lunedì 12 luglio 2010

III.3.1. La caduta della monarchia (587): un bilancio

Agli occhi dei contemporanei le storie di Israele e di Giuda sono due delle tante storie dei tanti regni che hanno affollato il Vicino Oriente nel primo millennio a.C.: hanno combattuto le proprie battaglie e hanno disegnato la propria parabola, che, come tutte le parabole, ha avuto il suo tratto ascendente e poi quello discendente, fino alla caduta definitiva. Sotto il profilo storico, Israele e Giuda altro non furono che due piccoli regni, “le cui vicissitudini politiche riflettevano fortemente la pressione delle grandi potenze e le cui istituzioni non furono ritenute da alcuna testimonianza contemporanea come diverse per genere da quelle dei loro vicini” (Coggins 1998: 144). Sotto il profilo religioso, invece, gli ebrei continuano la loro corsa e hanno ancora qualcosa d’importante da dire al mondo. Questo qualcosa scaturisce dalla riflessione avviata dagli stessi ebrei in seguito alla caduta della monarchia, in un momento di profonda costernazione.
In effetti, l’idea che Giuda potesse cadere non l’hanno mai presa in considerazione e, fino all’ultimo, hanno sperato in un intervento divino (Ger 21,2). Ma, dacché appare chiaro che l’evento è reale e definitivo, subentra lo scoramento e la stessa fede in Jahve è messa in discussione (Ger 44,18; Ez 20,32). “Gli avvenimenti degli ultimi anni in Giuda in effetti contraddicevano le affermazioni della teologia ufficiale su ogni punto ed era inevitabile che fossero messe in dubbio le capacità di Jahve di controllare gli eventi e la sua fedeltà alle promesse” (Bright 2002: 357). Ebbene, è proprio il disperato bisogno di reinterpretare gli ultimi eventi storici che approderà, come vedremo, “in un rimaneggiamento della Storia Deuteronomistica originale allo scopo di spiegare il mancato concretizzarsi della tanto attesa ora del riscatto” (Finkelstein, Silberman 2002: 317).
Se a cento popoli fosse dato di ripercorrere le tappe storiche del popolo d’Israele, novantanove certamente si piegherebbero all’evidenza dei fatti e si lascerebbero integrare dai vincitori. Non così gli ebrei che, dopo ogni amara esperienza, ripartono a testa bassa, lasciando inalterate la postazione di partenza e la meta finale: Dio ci ha scelti come popolo prediletto e, poiché egli è perfetto, da qualche parte ci condurrà, anche se non sappiamo né come, né quando; a noi non resta dunque che attendere con (infinita) pazienza le sue eventuali decisioni in merito; intanto che aspettiamo, dobbiamo fare che il suo volere, e il suo volere altro non è che noi osserviamo i suoi comandamenti. Questo è lo stato d’animo che muove gli ebrei deportati in Babilonia e che li porta a riformulare il proprio pensiero religioso.

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