalla mutua dipendenza, ora che il lavoro è divenuto sempre più specializzato. Nella città c’è posto anche per stranieri, che vi prestano determinati servizi e vi portano anche le proprie usanze e le proprie divinità. La coesistenza di un così gran numero di persone, se da un lato offre indubbi vantaggi, ha il rovescio della medaglia. Tanto per cominciare, ciascuno deve rinunciare a una parte della propria libertà e imparare a districarsi in un’organizzazione sociale complessa e non più di tipo familiare. Inoltre, la divisione del lavoro comporta anche, la divisione delle sostanze e, insieme ad essa, la nascita delle classi sociali e la differenziazione tra ricchi e poveri, nobili e plebei, liberi e schiavi.
Una popolazione così numerosa e articolata ha bisogno di qualcuno che abbia l’autorità di stabilire delle regole e che abbia la forza necessaria per farle rispettare, ma perché questa persona sia accettata da tutti occorre che essa sia legittimata ad assumere quel potere. Ebbene, le forme di legittimazione che si vanno affermando sono essenzialmente due: quella che proviene dalla forza e quella che proviene da un dio. Perciò, almeno in condizioni ordinarie, la città è governata o da un feroce capobanda o da un sacerdote, ciascuno dei quali può, a seconda delle circostanze, essere proclamato re e assumere la pienezza dei poteri. È così che si afferma la monarchia. Il re non decide solo della guerra, ma può anche fissare le regole sociali in tempi di pace e stabilire il carico fiscale da addossare ai propri sudditi, le istituzioni politiche e le opere pubbliche da realizzare, le modalità di arruolamento delle truppe, e altro ancora.
A poco a poco, quelli che prima erano equilibri di forza si vanno tramutando in principî di diritto, e così il semplice controllo della terra diventa proprietà privata della stessa. A questo punto risulta ben delineata la «società duale» o Stato, che si caratterizza perché vi si riconoscono non solo i proprietari terrieri, che perderebbero le loro terre se lo Stato si dissolvesse, ma anche tutti coloro che, a vario titolo, ricevono il soldo dal sovrano: soldati, funzionari, mercanti, artigiani, ecc.. Possiamo chiamarli «vincenti». Sono coloro che dall’esistenza dello Stato hanno da guadagnare e perciò hanno interesse a sostenere lo Stato medesimo. Sul fronte opposto possiamo collocare i «perdenti», ossia tutti coloro che vivono sotto padrone e a livello di mera sussistenza, i quali non hanno alcun interesse a sostenere lo Stato, né si riconoscono in esso. Lo Stato dunque è sostenuto dai vincenti e in grande misura si identifica con essi e persegue i loro stessi interessi, che coincidono principalmente con la tutela della proprietà privata e di alcuni privilegi. I perdenti invece vengono conservati in vita solo come forza lavoro o come milizia ausiliaria o di riserva. In quanto emanazione dello Stato, ossia dei vincenti, anche il diritto ripete i contorni della società duale e tratta vincitori e vinti con due pesi e due misure.
Ora, uno Stato può sussistere solo a due condizioni: 1) che sia riconosciuto da tutti come una forma di convivenza desiderabile; 2) che abbia la forza necessaria per imporsi. Ma poiché, per definizione, una società duale non può godere di un consenso unanime, ne consegue che nessuno Stato può fare a meno della forza se vuole conservare se stesso.
Grazie alle entrate provenienti dal prelievo fiscale, dai proventi delle proprie proprietà private, dai tributi imposti alle popolazioni vassalle e dai bottini di guerra, il re può permettersi un palazzo imponente, abbellito con fregi, decorazioni e opere artistiche di vario genere, e di circondarsi di un gran numero di servitori, artigiani, funzionari e, soprattutto, da un gran numero di uomini ben armati. È in questo periodo che si assiste alla «rivoluzione del rango», ossia alla tendenza ad ostentare il proprio status sociale in tutti i modi possibili, che è ben documentata “dall’esistenza di sepolture isolate dalle altre, in genere con caratteristiche di monumentalità, che per il corredo e per il rito che vi appare praticato possiamo definire come «principesche»” (Guidi 2000: 124).

II.1.3. Città e villaggi
Le popolazioni nomadi si trovano ora a dover fare i conti con la nuova realtà urbana. In un primo tempo lo scambio fra villaggio e città avviene su basi paritetiche e complementari, ma, col passare del tempo, l’equilibrio si va spostando a favore della città, che si impone sempre più come il polo di riferimento di una regione, la residenza degli specialisti, la depositaria dei mezzi necessari al soddisfacimento delle esigenze più avanzate. “Il rapporto da complementare diventa subito gerarchizzato, coi villaggi strutturalmente tributari della città. Dai produttori di cibo va agli specialisti un flusso di eccedenza alimentare che permette agli specialisti di sopravvivere pur non producendo cibo. E dagli specialisti va verso i produttori di cibo un flusso di prodotti specializzati e di servizi. Il meccanismo è per principio bidirezionale, e tale da avvantaggiare la comunità integrata nel suo complesso; ma i rapporti interni si sbilanciano a tutto vantaggio degli specialisti” (Liverani 1988: 110).
Alla fine, le popolazioni nomadi si trovano a dover scegliere: o entrano nell’orbita d’influenza di un re e accettano di pagargli un tributo, oppure si spostano in luoghi remoti e difficilmente accessibili, come aree montagnose o semidesertiche, dove finiranno per accalcarsi, insieme ad altri clan di varia provenienza, venendo così a costituire una popolazione eterogenea e divisa, che però, talvolta, generalmente grazie alla fede in un dio, sviluppa un sentimento di unità nazionale.
Da questo momento, le piccole tribù tendono a scomparire, mentre gli unici soggetti politici in grado di sopravvivere sono i grandi agglomerati tribali e le città. Queste due realtà coesistono a lungo e si condizionano a vicenda, stabilendo rapporti che possono andare dalla collaborazione all’ostilità, dallo scambio di cultura e di beni alla guerra. Generalmente i nomadi si sentono attratti dalla realtà urbana, ma non sono rari coloro che vanno fieri dei propri costumi e delle proprie tradizioni. Basti ricordare il caso degli ebrei, molti dei quali, anche sotto la monarchia, continueranno ad avvertire il richiamo verso l’ideale di vita nomadica e a guardare con nostalgia al loro lontano passato (2 Sam 20,1; Ger 35).
La città tende a fagocitare e ad asservire più gruppi che può, e i gruppi nomadici non fanno certo eccezione. Ma essi tenderanno a resistere e a preservare la propria sfera di autonomia rispetto all’autorità urbana. Gli elementi che giocano a favore della tribù sono la spontaneità della coesione sociale, minime esigenze di risorse, elevate doti di mobilità. Quando entrano in conflitto con una città, alcune di esse si uniscono in leghe e, sotto la guida di un capo comune, possono vivere il loro momento di gloria, riuscendo ad imporsi e dominare. Più spesso invece è la città ad avere la meglio. Alla fine, la tribù sarà superata dalla città, e questo avverrà non tanto sul piano della forza quanto su quello dell’organizzazione, dei servizi, del confort e della sicurezza. Sotto questi aspetti la città si dimostrerà, alla lunga, superiore, anche se ciò non decreterà comunque la fine del villaggio: i villaggi persisteranno, ma dovranno accettare uno stato di inferiorità e dipendenza dalle città.

II.1.4. Il «progresso»
La tendenza a vivere in gruppi sempre più ampi ed eterogenei favorisce quello che chiamiamo progresso umano. “L’uomo non avrebbe conseguito nessun successo, se non si fosse organizzato coi suoi vicini in grandi comunità e se non avesse conferito a queste comunità una struttura politica e sociale atta a coordinare lo studio, la realizzazione e l’uso dei lavori collettivi” (Aymard, Auboyer 1955: 11). Una delle più importanti conquiste del progresso è certamente l’invenzione della scrittura , la quale consente, tra l’altro, la realizzazione di un efficiente apparato amministrativo, con i suoi funzionari, i suoi registri e i suoi inventari. “La burocrazia nasce dalla logica dell’organizzazione sociale su larga scala […]. Essa nasce anche dal potere, dal dominio di uno o di alcuni sopra i molti, dove quel dominio richiede degli agenti, interpreti fedeli della volontà del sovrano, che eseguano gli ordini, che traducano in realtà le aspirazioni” (Albrow 1991: 591). È per questo che quei pochi che sanno scrivere (e leggere) sono ripagati lautamente dal re per il servizio che essi rendono al palazzo.
In un primo tempo la scrittura è usata esclusivamente dalla classe dominante e svolge funzioni essenzialmente di tipo contabile e propagandistico: nel primo caso, si tratta di enumerazioni di merci, di elenchi di tributi da riscuotere e poco altro; nel secondo caso, si tratta di brevi iscrizioni incise sul frontone di un tempio, sul piedistallo di una statua, su un cippo o su una stele, e riportano liste di nomi di divinità e di sovrani associati ad un qualche fatto o avvenimento memorabile. Per la massa delle persone analfabete i simboli grafici non sono altro che strane immagini dotate di potere magico, a cui guardare con meraviglia e stupore. In questa prima fase la scrittura colpisce più per il suo effetto scenico, artistico ed emotivo che per il suo contenuto. In ultima analisi, la simbologia grafica serve a mettere in chiaro chi comanda e contribuisce a stabilizzare i rapporti di potere e la gerarchia sociale.
Col tempo i simboli grafici vengono semplificati e resi più facili da riprodurre, il che rende la scrittura accessibile anche ai ceti medi, che se ne servono per esprimere concetti astratti sempre più complessi, raccontare le origini di una città o di una famiglia o di un dio, descrivere una battaglia, redigere un contratto di compravendita o un codice di leggi, ma anche per poetare o filosofare. Da questo momento la scrittura potrà essere impiegata per una propaganda politica di contenuto, ossia legata al significato del testo. Agli inizi dell’Età dei Metalli gli esempi di scrittura sono ancora rari e la maggior parte dell’informazione viene trasmessa per via orale.

II.1.5. Stati, Monarchie, Imperi
Quando la città inizia a guerreggiare con altre città comincia ad apparire sempre più chiaro che anch’essa non è che un punto di partenza in direzione di entità politiche sempre più ampie. Da qui si va affermando la tendenza ad accorpare più città in un unico regno, nella convinzione che un grande regno, questo sì, sarà invincibile. Purtroppo, il tempo dirà che nemmeno questo è vero. I primi regni della Terra sorgono nella Mezzaluna Fertile (5,5 Kyr) .
Con l’affermazione delle monarchie si fa sempre più forte l’esigenza della legittimazione del potere dinastico, non tanto quello del sacerdote, che rappresenta l’autorità tradizionale, quanto quello del re, che rappresenta l’ultimo arrivato. Occorre cioè spiegare alle persone perché quel re è davvero un grande uomo e perché ha veramente titolo ad esercitare il potere sovrano e a trasmetterlo ai discendenti. A ciò provvedono i racconti e i miti composti appositamente dagli scribi di corte, che sono chiamati a raccontare la nascita e le imprese dei personaggi più potenti. A loro non si chiede una ricostruzione fedele di una biografia del sovrano, impresa che sarebbe pressoché impossibile, dal momento che mancano dati certi sulle vite delle persone; si chiede piuttosto un’apologia, un elogio incondizionato del dinasta, senz’altra preoccupazione che fare risaltare la grandezza e la singolarità della sua persona e della sua stirpe. Attraverso la sua opera, lo scriba confermerà e rafforzerà l’investitura divina del sovrano che verrà sancita anche dall’unzione sacerdotale.
Quello che ne risulta, alla fine, è che ogni grande città e ogni grande dinastia sono celebrate da racconti mitici che ne costruiscono storie fantastiche, storie mitiche appunto, che si perdono lontano nel tempo e riconducono i natali della città e del sovrano fondatore ad una qualche divinità. Il messaggio è semplice e chiaro: la dinastia che oggi è al potere ha origine divina e, pertanto, è legittimata a governare senza ombra di dubbio. Questo messaggio viene ripetutamente declamato in varie forme nelle grandi occasioni o nel corso del cerimoniale di palazzo. Saranno poi alcuni personaggi, non necessariamente alfabetizzati, ma particolarmente sensibili e avvezzi a muoversi incessantemente da un luogo all’altro, come pastori e mercanti (nel mondo ellenico saranno gli aedi o cantori), a diffondere oralmente ciò che hanno udito all’interno dei palazzi e da cui sono rimasti impressionati. Questo processo di legittimazione non solo crea le condizioni favorevoli alla stabilità politica, ma contribuisce anche a rendere desiderabile lo status quo ed esecrabile il cambiamento.
Ricapitolando, lo Stato nasce quando ci sono ricchezze (surplus) da gestire (burocrazia) e da difendere (esercito). Il surplus rende possibile la divisione del lavoro: gli artigiani si dedicano alla costruzione di utensili e armi, i sacerdoti si occupano del culto, i mercanti scambiano o vendono merci, i guerrieri si incaricano della difesa e delle razzie, gli scribi redigono i primi documenti e fondano le prime scuole all’interno del palazzo. La burocrazia rende operative le leggi dello stato e regola i rapporti fra i cittadini e le istituzioni. L’esercito, infine, svolge una duplice funzione: difensive e di potenza.
Nelle pagine che seguono prenderò in rassegna alcuni tra i principali sistemi statuali che si sono affermati nella Fertile Mezzaluna, fra 5-2,5 mila anni fa (Egitto, Sumeria, Babilonia, ecc.) e farò in modo che risulti evidente come ciascuno di loro risponderà, in un modo proprio, agli stessi problemi.

II.2. Gli Egizi

La regione egizia è resa unica dalla sua particolare posizione geografica, che la rende in buona parte protetta da elementi naturali: a nord dal mare, ad est ed ovest dal deserto, a sud dalle cataratte del Nilo. Ciò, se da un lato riduce il rischio di attacchi da parte di nemici esterni, dall’altro lato limita la libertà di movimento dei clan indigeni, costringendoli per così dire a ricercare forme di coesistenza pacifica. A ciò si aggiunga il fatto che il Nilo, essendo in buona parte navigabile, favorisce gli spostamenti, gli scambi interni e lo sviluppo di una cultura e di un linguaggio comuni. Va infine ricordata la progressiva crescita demografica. che ha l’effetto di ridurre gli spazi liberi interni, a tal punto che, già 10 mila anni fa, il nomadismo in Egitto è praticamente scomparso e le tribù sono costrette a vivere l’una accanto all’altra. Le condizioni sono tali da porre le singole famiglie di fronte ad una sfida inedita: devono trovare sul posto le risorse di cui hanno bisogno.

II.2.1. Cenni di storia
Nel periodo compreso fra 10 e 5,5 Kyr fa, in Egitto, gli uomini vivono in piccoli villaggi situati in prossimità di terreni fertili e al riparo di tende o capanne costruite con stuoie e canne. Il cereale prevalentemente coltivato è l’orzo, che viene conservato in appositi granai. Molto praticata è la caccia e la pesca. Gli animali addomesticati sono la pecora, la capra e, forse, i bovini. Si dispone di numerosi utensili di pietra e di vasellame di argilla grossolana mista a paglia. Si producono anche rozzi indumenti in lino.
Il più grosso problema che i signori dei villaggi e delle città devono affrontare è il controllo delle acque del Nilo, che richiede lavori di scavo e di canalizzazione al fine di favorire e proteggere i raccolti. Il successo in tale impresa può essere conseguito solo grazie all’azione concertata fra i vari gruppi, il che induce le popolazioni interessate a cooperare fra loro, ma anche ad unirsi sotto la guida di un unico capo. Così avviene che, “attraverso successive fusioni di tribù sotto capi più potenti” (Cimmino 1994: 141), intorno a 5150 anni fa, si giunge alla formazione di due regni, il regno del Nord e quello del Sud, il Basso e l’Alto Egitto.
I due regni si rivelano da subito molto bene organizzati se è vero che l’invenzione della scrittura risale proprio a questo periodo (Bresciani 2000: 143), ma occorrerà un secolo e mezzo prima che Narmer, re dell’Alto Egitto, e suo figlio e successore Menes, riescano, non si sa se a seguito di accordi pacifici o con la forza delle armi, nell’impresa di unificare il paese sotto la propria corona e fondare la prima dinastia. I due sovrani intraprendono una colossale opera di organizzazione amministrativa del paese, che verrà portata a termine dai successori, i quali divideranno l’Egitto in province governate da funzionari, generalmente parenti stretti della famiglia reale. Inizia così la «storia» dell’antico Egitto. Siamo intorno a 5000 anni fa. Il nuovo soggetto politico si rivela subito stabile, e ciò è provato dal fatto che, già dai primi anni, fanno la loro comparsa le prime forme di architettura in mattoni, che trova applicazione soprattutto nella costruzione di tombe. Dal nome della città, Thinis, nell’Alto Egitto, in cui i sovrani stabiliscono la loro residenza, si suole indicare questa fase della storia egizia come Periodo Tinita (3000-2700).
Il periodo denominato Antico Regno (2700-2181) inizia con la Terza Dinastia, che sposta la capitale a Menfi. Grazie alla sua organizzazione interna e alle sue difese naturali, l’Egitto può finalmente iniziare a godere di un lungo periodo di pace e ciò consente al suo sistema sociale di consolidarsi attorno alla figura del re-sacerdote. L’accentramento dei poteri nelle mani di un solo uomo e il gettito tributario sono tali che, già alcuni sovrani della IV dinastia (2630-2510) possono fare erigere tombe regali così monumentali e resistenti (le piramidi) da finire per simboleggiare l’intero paese. Almeno a partire dalla Quinta Dinastia, si va diffondendo l’idea che il re sia generato da una madre umana, senza intervento di un padre umano e senza atto sessuale, ma attraverso il volere espresso dalla divinità (Toynbee 1981: 299). Questa credenza nella natura divina del re non cesserà mai del tutto nel corso della lunga storia dell’Egitto e darà origine, come vedremo, al faraonato, altro elemento caratteristico di questo paese.
Nonostante l’accentramento del potere, l’Egitto non si può ancora considerare un paese propriamente monolitico, perché i principati locali godono di una discreta autonomia, il che costituisce un fattore di instabilità politica. In effetti, l’Antico Regno si dissolve non già ad opera di un attacco esterno, ma a causa di una rivoluzione interna, che è indotta dalla spinta indipendentista dei signori locali e si risolve nella frantumazione del Regno in una miriade di principati e in una situazione di disordine politico.
I tentativi di ricomporre l’unità giungono a buon fine intorno al 2050, quando Mentuhotep II inaugura il Medio Regno (2050-1720), la cui capitale è Lisht, poco più a sud di Menfi. In questo periodo i sovrani si trovano a dover combattere ripetutamente contro signori locali renitenti, che costruiscono qua e là fortezze in difesa della propria indipendenza. È anche a causa di questa imperfetta centralizzazione del potere che l’Egitto non riesce ad evitare l’invasione da parte di popolazioni semitiche nomadi, i cosiddetti Hyksos, che, grazie all’impiego del cavallo e del carro da guerra, conquistano la regione del Delta. La riscossa degli egizi parte dal sud e in particolare dai principi di Tebe, che sono rimasti indipendenti.
È Amosis che riesce a cacciare gli Hyksos e a fondare la XVIII dinastia e il Nuovo Regno (1575-1090), che ha per capitale Tebe, la città del dio Ammone. Questa volta i nuovi signori riescono nell’impresa di unificare saldamente l’intero paese intorno alla propria persona e assumono il titolo «faraone» (in egizio, «grande casa»), il che significa maggiore controllo del paese, maggiori entrate e soprattutto maggiore potenza militare, grazie alla quale l’Egitto può estendere il proprio dominio sulla Nubia e sull’area siro-palestinese. Tra i faraoni di questo periodo si distingue Thutmosi III (1504-1450), “il primo grande condottiero della Storia dopo Sargon; certamente, il primo delle cui imprese si abbia notizia in modo dettagliato, anche perché egli stesso si preoccupò di portarsi dietro, nelle sue diciassette campagne, degli scribi che annotassero e infiorettassero le sue imprese” (Frediani 2005: 540). Thutmosi è autore di numerose campagne militari vittoriose e artefice di importanti annessioni territoriali e di bottini di guerra, parte dei quali vengono devoluti a favore del tempio di Ammone, il cui clero acquista così un considerevole potere (Cimmino 2003: 250-1).
Dopo la fine della ventesima dinastia (1090) segue la cosiddetta Epoca Tarda (1090-332), che è segnata, per oltre due secoli, dal dominio di forze straniere provenienti dalla Libia e dall’Etiopia. Nel 664 il potere torna ad un principe indigeno, Psammetico I, ma solo per poco più di un secolo. Nel 535, infatti, l’Egitto diventa la sesta satrapia dell’impero persiano. Seguiranno le dominazioni greca e romana, ma, nondimeno, la civiltà egizia sopravvivrà fino alla morte di Cleopatra (30 a.C.).

II.2.2. Il monoteismo di Akhenaton
Nel corso del Nuovo Regno si registra in Egitto un evento di straordinaria importanza, vale a dire il tentativo da parte di un faraone di introdurre il monoteismo nel paese, tentativo che finirà, come vedremo, in un fallimento. Qui di seguito cercheremo di capire le ragioni di questo tentativo e del suo epilogo fallimentare.
Dopo le conquiste di Thutmosi III, l’Egitto è divenuto un impero multinazionale ed è forse la maggiore potenza della Fertile Mezzaluna. La sua estensione e complessità sociali sono tali che dopo il 1500, si ritiene necessario dividere il paese in due visirati, per l’Alto e il Basso Egitto (Schlögl 2005: 17). Al tempo stesso, il faraone è forse l’uomo più potente della Terra. Egli però non può esercitare direttamente il suo potere, ma lo può fare solo attraverso l’intermediazione di collaboratori, fra i quali spiccano i due visir e il sommo sacerdote del dio Ammone, che nel frattempo è diventato dio nazionale. Questa situazione potrebbe essere vista da un faraone come una macchia, per non dire un’insidia, per il monolitismo del suo potere, e può essere indicata come una delle cause del tentativo di introdurre il monoteismo operato da Amenofi IV (1364-1347 a.C.).
In effetti, la logica monoteista si presta ad un accentramento estremo del potere politico nelle mani di un uomo solo. Il principio è semplice: così come c’è un unico potere in cielo, allo stesso modo ci dev’essere un unico potere in terra, ed è il potere del faraone. In realtà, il tentativo di imporre il monoteismo da parte di Amenofi IV si inserisce all’interno di una lotta intentata dal faraone, soprattutto contro i sacerdoti di Ammone, per affermare il monopolio del potere politico.
Un’altra importante causa in grado di spiegare la svolta monoteistica di Amenofi IV va sicuramente individuata nella personalità dello stesso faraone, che è caratterizzata da una spiccata sensibilità e intelligenza, ma anche da una profonda fede religiosa, al limite del misticismo, e fa di lui un idealista e sognatore, assai lontano dall’uomo d’azione che era stato Thutmosi III. Secondo Jan Assmann, ad Amenofi IV “spetta di diritto un posto non soltanto tra i fondatori di religioni quali Mosè, Gesù e Maometto, ma anche fra le menti più illuminate che abbiano mai investigato il mondo della fisica come Talete, Anassimandro, Tolomeo, Newton e Einstein” (2000: 262). Ebbene, Amenofi IV è fermamente convinto che esista un solo dio, che egli individua in Aton, il dio sole. Benché sia raffigurato con la forma di un cerchio da cui si dipartono i raggi che inondano di luce la terra, in realtà Aton non è “il Sole nella sua essenza fisica, ma «la potenza che ha creato il Sole stesso: il dio creatore e protettore del mondo»” (Bramini 2006: 71).
Le intenzioni del faraone sono tanto serie da indurlo a cambiare il proprio nome in Akhenaton, che vuol dire «Colui che è utile ad Aton». Egli fa cancellare i nomi delle divinità dovunque si trovino (Gardiner 1971: 208); costruisce in pochi anni una nuova capitale ad El-Amarna, proprio nel bel mezzo del paese, tra Alto e Basso Egitto, e la chiama Akhetaton; rinnova i quadri amministrativi dello Stato sostituendo i vecchi funzionari con persone alle quali viene richiesto come requisito essenziale l’avere abbracciato la nuova fede. Ma il monoteismo ha almeno tre importanti ostacoli dinanzi a sé, ossia i sacerdoti, gli intellettuali e il popolo: molti sacerdoti, specie quelli di Ammone, che sono i più potenti del paese, non vedono di buon occhio la nuova religione, che riduce le entrate dei loro templi e a causa della quale temono di scomparire; gli intellettuali fanno fatica ad accettare una religione che rompe brutalmente con una tradizione millenaria; da parte sua, il popolo si rivela incapace di comprendere una religione astratta, priva di miti e di valori morali.
Per di più, il monoteismo va contro una consolidata tradizione di stampo nazionalista che pone l’Egitto al di sopra delle altre nazioni, e anche per questo risulta difficilmente comprensibile e accettabile per la maggioranza degli egiziani. In effetti, l’idea di un dio universale, la cui protezione si estende a tutti gli uomini, mette in discussione questo sentimento nazionalistico, che è ormai profondamente radicato fra le masse. Ammettere un solo dio per tutti gli uomini significa porre la Nubia e la Siria, ma anche le popolazioni nomadi di infimo rango, sullo stesso piano dell’Egitto, significa cioè ammettere la fratellanza universale di tutti i popoli, e questa mentalità è del tutto estranea agli egiziani.
A questo quadro, che è già molto problematico, va aggiunto il fatto che il faraone lascia, alla sua morte, una situazione turbolenta, sia all’interno, dove, in assenza di figli maschi del faraone stesso, si accende una lotta per la successione e si apre un periodo di anarchia, sia all’esterno, dove i rapporti col re ittita Suppiluliuma peggiorano di lì a poco (Schlögl 2005: 84). Di questa situazione sanno approfittare i sacerdoti di Ammone, che entrano in agitazione contro la religione di Aton. Questo stato di crisi termina otto anni dopo la morte di Akhenaton con l’estinzione della XVIII dinastia e la cancellazione delle opere e della memoria del faraone «eretico».
La religione di Aton però non scompare del tutto, ma lascia “tracce, anche profonde, nella vita del Paese” (Cimmino 1987: 362). Infatti, il monoteismo verrà in qualche modo ripreso da Mosè, mezzo secolo dopo la morte di Akhenaton, e andrà a costituire il tratto specifico del popolo ebraico (vedi sezione III).

II.2.3. Il faraone-dio
Se a livello regionale i villaggi si uniscono per ragioni contingenti legate alla necessità di cooperare per sopravvivere, è difficile immaginare un’unità nazionale senza il collante della religione. In effetti, l’Egitto faraonico è reso possibile dalla religione ed è inconcepibile senza di essa. Gli egizi sono propensi a credere che i caratteri esteriori del loro sistema politico siano “fissati ab aeterno da un dio creatore” (Scamuzzi 1987). Insomma, tutto, in Egitto, ruota intorno a qualche divinità. Ogni insediamento umano ha il suo dio e questo dio è considerato il padrone di quel territorio: a lui si rende il culto in quel luogo e ogni luogo venera un unico dio (sotto questo aspetto, si può parlare di monoteismo). Ma c’è rispetto per gli altri dèi come per le altre forme di culto. “Non si ha notizia di punizioni, di riprovazioni inflitte per violazioni religiose, di fatto o di solo pensiero” (Nera 1985: 55).
La particolarità del modello egizio va individuata nella divinizzazione del re. La credenza nell’origine divina dei sovrani, in qualche modo, può essere equiparata ad una sorprendente e originale invenzione. È la prima volta, infatti, che si attribuisce una natura divina ad un essere umano e vi si crede per fede. Ebbene, questa invenzione rende possibile la realizzazione di una società umana di dimensioni mai viste prima. Il meccanismo è semplice: in quando sudditi dello stesso re-dio, milioni di persone sparse su un territorio di centinaia di migliaia di Kmq, si ritengono appartenenti allo stesso popolo e condividono la stessa cultura. Ciò costituisce un fenomeno nuovo e straordinario, in precedenza nemmeno immaginabile e dà conto di un modello politico nuovo, che è come se fosse stato disegnato da un dio in persona, a forma di piramide. “L’Egitto faraonico ci fornisce uno degli esempi più impressionanti di monarchia assoluta: il diritto divino, fondamento di tutte le monarchie di questo genere, vi ha trovato la sua espressione più energica e le conseguenze più estreme” (Aymard, Auboyer 1955: 34).
In teoria l’intero paese si considera proprietà degli dèi e vive per gli dèi. In realtà, ogni persona e ogni cosa appartengono al faraone, anche se questi non manca mai di riconoscere, umilmente, che il proprio potere viene dal cielo. In ogni caso, per l’Egitto il faraone è tutto: è sommo re e sommo sacerdote, è uomo e dio, e ciò gli conferisce un potere assoluto. Egli è consapevole delle proprie origini divine o, almeno, così lascia credere. “Sono il figlio vostro, creato dalle vostre due braccia. Voi mi avete fatto sovrano Vita, Salute, Forza di ogni paese. Voi avete fatto di me la perfezione sulla terra” (Cimmino 1994: 138).
In pratica, l’intero paese ruota intorno ad un centro, che è la persona del faraone, e tante realtà locali che generalmente fanno capo ad un tempio. Il tempio rappresenta il cuore della religione egizia. Al suo interno possono accedere solo i sacerdoti, i quali, solitamente, si limitano a svolgere atti rituali in modo autonomo, senza preoccuparsi di uniformare le proprie attività di culto con quelle degli altri sacerdoti, né di creare elaborati sistemi dottrinali e dogmatici, né di fondare chiese, né di prendersi cura delle anime. L’essenza della loro religione è la celebrazione del rito, la cui funzione è quella di attirare la benevolenza del dio. A fronte di questo impegno modesto, essi possono contare su solide entrate, e perciò il ruolo sacerdotale è molto ambito. Generalmente si diventa sacerdote “per eredità o per acquisto della carica, più raramente per elezione” (Cimmino 1994: 108). Ogni tempio ha la sua divinità locale, di cui il faraone è considerato il figlio. In ragione di questa sua filiazione, il faraone è tenuto a provvedere al culto di tutte le divinità locali, anche se in pratica ciò avviene attraverso l’intermediazione di un sacerdote delegato (Bresciani 2000: 63). Così faraone e sacerdoti governano da padroni incontrastati l’Egitto.
Come tutte le cose di questo mondo, anche la divinizzazione del re ha determinati effetti, che potranno essere visti in chiave positiva o negativa a seconda dei propri convincimenti personali. Per un re-dio è facile ottenere il massimo di fiducia e consenso da parte dei sudditi e avocare un potere assoluto su grandi popolazioni e in ogni settore sociale, conseguendo così un’eccellente stabilità sociale. In effetti, il suddito egizio si sente sicuro di vivere nella società migliore possibile e di essere governato da un dio le cui decisioni sono le migliori possibili. Non ci sorprende, allora, se in Egitto le rivolte popolari sono rare. Le masse, che pure vivono in condizioni di povertà e di sfruttamento a vantaggio di alcune categorie privilegiate (i parenti del re, i sacerdoti, gli alti funzionari), probabilmente non si accorgono di essere sfruttate o, se si ritengono tali, prevale in esse l’inclinazione all’obbedienza e la certezza che la condizione in cui versano sia inevitabile o il minore dei mali. Da ciò lo spirito di sottomissione e la docilità di questi miserabili che, quasi mai, osano ribellarsi all’ordine faraonico che, di fatto, continua ad opprimerli.
Il rovescio della medaglia è che, in realtà, il faraone è un uomo come tutti gli altri e non c’è alcuna garanzia che il suo governo sia esente da errori o il migliore possibile. “Gli uomini […] divinizzano troppo spesso il potere. Attribuiscono ai capi una facoltà pressoché illimitata di modificare la storia del mondo. Immaginano che i governanti esercitino un pieno controllo sulla politica, sull’economia, sulle burocrazie, sugli apparati militari. Ma si ingannano. La realtà del potere è diversa dalle apparenze. Un capo conosce molto poco il mondo che lo circonda, e molto poco riesce a trasformarlo” (Melograni 1977: 1). Di questo lo stesso faraone è probabilmente consapevole, come lo sono verosimilmente le persone a lui più vicine. Ma poiché l’intero sistema sociale si regge su questa credenza, è interesse della classe dominante comportarsi come se il faraone fosse davvero un dio. Il cerimoniale, le parate, le pompe sono i mezzi di cui quel sistema sociale si serve per “occultare a se stesso e agli altri la sua insicurezza e la sua miseria” (Melograni 1977: 1-2). Ora, un faraone che è creduto dio, mentre in realtà è un uomo, può commettere qualunque errore senza che nessuno abbia il potere di sindacarlo. È questo il rovescio della medaglia del faraonato.

II.2.4. L’apparato amministrativo
Nel Nuovo Regno l’Egitto è suddiviso in una quarantina di distretti, chiamati «nomi», ed è praticamente governato da due visir, che sono coadiuvati da una ristretta schiera di funzionari di primo livello, i quali, a loro volta, si servono di funzionari di secondo livello, e così via. Tra i funzionari del faraone dovremmo annoverare anche i sacerdoti, i quali però, in taluni casi, rappresentano centri di potere parzialmente autonomi. In generale è il faraone stesso a nominare i suoi collaboratori più stretti, che sceglie quasi sempre nella cerchia dei suoi parenti e delle persone più fidate. Alla fine, faraone, visir, funzionari e sacerdoti costituiscono il vertice della piramide sociale, ossia una ristretta élite aristocratica, che controlla pressoché tutte le risorse del paese e che è ben distinta dal resto della popolazione: un classico esempio di società duale.
Questo apparato burocratico si dimostra molto efficiente e, grazie ad esso, il faraone è in grado di censire ogni risorsa economica del paese (bestiame, campi, imbarcazioni, alberi), ogni impresa produttiva (manifatture, cave di pietra, miniere, botteghe) e la forza lavoro (contadini, artigiani, artisti, mercanti). Tutto è scrupolosamente registrato e a tutti, con poche eccezioni, lo Stato chiede un’imposta oltre ad un contributo di lavoro personale.

II.2.5. L’agricoltura
La principale risorsa economica degli egizi è l’agricoltura. La maggior parte delle terre sono di proprietà del faraone e dei templi e date in affitto di mezzadria a persone che non lavorano direttamente la terra, ma la affidano a contadini. Il mezzadro dovrà consegnare la metà del prodotto al proprietario, mentre con l’altra metà dovrà compensare i contadini e tenere una parte per sé (Bresciani 2000: 80). Si coltivano, in prevalenza, orzo, frumento, legumi, alberi da frutta, vite, lino e cotone. La quantità del raccolto dipende dall’inondazione del Nilo: “un’inondazione insufficiente significava carestia, un’inondazione troppo abbondante significava l’impossibilità di seminare per tempo” (Cimmino 1994: 197). Allo scopo di controllare il corso delle acque, gli uomini realizzano un sistema complesso di dighe, chiuse, canali e bacini. Molto praticato è anche l’allevamento di diversi animali, come il bue, l’asino (il cavallo, dopo gli Hyksos), il maiale, il montone, la capra, oche e anatre (i polli sono sconosciuti). Il lavoro dei contadini-allevatori è ingente e frustrante. Essi, infatti, lavorano tutto il giorno, ma poi, dovendo consegnare una parte del raccolto al faraone, resta loro solo il necessario per la sussistenza, o poco più.

II.2.6. L’artigianato
In Egitto le attività artigianali sono ben rappresentate, con particolare riguardo alla filatura e alla tessitura del lino. I tessuti sono molto apprezzati e, insieme al papiro, costituiscono “uno dei prodotti più esportati” (Bresciani 2000: 104). In buona misura gli artigiani (fabbri, orefici, ebanisti, tessitori, tintori, ecc.) lavorano al diretto servizio del faraone e dei suoi funzionari e possono così marginalmente beneficiare dei loro privilegi. Perciò la loro condizione è leggermente migliore rispetto a quella dei contadini.

II.2.7. Il commercio
Il commercio interno deriva dalla divisione del lavoro; quello esterno dalla necessità di procurarsi oggetti e materie prime, come il legname, di cui il paese è carente, e che vengono scambiati con altre merci. È anche a ragione di queste esigenze di scambio che si avverte la necessità di costruire strade. Viaggiare è comunque rischioso e di solito ci si muove solo in caso di stretta necessità e in gruppi organizzati. La moneta rimarrà sconosciuta fino al periodo ellenistico.

II.2.8. Le categorie più umili
La società egizia si fonda essenzialmente su princìpi religiosi, implicanti solidarietà e mutuo rispetto, anche nei riguardi delle categorie sociali più deboli. La donna ha gli stessi diritti dell’uomo e, almeno in teoria, può esercitare il sacerdozio e ascendere al trono, anche se in pratica queste evenienze sono poco frequenti (Bresciani 2000: 92-4).I pastori sono considerati gente selvaggia e fatti oggetto di disprezzo, ma non per questo sono maltrattati. Le popolazioni straniere, che generalmente svolgono lavori umili, non sono trattate in modo molto diverso rispetto alle classi più modeste della stessa popolazione indigena: tale è il caso degli ebrei. Perfino gli operai semplici, che lavorano al servizio del faraone, nelle sue terre e nei suoi cantieri, vengono di norma trattati con generosità e comprensione, essendo anche previste cure mediche e vacanze atte a garantirne un buon equilibrio fisico e mentale (Bresciani 2000: 81). Gli stranieri sono rispettati e godono “degli stessi diritti degli egiziani” (Bresciani 2000: 74). Insomma, a tutti è riconosciuto almeno il diritto ad un’esistenza dignitosa. Ne risulta una società tutto sommato umana, il che contribuirebbe a spiegare il profondo attaccamento del popolo a quel sistema.

II.2.9. La guerra
Per la maggior parte della sua lunga storia, l’Egitto vive in pace e si accontenta di difendere i propri confini da infiltrazioni indesiderate. Se si eccettuano i pochi faraoni che si impegnano in politiche espansionistiche, per il resto la guerra costituisce raramente una necessità primaria per l’Egitto e, per conseguenza, è relativamente scarso il prestigio di cui godono i guerrieri.
Quando la situazione lo richiede, il faraone non deve far altro che ordinare ai governatori delle sue province di arruolare un certo numero di uomini. L’arruolamento è un obbligo che viene imposto con la forza, ma non mancano coloro che lo fanno volontariamente, attratti dal desiderio di sottrarsi ad un’esistenza grama e dalla speranza di conquistare un ricco bottino. Al tempo stesso, a chi se lo può permettere viene data la possibilità di farsi sostituire da un altro in cambio di denaro.
Col tempo diverrà più frequente il ricorso a truppe mercenarie. Il rischio è che dei generali prezzolati potrebbero essere tentati di attuare un colpo di stato, ma, ove ciò dovesse accadere, essi dovranno trovare il modo di legittimare il proprio potere, per esempio sposandosi con una principessa, se vorranno conferire una qualche stabilità al proprio trono.
Dopo una campagna militare, i soldati vengono congedati e, in caso di vittoria, molti di essi riescono a portare a casa una parte del bottino, mentre agli ufficiali vengono elargite prebende, incarichi remunerativi e, più raramente, anche schiavi.
Nel Nuovo Regno esiste un esercito permanente composto di 50 mila soldati arruolati con leva obbligatoria e diviso in quattro divisioni, chiamate ciascuna col nome di una delle quattro principali divinità del paese: Ra, Ammone, Ptath e Seth. L’armamento comprende archi, picche, giavellotti, scimitarre, pugnali, scudi e, a partire dagli Hyksos, anche carri da guerra a due ruote trainati da cavalli (Bresciani 2000: 78).

II.2.10. La schiavitù
In Egitto la schiavitù è un fenomeno scarsamente rappresentato, ma esistente. Si diventa schiavi generalmente per insolvenza di debiti. Tuttavia lo schiavo non perde del tutto i diritti civili, come accadrà in Grecia e a Roma, e di norma riesce a condurre un’esistenza accettabile. Alcuni schiavi vengono selezionati in base alle loro qualità personali e destinati a specifiche mansioni: alcuni vengono reclutati come soldati, altri come interpreti e qualcuno può perfino accedere alla carriera amministrativa, come testimonia il racconto biblico di Giuseppe (Gn 37-50).

II.2.11. Un mondo chiuso
Tale è l’essenza dell’Antico Egitto: un grande popolo con una sola volontà; uno Stato monolitico, autarchico, chiuso, pieno di sé, misoneista; un sistema politico nato perfetto, ma, proprio per questo, non ulteriormente perfettibile e soggetto a cadute rovinose; una società statica, immobile, fossilizzata; una sorta di formicaio, dove ognuno è prigioniero del proprio ruolo e dove si ignora il valore della libertà; un mondo improntato dall’alto e dove l’individuo ha scarso valore. A rigore, nemmeno il faraone può essere considerato un uomo libero. Anch’egli, infatti, costituisce una parte di quel sistema ed è «costretto» a recitare il ruolo assegnatogli. Gli egizi non riescono, o non vogliono, concepire un modello di società alternativo e rimangono legati a quel mondo, che li fa sentire sicuri di vivere nella società migliore possibile e governati da un «uomo-dio», le cui decisioni sono le migliori possibili.

II.2.12. Il pensiero religioso
Dopo la morte, il faraone ritorna nel mondo degli dèi da cui è venuto. Ma qual è il destino post mortem degli altri uomini? Gli egizi sono inclini a credere che anche gli uomini comuni abbiano una scintilla divina o spirito vitale o anima, detta Ka. Essi sono i primi al mondo a credere nell’esistenza di un’anima e di un aldilà di gran lunga più desiderabile rispetto alla vita terrena. Secondo gli egizi, il corpo muore quando viene abbandonato dalla sua anima, ma può ricongiungersi con essa, a condizione che conservi la propria integrità. Dopo che si sono ricongiunti, corpo e anima iniziano il cammino nell’aldilà, dove verranno giudicati nel tribunale di Osiride e, se considerati degni, entreranno nel mondo eterno del dio Ra, l’equivalente del paradiso.
In una stele funeraria di 4 mila anni fa si legge: «ho dato pane all’affamato, vesti all’ignudo, e questo ho fatto per il desiderio di essere un eletto verso il dio grande» (Curto 1981: 161). Per gli egizi, la vita terrena è solo una tappa intermedia, mentre la morte segna l’inizio della vera vita, quella eterna. Secondo l’autore del Libro dei Morti, che scrive intorno al 3500 BP, alla morte l’uomo viene giudicato da Osiride e punito o premiato a seconda della sua condotta morale: il reo viene annientato, il giusto destinato alla felicità in eterno. Per questo gli egizi imbalsamano il cadavere del faraone e lo seppelliscono in una tomba adeguata al rango, dove possa conservarsi per un tempo indefinito, e per la stessa ragione gran parte delle risorse del paese viene impiegata “per scopi funerari o per il mantenimento del culto dei morti” (Cimmino 1994: 32). Di converso, gli egizi costruiscono “solo case modeste per la loro breve vita terrena, riservando tutti i fasti alla «casa eterna», ove avrebbero trascorso la vita nell’aldilà” (Vardiman 1998: 254).
Partendo da poche idee essenziali, quali l’esistenza di esseri divini e di un’anima, gli egizi costruiscono concezioni teologiche molto avanzate, alle quali attingeranno a piene mani gli ebrei. Essi concepiscono, per esempio, che un dio abbia creato l’uomo ad immagine di sé e il mondo in funzione dell’uomo, che la malattia sia una punizione divina per i peccati dell’uomo, che gli dèi siano inclini alla misericordia e al perdono, e che perciò bisogna pregarli, che la preghiera non serva solo per ottenere la guarigione delle malattie e per aiutare i vivi, ma anche per salvare le anime dei morti (Curto 1981: 163-4). Gli egizi si pongono anche il problema del male e giungono a formulare ipotesi destinate ad avere un futuro, come le seguenti: 1) il male è conseguenza necessaria della libertà concessa da Dio all’uomo; 2) il male è una realtà esistente per volontà di Dio ed è imperscrutabile per l’uomo, il quale non può fare altro che piegarsi impotente di fronte a un Destino che lo sovrasta; 3) il male è opera di un dio malvagio che si contrappone al dio del bene (è la concezione dualista). Queste idee saranno riprese dai filosofi e pensatori greci, dalle religioni dualiste (zoroastrismo, manicheismo, gnosi), e anche dal cristianesimo.
Coerentemente con questi princìpi, si diffonde l’usanza di scrivere, prima sulle pareti della tomba del faraone e poi su papiri, che vengono introdotti nel sarcofago o infilati fra le bende della mummia, invocazioni e formule magiche, che hanno la funzione di guidare lo spirito del defunto nel suo cammino verso il mondo del dio Ra. Successivamente questi testi saranno raccolti in quello che è noto col nome di Libro dei Morti .

II.2.13. Diritto
Il faraone incarna lo spirito dell’intero paese e la sua volontà ha valore di legge. Ciò spiega perché gli egizi non avvertono l’esigenza di elaborare un diritto paragonabile a quelli mesopotamici: si conoscono, tuttavia, raccolte di leggi di tono minore. In Egitto nessun individuo, a parte il faraone, è riconosciuto portatore di diritti propri. Tutti sono sudditi e gli stessi funzionari possono solo esercitare un potere riflesso.

II.2.14. Cultura generale
Liberi da ogni preoccupazione per la sussistenza e non svolgendo attività manuali, molti alti funzionari possono dedicarsi ad attività di pensiero, ed è soprattutto a loro che dobbiamo la cosiddetta «civiltà egizia», che è la risultante delle acquisizioni conseguite in discipline, come la geometria, l’architettura, l’astronomia, l’astrologia e la medicina, e dei progressi tecnici nella coltivazione della terra, nella mummificazione dei cadaveri, nelle attività artigianali e in altri settori. In tutti questi campi, gli egizi si cimentano principalmente per rispondere ai problemi concreti della vita quotidiana, certo, ma anche per puro interesse speculativo e semplice curiosità intellettuale, raggiungendo livelli degni di nota, anche se rimangono lontani dall’eccellenza ellenica. È inutile, infatti, cercare in Egitto un pensiero filosofico o politico paragonabili a quello che svilupperanno gli antichi greci. E lo stesso vale per il metodo storiografico. La storia interessa gli egizi soltanto a fini dinastici e si riduce “a poco più che liste di nomi, alla somma degli anni di regno di ciascun sovrano e alla annotazione di alcuni fatti essenziali” (Cimmino 1994: 301).

II.2.15. Arte
Nel tempio e nel palazzo, accanto agli scribi che si occupano prevalentemente dell’amministrazione dello Stato, lavorano anche artisti, il cui compito è quello di abbellire la casa del dio e curare la propaganda di Stato. Affreschi, iscrizioni, stele, lapidi, obelischi, statue, templi e altro ancora, tutto ciò obbedisce, in ultima analisi, all’intento di magnificare e legittimare la figura del faraone e la ragion di Stato.

II.3. I Sumeri

La Sumeria è una regione della Mesopotamia prospiciente il Golfo Persico, grande come la Lombardia, geograficamente aperta e abitata, diecimila anni fa, da molte popolazioni nomadi. Il clima è caldo e poco piovoso, ma, in compenso, si può contare sull’acqua di due fiumi navigabili, il Tigri e l’Eufrate, che può essere utilizzata sia per trasportare persone e merci, sia a scopo di irrigazione, ovvero per rendere fertili le campagne, a condizione che sia opportunamente canalizzata, il che richiede il lavoro organizzato di molte persone. La Sumeria è povera di materie prime di pregio (non c’è legname da costruzione, né pietre, né marmo, né rame, né oro, né argento, né ferro); vi abbondano invece materie povere, come l’argilla e la canna. In questa terra, intorno a 5.500 anni fa, calano alcune tribù asiatiche, che riescono ad insediarvisi stabilmente, talvolta imponendosi con la forza, talaltra integrandosi con le popolazioni locali. Sono i sumeri.
L’assenza di barriere naturali comporta da un lato uno straordinario sviluppo di attività commerciali, dall’altro un altrettanto straordinario rischio di aggressioni e di guerre, che induce i clan ad unirsi sotto un solo dio e ad organizzarsi fino a costituire grandi e potenti agglomerati di tribù e fondare grandi e potenti città. Nel modo di affrontare le sfide poste loro dal territorio e dalla crescita demografica, i sumeri ricordano, sotto certi aspetti, gli egizi (passaggio dal nomadismo alla vita sedentaria urbana, organizzazione sociale di tipo gerarchico, apparato burocratico, invenzione della scrittura, e così via), ma, sotto molti altri aspetti, essi esibiscono un comportamento proprio (diversa concezione della regalità, maggiore apertura con popolazioni straniere, maggiori scambi culturali e commerciali, indisponibilità delle città a sottomettersi ad un potere centrale, maggiore spazio alla iniziativa individuale, maggiore fiducia nell’uomo, ecc.).
Ora, volendo prescegliere un elemento particolarmente connotativo della civiltà sumera, potremmo individuarlo proprio nella fiducia nei mezzi umani. “La vera e fondamentale differenza fra la struttura economico-amministrativa egiziana e quella mesopotamica è che qui le varie attività sono dovute all’iniziativa e all’estro individuale più di quanto non accadesse nel paese dei faraoni, dove tutto era minutamente regolato e prescritto dall’alto” (Camera, Fabietti 1983: 71). In effetti, come si può dedurre da certi passi della loro letteratura, i sumeri si svincolano “relativamente presto dalla tutela degli dèi, tentando di venire a capo da soli della vita terrena” (Uhlig 1981: 153). Va ricordato, tuttavia, che questo processo di emancipazione dalla religione è da intendersi solo in senso parziale. Anche i sumeri, infatti, rimangono, come avremo modo di vedere, ampiamente condizionati dall’elemento religioso.
La cosa più sorprendente è che in molte delle loro intraprese i sumeri sono degli iniziatori assoluti. Essi sono “i primi a inventare la città, i primi a inventare la scrittura, i primi a inventare la scuola, i primi a introdurre l’istituto regale, e così via” (Pettinato 1994a: 385-6) e, nonostante non conoscano né il cavallo, né il cammello, la sola bestia da soma su cui possono contare essendo l’asino, possono essere indicati come i “veri promotori della civiltà umana in assoluto, la stessa civiltà che è anche la nostra, sicché è lecito considerarli, almeno in parte, nostri antenati e precursori” (Pettinato 2003: 9-10).

II.3.1. Dal surplus all’organizzazione dello Stato
Per comprendere i passaggi attraverso cui i sumeri giungono a costituire uno Stato, occorre partire dalla figura del contadino, ovvero dal produttore di surplus. È grazie al lavoro del contadino, infatti, che la terra produce generi alimentari (grano, orzo, olio) in quantità tali da consentire un’economia di accumulo e un mercato. Il surplus della terra può essere scambiato con materie prime, che a loro volta possono alimentare fiorenti industrie di trasformazione, che generano nuova ricchezza e innescano nuovi meccanismi di divisione del lavoro e di organizzazione sociale.
Costretto a vivere incollato alla propria terra e lontano dalla città e dal villaggio, il contadino si viene a trovare in una situazione paradossale: da un lato, il suo lavoro è fondamentale e irrinunciabile per la sussistenza della comunità; dall’altro, esso è il più esposto ai pericoli, il più vulnerabile, il più precario, e non solo per il rischio che viene dalle intemperie, dalle inondazioni, dalla siccità, dal vento, dal fuoco, dai parassiti e dalle malattie, ma anche per l’esistenza di un altro rischio, ancora più frequente e drammatico: quello di essere depredati. I prodotti della campagna, infatti, suscitano la bramosia di popolazioni vicine che, avendone l’occasione, tentano di impadronirsene, attraverso di azioni di furto, rapina o razzia, che possono essere compiute da persone isolate oppure da gruppi organizzati. Qui ci interessano di più i secondi, che chiamerò «predoni».
Generalmente i predoni sono clan di pastori senza particolari legami territoriali, i quali, spostandosi da un luogo all’altro con le loro greggi e le loro famiglie, si appropriano di qualunque cosa indifesa trovino nel loro cammino e, se scoperti con le mani nel sacco, non esitano ad uccidere. Per un clan di contadini, la visita di predoni costituisce una delle peggiori evenienze immaginabili, perché mette in pericolo non solo i loro averi ma anche le loro vite.
In teoria, il contadino dovrebbe poter contare sulla protezione del sacerdote-re, che dispone di guardie in grado di sorvegliare il territorio e dare la caccia alla criminalità organizzata, ma anche di magazzini spesso stracolmi di surplus che potrebbe essere redistribuito alle famiglie depredate. In pratica però, questi servizi o non esistono o si rivelano insufficienti e, a conti fatti, per il contadino è più conveniente fronteggiare le avversità con i propri mezzi, adoperando cioè le proprie braccia e quelle dei propri figli. Ciò tuttavia non solo non gli garantisce rilevanti probabilità di successo, ma nemmeno lo esime dal dovere di versare una consistente parte del raccolto al sacerdote-re, né più né meno di come avviene nell’Egitto coevo. La riscossione delle imposte è inflessibile ed è vista dal contadino come una vera e propria calamità. “Il contadino temeva soprattutto due disgrazie: le cavallette e lo «scriba delle tasse»! I risultati erano identici: una parte del raccolto spariva, con la differenza che lo scriba era accompagnato da guardie armate di bastoni, che avevano il compito di convincere il contribuente recalcitrante a versare le sue tasse tirando fuori il grano che aveva nascosto!” (Chierici 1980: 32).
Questa situazione appare subito insostenibile, sia per i contadini, che spesso risultano soccombenti e ci rimettono la vita, sia per il sacerdote-re, che non può certo pretendere di riscuotere le tasse dai morti. Non è difficile comprendere che da questa palude si può uscire solo a condizione di dotare il sacerdote-re della forza necessaria per debellare la piaga dei predoni e garantire la sicurezza nelle campagne. Così, i consigli degli anziani delle varie tribù si accordano sulla necessità di conferire al sacerdote-re la facoltà di arruolare un certo numero di contadini, nei periodi in cui c’è poco lavoro nelle campagne, per dare la caccia ai predoni. Alla fine, sperimentato che, così facendo, ci guadagnano tutti (i contadini in sicurezza, il sacerdote-re in potere), si stabilisce di rendere stabile quella consuetudine e ciò è, credo, all’origine della monarchia.
Da qui in avanti, infatti, il sacerdote-re diventa re-sacerdote, o semplicemente «re», e assume i poteri sovrani pressoché in tutti i settori sociali. In particolare, il re ha il compito di arruolare eserciti stagionali e tenere lontani i predoni, ma anche il compito di amministrare la giustizia e lo Stato, e tutto ciò in aggiunta alle tradizionali funzioni religiose che in precedenza erano riservate al sacerdote. Ora, grazie all’incremento delle entrate tributarie che consegue alla relativa sicurezza nelle campagne, il re può costruire palazzi, creare apparati amministrativi e fondare città. Nascono così le città-stato e le guerre.
A differenza di quello egizio, il re mesopotamico non è un dio e nemmeno un semplice uomo. Egli è piuttosto “il rappresentante della divinità presso gli uomini e il rappresentante degli uomini presso la divinità, l’intermediario fra il mondo divino e il mondo umano” (Aymard, Auboyer 1955: 110). Il re, potremmo dire, è un «semplice» servitore della divinità, che lo presceglie allo scopo di portare a compimento un proprio piano, che di solito consiste nell’assicurare un futuro glorioso alla dinastia e alla città. In pratica, egli è tenuto non solo a cogliere e a osservare la volontà divina, ma anche a dimostrare di essere all’altezza del compito, e il miglior banco di prova non può essere altro che il campo di battaglia.
Da ciò deriva la diffusione delle pratiche divinatorie, che si avvalgono dell’osservazione e dell’interpretazione di ogni segno possibile. La volontà divina può essere colta attraverso i sogni, gli oracoli, il movimento degli astri, dei venti e delle acque, il volo degli uccelli, e molti altri segni, che i sacerdoti non cessano di osservare. Se qualcosa va storto, la responsabilità è del re, che non ha saputo ubbidire, del sacerdote, che non ha saputo cogliere i segni, e dello stesso dio, che si è lasciato sovrastare da un altro dio. L’inevitabile conseguenza è l’eclissi della città e di tutti i suoi protagonisti, dio compreso.
La legittimazione del re mesopotamico perciò non è scontata, ma dev’essere continuamente confermata con azioni di forza convincenti: solo chi esce vittorioso dalle guerre è amato dagli dèi e merita di essere chiamato re. È opinione diffusa, infatti, che il dio promette e concede la vittoria a suo favorito. “Perciò le descrizioni delle campagne militari assumono la forma di rendiconti resi alla divinità da cui il re si ritiene protetto” (Aymard, Auboyer 1955: 110).
I sovrani più abili e fortunati, specie quelli che riescono a conquistare il potere venendo dal nulla, sentono più forte l’esigenza di dimostrare di essere veramente i migliori e tendono ad impegnarsi in imprese memorabili, come quella di costruire un grandioso monumento funerario o un sontuoso tempio, o emanare un codice legislativo (possibilmente inciso su un supporto perenne, a futura memoria), o incoraggiare la celebrazione delle proprie gesta, per esempio, favorendo la creazione di leggende sulle proprie origini divine o circondandosi di artisti, che generalmente realizzano opere più fascinose che utili, il cui scopo principale è quello di stupire e di mostrare a tutti la magnificenza del committente.
Al contrario dei faraoni, che non coltivano sogni imperialistici, se non entro limiti assai modesti, i re mesopotamici manifestano spesso mire espansionistiche e cullano idee di dominio universale, come stanno a testimoniare i titoli che alcuni di essi si attribuiscono: «Re delle quattro regioni», «Re di tutto», «Re dell’universo». Ad onta di questa grandiosa aspirazione imperialistica, i mesopotamici si rivelano incapaci di creare imperi stabili, perché alla fine prevale il radicato individualismo delle città. “Ai conquistatori mesopotamici riesce difficile raggruppare sotto il proprio dominio perfino le città più vicine, quelle che, per il tipo di civiltà, considerano come la base del loro dominio: che dire delle città e delle tribù straniere? Già presente nelle prime manifestazioni di questo popolo, il particolarismo rimane una forza indomabile. È a causa delle guerre e delle rivolte incessanti, che si esauriscono le energie dei popoli mesopotamici. L’indebolimento renderà più facile la vittoria ai futuri conquistatori, il Persiano Ciro e il Macedone Alessandro” (Aymard, Auboyer 1955: 106-7).
Nella città-stato il grado di complessità sociale è tale da far avvertite anche l’esigenza di disporre di un sistema di scrittura, che consente al re e al sacerdote di ordinare periodici censimenti dei sudditi e di tenere un registro di contabilità dei tributi versati e da versare. A questa delicata mansione provvedono gli scribi, la cui funzione è da paragonare ad un ministro dell’economia: sono loro che presiedono al bilancio della città. La loro responsabilità è grande e senza il loro prezioso apporto un re non potrebbe impegnarsi in una proficua azione di governo.
Ecco come si giunge, per passaggi graduali e progressivi, alla costituzione dello Stato politico, dalla tipica struttura piramidale, al cui apice osserviamo la figura del re e alla cui base c’è la massa dei contadini e degli schiavi, mentre nel mezzo troviamo i funzionari e gli ufficiali dell’esercito dallo stesso re nominati. Il re esercita un potere sovrano, militare, economico e giuridico, ed è, di fatto, un monarca assoluto, che è tenuto a rendere conto solo agli dèi. In effetti, nessun sovrano può fare a meno dei favori divini, che, almeno in parte, passano attraverso la figura sacerdotale ed i suoi specifici uffici. Infatti, per quanto il re voglia proclamarsi rappresentante del dio, il sacerdote può, in talune occasioni, rivelarsi il suo più temibile competitore, colui che può screditarlo agli occhi della gente e creare le condizioni per decretare un avvicendamento sul trono.

II.3.2. La guerra
Più una città è ricca, più essa diventa oggetto di desiderio e bramosia per molti. Nasce allora una nuova esigenza, quella di difendere le proprie persone e i propri beni dai nemici. A tale scopo il re è chiamato ad approntare sistemi di difesa efficienti e polivalenti, che vanno dalla costruzione di fortificazioni all’allestimento di un esercito, dalla costituzione di crescenti riserve idrico-alimentari alla ricerca di alleanze e di matrimoni combinati, dalla scelta di collaboratori fidati all’istituzione di un sistema di pattugliamento del territorio. Un re deve occuparsi di tutto ciò e deve farlo bene se vuole conservare il trono. Ma le sue qualità non bastano: senza un briciolo di fortuna anche il re più capace può finire in rovina. È sufficiente un’epidemia, un temporale, un terremoto o un qualsiasi altro evento imponderabile per mandare all’aria il sistema difensivo e cadere vittima di un nemico più fortunato. Di norma, il re sconfitto viene ucciso oppure lasciato al suo posto come vassallo, con l’obbligo di versare al vincitore un tributo e fornirgli un sostegno militare in caso di necessità, mentre la popolazione sconfitta può essere sterminata o deportata o schiavizzata. Un re saggio perciò non tralascerà di cattivarsi i favori della divinità e lo potrà fare in molti modi, per esempio, offrendo sacrifici, elargendo doni ai templi, chiedendo il parere di speciali personaggi, che si ritiene capaci di interpretare i più sottili segni della volontà divina, i cosiddetti divinatori, e, soprattutto, interpellando i sacerdoti e avvalendosi del loro ufficio e del loro appoggio.
Con la necessaria fortuna o, se si preferisce, con il fondamentale aiuto degli dèi, un re può tenere a bada i suoi nemici per un tempo indefinito e realizzare condizioni di sicurezza tali da consentire un progressivo aumento della ricchezza prodotta, cui si accompagna un incremento demografico e una sensazione di superiorità tale da indurre lo stesso re ad intraprendere politiche espansionistiche. Si diffondono così le guerre e, da questo momento, le città devono guardarsi l’una dall’altra, mentre l’attività dei sovrani è quasi del tutto assorbita nella funzione militare e in quella diplomatica: lo scopo ultimo è quello di apparire tanto forte da essere temuto e tanto inserito in una rete di alleanze da risultare pressoché invincibile.
Nei primi mille anni, fra le città prevalgono condizioni di relativa pace e non si avverte la necessità di costituire eserciti permanenti, ma, intorno a 4500 anni fa, la competizione fra i sovrani si fa più accesa e la pratica delle guerre diviene un atto ordinario. Ciò fa aumentare il prestigio del re, così che il palazzo comincia a “rivaleggiare col tempio cittadino per ricchezza e influenza” (Oates 1984: 38). Da questo momento, la difesa del regno costituisce il compito primario di ogni sovrano e la stessa ragion d’essere della monarchia. Così, mentre le città si cingono di mura e diventano fortezze, i sovrani attuano politiche di arruolamento militare e di sostegno all’industria bellica, che si avvalgono di un’energica azione di propaganda di regime. Il servizio militare viene decantato come un primario dovere del cittadino, che è chiamato a combattere in difesa della propria famiglia e della propria patria, sicuro dei favori del proprio dio e contro nemici dai caratteri subumani.
Alla fine, la guerra diviene un affare o, comunque, un modo di guadagnarsi da vivere. Il dovere militare è, infatti, ricompensato dallo Stato con l’assegnazione di un pezzo di terra, che può essere data in affitto o trasmessa in eredità ai figli. È così che nasce la proprietà privata, della terra e delle persone, che non è del singolo, ma della famiglia, a dimostrazione della prevalenza di una logica di gruppo su una di tipo individualistico, che ancora non è concepita. Nel complesso, il soldato si considera un privilegiato perché ha non solo di che sfamarsi, ma anche la prospettiva di divenire un agiato possidente, e ciò spiega la sua fedeltà allo Stato e la pressoché totale assenza di rivolte e ammutinamenti.
Insieme alla guerra esplode anche il fenomeno della schiavitù. Lo schiavo viene considerato come un animale e, come tale, è valutato e trattato. Ai tempi di Hammurabi il suo valore commerciale è all’incirca quello di un asino. Lo schiavo può essere venduto, scambiato, dato in pegno o in deposito, e via dicendo, ma non è del tutto privo di diritti. Egli, infatti, può riscattare la sua libertà pagando una certa somma al suo padrone, svolgere attività commerciali e anche sposarsi con una persona libera (in questo caso i figli nascono liberi).

II.3.3. L’economia
Per tutta una serie di ragioni, su cui non mi soffermo, uno stato di guerra continuo è alla lunga insostenibile, ed è per questo che, immancabilmente, ad ogni guerra segue un periodo di pace, del quale i sovrani approfittano per tessere le loro trame (da cui prenderanno origine altre guerre), ma anche avviare iniziative atte a favorire i commerci e gli scambi culturali fra popoli diversi e lontani. Lo scopo dello scambio è, essenzialmente, quello di procurarsi le materie prime di cui si è carenti (e che possono utilmente essere impiegate per incrementare la ricchezza prodotta, per esempio, fabbricando strumenti di lavoro sempre più efficienti o costruendo nuove e più temibili armi), oppure di importare cultura e tecnologia, o, infine, di acquistare dei manufatti finiti e raffinati, al solo scopo di impreziosire le dimore dei ricchi signori e le loro persone.
Le merci vengono trasportate a dorso d’asino o con barche lungo i fiumi, più raramente con carri trainati da buoi. Il cammello, invece, pur addomesticato III kyr fa, non è ancora adoperato per questo uso. Il valore di ogni merce è riferita ad un certo peso di orzo, grano, rame o argento. Si ignora l’uso della moneta e manca una vera a propria rete viaria. I mercanti devono affrontare viaggi lunghi e pericolosi. Di norma, essi sono ripagati da lauti guadagni, ma la loro attività è fatta oggetto di discredito: “il viaggiatore da paesi lontani è un perenne bugiardo!” (da Chierici 1980: 154).
I sumeri conoscono bene oro, argento, rame, stagno e piombo, come anche la ceramica, la pietra e il legno, e dispongono di un artigianato alquanto sviluppato, ma le materie prime scarseggiano e devono perciò essere importate per essere lavorate e utilizzate. Il ferro è noto, ma non è ancora usato, perché non si dispone ancora della tecnologia adeguata.

II.3.4. La città
Nel periodo di massimo splendore, la Sumeria ospita 25-30 città-stato, fra cui ricordiamo Uruk, Ur, Kish, Lagash, Nippur, Adab, Larsa, Sippur e Umma, ciascuna delle quali occupa un’area di circa 3-6 Kmq e controlla un territorio di circa mille Kmq. Ogni città riconosce un dio come «sovrano effettivo» e un sacerdote come suo rappresentante umano. Il cuore della città è il tempio, detto Ziqqurat, dalla caratteristica forma architettonica a piramide tronca a gradini , il quale ospita il dio tutelare della città stessa. Le caratteristiche architettoniche della ziqqurat rispondono perfettamente alla concezione antropomorfa che i sumeri hanno della sfera divina e rispecchiano l’idea che anche gli dèi hanno bisogno di una casa adeguata al loro rango. L’imponenza della ziqqurat soddisfa, dunque, l’esigenza di rendere il dovuto omaggio alla divinità ed esprime la potenza di chi vi risiede: più è potente il dio, più è fortunata la città che da lui dipende. In seconda istanza il tempio è anche la casa del sacerdote e il luogo ove questi presiede al culto. Il tempio costituisce inoltre un ottimo punto di osservazione del movimento delle acque, il che rende possibile il miglioramento del sistema di canalizzazione, col duplice vantaggio di sfruttare il prezioso liquido senza lasciarsene travolgere. Dall’alto del tempio non si osservano solo le acque, ma anche il cielo, gli astri, il volo degli uccelli, il soffiare dei venti e altri fenomeni, che vengono utilizzati anche come presagi o come indizi per la divinazione, e si può anche osservare e controllare l’andirivieni dei lavoratori della terra e degli addetti ai canali. Il tempio è infine un importante centro economico, dal momento che ad esso sono annessi vasti terreni, che il sacerdote fa coltivare e il cui prodotto gestisce.
A differenza dell’Egitto, dove prevale la cultura dell’unità nazionale, nella Sumeria “il particolarismo rimane una forza indomabile” (Aymard, Auboyer 1955: 106). In effetti, le città-stato sumeriche non intendono rinunciare facilmente alla loro autonomia e oppongono resistenza ai ripetuti tentativi di creare un grande impero. Ciò non toglie che, di tanto in tanto, un signore riesca ad estendere la sua autorità sulle altre città meritandosi il titolo di «Re di Sumer» o altri appellativi altisonanti, con i quali verrà ricordato nelle iscrizioni e nei documenti ufficiali. Tuttavia, anche quando entrerà a far parte di vasti imperi, la città-stato continuerà a rappresentare un’entità politica autonoma e a manifestare una caparbia avversione verso la centralizzazione politica.
Nella città trovano spazio gli spiriti più liberi e creativi in ogni campo della tecnica e dello scibile. Così qualche vasaio comincia a specializzarsi nella fabbricazione di vasi di pregevole fattura e dalle forme originali, che impreziosisce con colorazioni, decorazioni e disegni; e lo stesso vale per il fabbro, il conciatore, il falegname, il tessitore e l’ingegnere, che si cimentano in opere sensazionali. In questa temperie culturale nascono nuove figure di lavoratori, come quella del paggio, dell’eunuco, del danzatore, del cantante, del musicista, dello stalliere, della sacerdotessa, della prostituta di rango, del divinatore, del vate, del glittico, dell’orafo, e via dicendo, che hanno in comune il fatto di essere impegnati in attività sempre più specializzate e sempre più lontane dalla mera sussistenza. Nello stesso tempo, lo scriba tende sempre di più a non svolgere funzioni eminentemente amministrative e diventa un intellettuale e letterato a tutti gli effetti. Le prime composizioni letterarie hanno prevalentemente contenuto religioso e forma poetica. “I testi non poetici sono i cosiddetti «codici di leggi», le lettere e le iscrizioni reali” (Mander 2007: 121).

II.3.5. I nomadi
Da questo mondo, che è il mondo della città e della campagna circostante, si distinguono le popolazioni nomadi, che vivono in luoghi poco ospitali e non hanno fissa dimora. Su di loro il re non ha alcun potere, perché è molto difficile per un esercito avere ragione di un nemico capace di dileguarsi nel nulla nello spazio di poche ore, magari per ricomparire altrettanto rapidamente quando meno te lo aspetti. E poi, che senso avrebbe accanirsi contro gente, che non possiede nulla all’infuori dei loro armenti e la cui stessa vita è considerata priva di valore? I nomadi sono liberi, imprevedibili e inafferrabili, ma, quando la siccità impoverisce i pascoli, essi non esitano a saccheggiare le campagne e diventano pericolosi per le persone che vi risiedono. I nomadi affamati sono un’autentica spina nel fianco di ogni regno, una vera e propria calamità naturale da tenere lontana il più possibile e con ogni mezzo possibile. In particolari momenti, tuttavia, avverrà, come vedremo, che un certo numero di tribù nomadi, unite sotto un capo comune, riescano a conquistare città e a rovesciare regni e imperi.

II.3.6. Le prime monarchie
Tra il IV e il III millennio, col diffondersi delle guerre, compaiono le prime figure di grandi condottieri e i primi palazzi, si affermano le prime monarchie e le prime dinastie (Mander 2007: 13). Nello stesso tempo, si vanno diffondendo varie forme di ingiustizie sociali: privilegi per i più forti, vessazioni per i più deboli. Particolarmente deplorevole appare agli occhi della gente l’oppressione nei confronti di orfani e vedove, a favore dei quali si pronuncia qualche sovrano desideroso di cattivarsi le simpatie del popolo, come Urukagina, re di Lagash (2385-70), il quale si distingue come riformatore sociale.
Il primo grande monarca della Sumeria è Lugalzagesi, re di Uruk, il quale, intorno al 2375, riesce ad unificare politicamente la regione del Tigri e dell’Eufrate . In questo periodo, i sumeri concepiscono il mondo come diviso in quattro parti: Nord, Sud, Est, Ovest (a nord e sud c’è il mare, a est l’Elam, a ovest la Siria-Palestina). Naturalmente al centro del mondo c’è la Mesopotamia, la terra fra i due fiumi, e al centro della Mesopotamia c’è Uruk, una sorta di ombelico del mondo, da cui si dipartono i potenti clan guerrieri, che conquistano terre e fondano altri centri urbani sulla falsariga della città madre. Inizialmente sottomessi a Uruk, col tempo questi centri diverranno abbastanza potenti da competere con essa e ingaggiare guerre per ottenere prima l’indipendenza e poi la supremazia.
Non appena l’impero creato da Lugalzagesi mostra i primi evidenti segni di debolezza, ecco che sorge qualcuno in grado di approfittarne. È Sargon il Grande (2350), un trovatello di provenienza araba, cresciuto alla corte della città di Kish, il quale fonderà la dinastia degli Accadi e si farà chiamare «re di tutto» (Pettinato 1994a: 263). In un’antica iscrizione si legge: “Io sono Sargon, re forte, re di Akkad. Mia madre era una sacerdotessa; mio padre non lo conosco; era uno di quelli che abitano le montagne”. Ciò conferma che Sargon non è di sangue reale, ma chi sia realmente nessuno lo sa, e quel poco che si sa è intriso di leggenda. Si dice che sia un figlio illegittimo, che sia stato deposto in un cesto dalla madre e affidato alle acque di un fiume; da dove viene raccolto dal giardiniere del re di Kish e portato nel palazzo, dove viene allevato.
Fuor di leggenda, possiamo immaginare Sargon come un piccolo capoclan, che vive in un’epoca di turbolenza politica e sociale, nella quale i grandi signori delle potenti città-stato si fanno guerra fra loro, mentre, a loro volta, sono minacciati da altrettanto potenti popolazioni nomadi, che non solo razziano il territorio, ma costituiscono anche un vero e proprio elemento destabilizzante. Probabilmente, dopo essere entrato al servizio del re di Kish, quel piccolo capoclan riesce a sfruttare la divisione interna della città e il malcontento popolare per mettere a segno un colpo di Stato e assume il nome di Sargon, che significa «re legittimo». Non è per caso che il nuovo re vuole, assumendo quel nome, dare sostanza alla sua legittimità. Una delle principali cause d’instabilità politica è, infatti, il mancato riconoscimento di un sovrano da parte degli altri aspiranti al potere. A maggior ragione, questo principio deve valere per un usurpatore come Sargon. Pertanto, questa preoccupazione di farsi legittimare prova l’acume politico di Sargon e dimostra che egli è consapevole che “la propaganda del vincitore è almeno altrettanto importante che le sue armi” (Canfora 2006: 84).
La prima preoccupazione del nuovo re è, dunque, quella di legittimare il suo ruolo e, a tale scopo, egli certamente incoraggia le leggende che vanno circolando sul proprio conto, le quali, in fondo, dimostrano la sua discendenza divina e il suo diritto a regnare e a fondare una nuova dinastia. Ma Sargon è innanzitutto un uomo d’azione e sa che nessuna legittimazione potrebbe conferire stabilità al suo potere se non fosse accompagnata dalla forza militare. Egli si impegna, dunque, in azioni di conquista e, grazie alle sue eccellenti qualità di condottiero e di opportunista, riesce a creare un impero ancora più grande di quello di Lugalzagesi, la cui capitale, la città di Akkad, è fatta costruire ex novo dallo stesso sovrano (2350). I vincitori imparano dai vinti l’arte della scrittura, ma la adattano al loro idioma, creando così una lingua nuova, l’accadico, che avrà fortuna, riuscendo a sopravvivere per quasi duemila anni.
I successori di Sargon si sentono così sicuri della propria legittimazione da indurre Naramsin, nipote di Sargon e conquistatore di Ebla, a farsi divinizzare mentre è in vita, assumendo il titolo di «dio di Akkad” (Nissen 1990: 188). Siamo intorno al 2250 e Naramsin è il primo re a compiere questo passo. Ma, evidentemente, ciò non basta ad assicurare lunga vita alla sua dinastia. Dopo Naramsin, infatti, ha inizio una fase di declino, che in buona parte è legata all’ascesa di nuovi aspiranti al potere. I conflitti interni indeboliscono l’impero e danno modo all’orda dei rozzi montanari Gutei di farsi avanti e abbattere la dinastia di Akkad (2200). Dovranno trascorrere una cinquantina d’anni prima che essi vengano sterminati dal re di Uruk, Utukhengal, che avrebbe ricevuto tale ordine dal dio Enlil.
Della cacciata dei gutei si avvantaggia Urnammu (2112-2095), fondatore della III dinastia di Ur, che riesce ad imporre la sua egemonia sulla Mesopotamia meridionale, dando inizio ad una breve rinascita di Sumer. L’opera espansionistica di Urnammu viene proseguita dal figlio Shulgi (2094-2047), il quale, come già Sargon e Naramsin, comprende che non è sufficiente affidarsi alle armi, e nemmeno basta divinizzare la propria persona: occorre anche intraprendere la via del diritto. Se le popolazioni a me sottomesse, pensa, sanno che possono contare su una legge scritta uguale per tutti, certamente preferiranno vivere sotto quella legge, piuttosto che muoversi continuamente guerra fra loro, col rischio della vita oggi e senza certezze per il domani. Shulgi non si limita a emanare il primo codice di leggi che si conosca, ma crea anche un esercito regolare, organizza un enorme e ordinato apparato burocratico e fiscale e unifica il sistema amministrativo in tutto il suo impero, che fa suddividere in province, ciascuna delle quali affida ad un governatore e fa presidiare da un corpo militare. Più di così proprio non può fare, ma Sumer non è come l’Egitto: qui la pace interna non basta a rendere duraturo un sistema politico, perché le spinte indipendentiste sono indomabili e i nemici esterni sono forti e determinati. E infatti, i figli e successori di Shulgi, Amarsin (2046-2038) e Shusin (2037-2029), che pure vorrebbero espandersi, devono badare soprattutto a difendersi dalla penetrazione degli amorrei e dalla minaccia degli elamiti e l’ultimo re di Ur, Ibbisin (2028-2004), nonostante faccia di tutto per evitare il disastro, nulla può contro il dilagare di queste orde fameliche, che finiscono per travolgerlo. Così, l’impero sumero si frantuma in molti Stati epigoni (Isin, Larsa, Eshnunna, Assiria, Babilonia, Mari, Aleppo, e altri ancora), che verranno unificati da Hammurabi oltre due secoli dopo. Ma intanto si aprono due secoli di divisione, di lotta e di caos politico.
Con Ibbisin si conclude la storia della civiltà sumerica, che sarà presto dimenticata. Saranno gli scavi archeologici, effettuati nel XX secolo, tra la prima e la seconda guerra mondiale, a riportarla alla memoria.

II.3.7. Il Diritto sumero
A fronte di un sempre più frequente ricorso alla guerra, in realtà i sumeri sono fondamentalmente pacifici e amano la vita. “Nella loro letteratura si parla poco di guerre e di battaglie e i loro re si vantano più volentieri delle opere civili e religiose che hanno costruito che non delle imprese militari” (Chierici 1980: 43). In effetti, i sumeri sono i primi a concepire un diritto civile formalmente codificato. Ma che cos’è il diritto? È giunto il momento di interrogarci sulle origini del diritto e sulle sue funzioni. “Sostanzialmente il diritto consiste in un insieme particolarmente definito di norme sociali che sono mantenute in vigore attraverso la applicazione di sanzioni «legali»” (Hoebel 1973: 26). In concreto, il diritto è caratterizzato dalla presenza contemporanea e inscindibile di due elementi: leggi scritte e la forza necessaria per farle rispettare. Ora, nel momento in cui stabilisce gli obblighi sociali dei sudditi e le sanzioni per i trasgressori, il diritto scritto esce dalla sfera dell’arbitrio personale e diviene un segno di civiltà.
Il diritto si afferma perché svolge funzioni atte a garantire una vita sociale ordinata senza la necessità di dover ricorrere all’uso della forza ogni qualvolta ci si venga a trovare in una situazione di conflitto. “Il compito fondamentale del diritto è quello di definire innanzitutto le relazioni personali […]. Esso stabilisce le aspettative di un individuo nei confronti di un altro individuo, di un gruppo nei confronti di un altro gruppo, cosicché ognuno conosce il nucleo e le limitazioni dei propri diritti nei riguardi degli altri, dei propri doveri, delle proprie facoltà e poteri” (Hoebel 1973: 389-90). Sotto questo aspetto, il diritto svolge la stessa funzione delle lotte territoriali presso gli animali, ovvero stabilisce l’ordine di accesso alle risorse, senza che si debba venire ogni volta alle mani. Una volta stabiliti i rapporti di forza, gli animali si comportano in modo ordinato e rispettano le gerarchie, e così fanno gli uomini grazie al diritto.
Il primo esempio a noi noto di diritto civile propriamente detto è quello che si realizza sotto il regno di Shulgi. Prima esisteva una forma di diritto non scritto, che corrispondeva, in ultima analisi, alla volontà del clan dominante.

II.3.8. L’invenzione della scrittura
Cinquemila anni fa, il centro nevralgico della città è il tempio ed è nel tempio che lavorano le persone preposte a gestire le derrate alimentari ammassate nei magazzini e a soddisfare tutte quelle esigenze pratiche che spingeranno l’uomo a inventare la scrittura, come marchiare un recipiente, sigillarlo, catalogarlo, segnare e conservare un atto di compra-vendita, un prestito, o qualsiasi altro atto pubblico o privato, accompagnare i prodotti di scambio con alcune indicazioni essenziali, e via dicendo. È probabilmente nel tempio di Uruk che, intorno a 5000 anni fa, viene inventata quella scrittura, che oggi viene chiamata cuneiforme , la quale resisterà fino alla caduta di Ninive (612 a.C.), allorquando verrà sostituito dalla prima lingua alfabetica, la lingua aramaica (Pettinato 1994a: 53).
Attraverso la scrittura, i sacerdoti e i funzionari non solo amministrano il surplus della comunità cittadina, ma possono anche segnare i nomi delle cose. A poco a poco, il «nome» diviene così importante da costituire, nell’immaginario sumerico, la stessa essenza della cosa. I sumeri credono che ogni cosa, per esistere, debba avere un nome e che la conoscenza e l’uso di quel nome equivalga ad esercitare un qualche potere sulle cose stesse, ed ecco perché i più antichi documenti sumerici, di natura non contabile, sono elenchi di nomi.

II.3.9. Il Mito
All’interno dei templi gli scribi compongono i primi racconti, che pur riferendosi ad eventi realmente accaduti, sono espressi in modo piuttosto libero e fantasioso, dando corpo ad un genere letterario che un giorno i greci chiameranno «mito». Composto di «parole», già di per sé considerate magiche, anche il mito è accreditato di poteri straordinari. Di fatto, esso svolge una funzione simile a quella svolta da una dottrina religiosa, ma, mentre questa è vista come affare esclusivo del sacerdote o di pochi privilegiati, il mito appartiene a tutti, è di dominio pubblico.
Il racconto mitico non nasce in un giorno, né viene a costituirsi nel sogno o per illuminazione, come i messaggi divini, ma prende forma nell’immaginario collettivo a partire da esperienze comuni o da eventi di vasta risonanza pubblica realmente accaduti e ritenuti tanto rilevanti da meritare di essere ricordati, spiegati e trasmessi di generazione in generazione, come la fondazione di una città, un’alleanza, una guerra, una lunga carestia o una grave epidemia. Col trascorrere del tempo, il racconto di questi eventi, che avviene in forma prevalentemente orale, va arricchendosi di libere interpretazioni e finisce col perdere ogni verosimiglianza con gli eventi che lo hanno generato. La maggioranza dei miti conservano un’importanza locale e vengono dimenticati, ma alcuni di essi vengono messi in forma scritta, all’interno di un palazzo o di tempio, e diventano parte integrante di una nazione.
Il mito viene da lontano e si perde nella notte dei tempi, non ha un autore umano ben definito e viene considerato come esistente da sempre, ossia come una verità di fede, assoluta e indiscutibile. Periodicamente riproposto in occasione della celebrazione di certi riti, all’interno di un tempio o di un palazzo, o nell’occorrenza di certi eventi sociali di particolare importanza, come il raccolto del grano, la tosatura delle pecore, l’anniversario della fondazione della città o dell’affermazione di una dinastia, il mito svela all’uomo i misteri della vita, l’origine dell’universo e degli animali, degli uomini e degli dèi, delle dinastie e delle città, dei popoli e delle tradizioni, del dolore e della morte.

II.3.10. Il pensiero religioso
La religione fa parte integrante della cultura sumerica e permea tutti i più importanti aspetti della vita delle persone, delle città e dei regni. Non esiste una religione distinta dalla società e dallo Stato e, infatti, non esiste un termine sumerico per «religione».
Le riflessioni dei sumeri sulla religione si sviluppano in almeno due distinte fasi: nella prima, la divinità è identificata con gli eventi naturali e i corpi fisici animati e inanimati, come il vento, la pioggia, il fuoco, gli animali, le montagne, i fiumi, le nuvole, gli astri e molto altro ancora; nella seconda, che corrisponde all’età storica, le divinità acquistano un aspetto personale e antropomorfo. In entrambi i casi, i sumeri concepiscono anche tutta una serie di esseri che stanno a metà strada tra il divino e l’umano, eroi divinizzati, superuomini, semidei, mostri, demoni o angeli. Nel pantheon sumerico c’è posto per un indefinito numero di divinità (si conoscono circa 500 divinità sumeriche!), anche se tre di esse occupano i gradini più alti, e sono, in ordine di importanza: An, il quale esercita una sorta di autorità morale, Enlil, che è il sovrano effettivo, ed Enki, che è una sorta di primo ministro (Bottéro, Kramer 1992: 53-5).
Ma come sono concepite esattamente queste divinità? Innanzitutto, esse hanno un inizio, perciò non sono eterne, inoltre provano gli stessi sentimenti umani, hanno desideri e passioni, ricorrono all’inganno, mangiano e bevono, si accoppiano e hanno figli. La loro vita è segnata da successi e insuccessi, come avviene per gli uomini, con l’unica differenza che gli dèi sono immortali. Oltre ad preghiere e sacrifici a queste divinità, ogni sumero ama indossare amuleti contro le malattie, recitare formule ed eseguire atti di scongiuro, il tutto allo scopo di tenere lontane le potenze del male, di cui crede che l’universo sia popolato.
Nella sua forma più matura, la religione sumera si presenta “come un politeismo gerarchicamente strutturato, espresso marcatamente in forma antropomorfica” (Mander 2009: 23). Gli dèi provano gli stessi sentimenti umani, ricorrono all’inganno, mangiano, bevono, si sposano, si riproducono, hanno progetti, strategie, disavventure, bisogni e sono soggetti a trionfi e rovesci di fortuna, allo stesso modo degli uomini. La ragion d’essere del tempio è che “il dio ha bisogno di una casa per sé e per la sua famiglia” (Aymard, Auboyer 1955: 131). Analogamente, le offerte dei fedeli e il sacrificio degli animali si spiegano perché il dio ha bisogno di nutrimento e di culto. I sumeri riconducono il male che incombe sugli uomini a due principali cause: il mancato rispetto della volontà divina e le azioni di spiriti maligni, di cui è riccamente popolato l’immaginario sumerico. I sumeri credono che tutto ciò che accade dipenda dalla volontà degli dèi, non da quella degli uomini, e perciò ignorano l’idea di peccato e il principio di retribuzione.
È molto diffusa presso i sumeri la concezione, secondo la quale gli dèi sono altrettanti monarchi, che, stanchi di provvedere a se stessi col proprio lavoro, un bel giorno decidono di creare gli uomini affinché lavorino per loro e si pongano al loro totale servizio. Il dio-padre è il sovrano della città e vive nel tempio, insieme alla sua consorte, ai suoi figli, ai suoi funzionari, allo stesso modo in cui un re vive nel proprio palazzo, con la propria famiglia e la propria corte.
Secondo i sumeri, le vicende umane e la «storia» sono decretate dagli dèi, i quali accordano i loro favori a coloro che ne osservano la volontà. È qui che entra in campo quella “tecnica di comunicazione con la divinità” (Oates 1984: 250), che è la divinazione. Essa era un tempo officiata dallo sciamano, che era un personaggio singolare e unico, adesso è officiata dal divinatore. La divinazione rappresenta, per l’uomo sumero, ciò che la scienza sarà per l’uomo moderno, e coloro che la praticano (che possono essere privati cittadini, anziani, dignitari di corte, funzionari dello Stato) sono tenuti in alta considerazione e vengono regolarmente consultati in ogni occasione importante, sia dal sovrano che dalle persone comuni. E se i presagi fossero funesti? Niente paura: si può sempre ricorrere ad un qualche rito di purificazione e ad altre misure idonee a scongiurare le previsioni.
I sumeri credono che la creazione dell’uomo faccia parte di un piano imperscrutabile degli dèi e ritengono che l’uomo possa contribuire a realizzare quel piano attraverso l’obbedienza nei confronti dell’autorità costituita (vale a dire il re, coi suoi rappresentanti) e dei propri genitori. Inoltre, pensano che, lavorando, l’uomo non solo provvede al proprio sostentamento e a quello dei funzionari, ma si assicura anche la benedizione degli dèi. Ritengono, infine, che, dopo la morte, la vita continui, seppure in una forma grigia e di scarso interesse, che potrà essere alleviata dalle offerte funerarie, in mancanza delle quali, i morti stessi potrebbero rendersi minacciosi attraverso i loro spiriti. Ne consegue che, per i sumeri, quello che più conta è la fortuna in questa vita, fortuna che bisogna guadagnarsi attirandosi i favori degli dèi attraverso la buona condotta e le pratiche cultuali.
Al di là delle particolari considerazioni dottrinali, la religione serve ai sumeri sostanzialmente per costituire grandi comunità solidali e coese e per creare un’identità nazionale.

II.3.11. La Triade dio-re-città
Secondo i sumeri, solo un dio può fondare una città e, nel momento in cui lo fa, egli ne diviene patrono e s’impegna a difenderla come cosa propria. Il vero sovrano della città è il suo dio tutelare. Il re umano è solo un «affittuario» (Saporetti 2002: 29) e «fattore» (Mander 2007: 13). I monarchi umani sono ben consapevoli che “la loro designazione a re e le loro fortune politiche e militari sono dovute alla benevolenza del dio cittadino, ma soprattutto del dio Enlil, capo indiscusso del Pantheon sumerico” (Pettinato 1994a: 303). Alla fine, la Triade dio-re-città diventa un tutt’uno e condivide lo stesso destino. La cartina di tornasole è la città: nell’immaginario collettivo, una città prospera e vittoriosa indica un re e un dio potenti, mentre una città declinante testimonia la debolezza del suo re e del suo dio. Ebbene, ogni «triade» ha la sua storia: alcune triadi decadono e scompaiono dalla scena politica senza lasciare un duraturo ricordo di sé, altre diventano sempre più potenti fino a realizzare grandi e duraturi imperi e vere e proprie civiltà, la cui memoria verrà tramandata nei secoli.

II.3.12. La cultura generale
Coerentemente coi loro presupposti religiosi, i sumeri sono degli osservatori minuziosi, analitici, scrupolosi, e ciò permette loro di acquisire importanti conoscenze sui fenomeni naturali e in campo astronomico. Mostrano invece gravi lacune sotto il profilo della sintesi, dell’astrazione, della creatività e dell’inventiva. I sumeri non giungono mai a formulare una legge universale, nemmeno in campo matematico! La causa di ciò va ricercata ancora una volta nelle loro credenze religiose. Essi, infatti, concepiscono la scienza come un dono concesso agli uomini da questo o da quel dio e che l’uomo deve semplicemente raccogliere e trasmettere il più fedelmente possibile alle generazioni future, senza pretendere di produrlo con le proprie forze.
“Come avrebbe potuto essere diversamente, se si considera quanto fossero intimi i legami che continuavano a tenerla legata alla religione? La scienza veniva concepita come una rivelazione, come il dono concesso agli uomini da questo o da quel dio. Gli uomini si limitavano perciò a constatare e ad applicare: non avevano bisogno di approfondire. Da questo atteggiamento mentale, inoltre, derivava inevitabilmente una tendenza all’immobilismo. Giacché la conoscenza proviene dagli dèi, è naturale che l’abbiano già accordata alle generazioni precedenti, le più edotte in materia di pietà e di riti. Perciò, il dovere principale della generazione presente è quello di raccoglierla e trasmetterla il più esattamente possibile; sarebbe un’ambizione vana quella di pretendere di accrescerla; come per le credenze e le pratiche religiose, per cui la dottrina costituisce solo un corollario, l’ideale si ricerca nel passato e non nell’avvenire” (Aymard, Auboyer 1955: 143-4).


II.3.13. Il mito di Gilgamesh
Uno dei pochi racconti sumerici che è potuto giungere fino a noi è il celeberrimo poema di Gilgamesh, composto a Uruk intorno a 4500 anni fa (Pettinato 1994a: 144). Chi è Gilgamesh? non si sa di preciso. Forse è un personaggio reale, un re di Uruk, vissuto circa 4600-4700 anni fa (Sandars 1986: 29) e diventato famoso per essersi posto, analogamente al suo collega faraone, l’obiettivo dell’immortalità. Già subito dopo la sua morte, su di lui circolano un certo numero di aneddoti, che vengono prima raccontati in forma orale e in modo frammentario e successivamente raccolti, ordinati e messi in forma scritta in lingua sumerica. L’opera ha successo e si diffonde in tutto il Vicino Oriente. Intorno a 3000 anni fa, essa viene tradotta in lingua assira e viene conservata nella biblioteca del palazzo di Ninive, voluta da Assurbanipal, dove è stata ritrovata a seguito degli scavi archeologici compiuti nel XIX secolo. Ecco una sintesi del racconto.

Gilgamesh è il potente e arrogante re di Uruk. Stanchi del suo strapotere, i sudditi si rivolgono agli dèi perché gli oppongano qualcuno di pari valore. Gli dèi creano allora Enkidu, un uomo di mentalità primitiva e selvaggia, che cresce in compagnia degli animali selvatici. Saputo delle prepotenze del re, Enkidu si reca in città e lo affronta, ma Gilgamesh si mostra valoroso tanto che, alla fine, Enkidu riconosce la legittimità del suo potere e i due diventano amici. Insoddisfatti della loro vita tranquilla, i nostri eroi decidono di intraprendere un viaggio alla ricerca di gloria. Strada facendo, la dea Istar si innamora di Gilgamesh, ma questo la respinge perché sa che la dea ha trasformato molti suoi amanti in animali. Irritata, Istar si rivolge ad Anu, il dio della volta celeste, chiedendogli di vendicarla. Anu manda contro i nostri eroi il gigantesco Toro del Cielo, ma essi lo uccidono. Invidiosi della loro fortuna, gli dèi decidono la morte di Enkidu, il quale, lamentando la sua fine ingloriosa, lontano dai campi di battaglia, esala l’ultimo respiro fra le braccia dell’amico, che ne piange la perdita. Sentendo incombere anche su di sé la minaccia della morte, Gilgamesh vuole scoprire il segreto dell’immortalità e si mette in viaggio alla volta di Utnapistim, l’unico uomo che sembra l’abbia ricevuta dagli dèi e che vive in un’isola agli estremi confini della terra. Lungo il cammino deve superare una serie di difficoltà, che si frappongono fra lui e Utnapistim: affronta due mostri spaventosi, che fanno la guardia al “Giardino delle Delizie”, resiste ad una locandiera, che cerca di dissuaderlo prospettandogli l’irrealizzabilità dell’impresa, e attraversa l’Oceano. Gilgamesh non si ferma davanti a nessun ostacolo, finché giunge al cospetto di Utnapistim, il quale, dichiaratosi disponibile a svelargli il segreto dell’immortalità, gli racconta come gli dèi abbiano mandato sulla terra il diluvio universale, come egli, aiutato dal dio Ea, abbia costruito un’arca e vi abbia caricato la propria famiglia e tutti gli animali salvandosi, e, infine, come, per grazia degli dèi, gli sia stato concesso di vivere per l’eternità in quella remota isola. Avendo compreso che non c’è alcun segreto da svelare e che l’immortalità è una prerogativa divina, deluso, Gilgamesh si prepara al ritorno, quando Utnapistim, tratto in compassione, vuole dargli un’estrema possibilità: se avesse raccolto una certa pianta, che si trova in fondo al mare, e l’avesse mangiata, avrebbe guadagnato l’immortalità. Ancora una volta, l’eroe affronta con successo l’impresa e, mentre fa ritorno alla sua città con l’intento di far mangiare la pianta a tutti gli uomini, essendosi fermato a bere da una sorgente e avendo deposto a terra la pianta, un serpente gliela rapisce. Così Gilgamesh ritorna a Uruk a mani vuote.


Il mito di Gilgamesh ci permette di cogliere il livello di civiltà raggiunto dai sumeri, che appaiono in grado di riflettere sulla natura degli uomini. Dal momento che l’intelligenza, la forza, la volontà e il coraggio non bastano a fare di lui un essere immortale, all’uomo altro non resta che accettare i propri limiti e rassegnarsi al proprio destino. Tale è il senso tragico dell’opera, che presenta tratti di grande interesse, alcuni dei quali saranno poi ripresi dalla letteratura successiva, in particolare dalla Bibbia (Giardino delle Delizie, Diluvio) e dai poemi omerici (uomini-eroi, dèi antropomorfizzati, viaggio avventuroso, pianto per la morte dell’amico).