lunedì 12 luglio 2010

III.7.5. I kibbutzim

I kibbutzim sono piccoli villaggi di dimensioni variabili (da un centinaio di persone a oltre duemila), fondati in prevalenza da ebrei provenienti dall’Europa orientale e dall’Urss, imbevuti di idee socialiste e propensi a costituire comunità di tipo collettivistico, che si ispirano a quattro principi fondamentali: “la proprietà comunitaria dei mezzi di produzione; l’organizzazione comune dei servizi per il soddisfacimento dei bisogni dei membri; la soppressione del denaro nelle transazioni interne; l’egualitarismo civico” (Vercelli 2008: 38). All’interno del kibbutz non esiste proprietà privata, ma tutto appartiene a tutti, non circola denaro convenzionale, le transazioni economiche sono registrate elettronicamente, il governo della comunità è di tipo democratico-partecipativo. Insomma, siamo di fronte a minuscole popolazioni di tipo arcaico-tribale, che però dispongono della tecnologia più evoluta, il che fa del k. un’autentica novità sul piano sociale ed educativo.
Nelle teste dei fondatori c’è l’idea di costituire comunità autosufficienti e autarchiche e realizzare la parità fra i sessi (Bettelheim 1977: 35). Allo scopo di emancipare la donna, la socializzazione e la cura del bambino non sono affidate in modo preponderante o esclusivo alla famiglia biologica, ma vi contribuiscono in modo sostanziale i coetanei, gli operatori, i comitati e la comunità in generale. In pratica, i bambini vengono svezzati al compimento del sesto mese e affidati alla comunità, in modo da lasciare la madre libera di riprendere il proprio lavoro. Economicamente ed emotivamente i figli dipendono meno dalla famiglia che dalla comunità e questo, secondo Bruno Bettelheim, si rivela vantaggioso per lo sviluppo psicofisico dei bambini e per il loro inserimento nella vita sociale. In effetti, il bambino nel k. non ha nulla da temere se i suoi genitori si separano, si ammalano, muoiono e via dicendo. Egli sa, infatti, che è la comunità a prendersi cura di lui, e questo lo rassicura. Secondo lo studioso, “Questa situazione favorisce l’indipendenza nel bambino del kibbutz, dato che impara presto ad interagire con una pluralità di persone” (1977: 122).
In definitiva, i k. si assumono la maggior parte delle funzioni della famiglia e avocano a sé la responsabilità della cura fisica e dell’allevamento dei bambini, riducendo in tal modo gli obblighi dei genitori. Il principio è che “Fondamentalmente i bambini appartengono alla comunità nel suo insieme” (Saraceno 1975: 238).
In opposizione alle tesi di Bowlby, le esperienze del kibbutz dimostrerebbero che “i bambini allevati in gruppo, da educatori estranei alla famiglia, possono svilupparsi e di fatto si sviluppano molto meglio di quelli cresciuti dalle madri in case oppresse dalla miseria, e anche di alcuni della classe media” (Bettelheim 1977: 51). In particolare, almeno secondo Bettelheim, “il sistema educativo del kibbutz protegge il bambino dagli effetti negativi di una cattiva madre” (1977: 41). Si potrebbe credere che questo sistema educativo privi i genitori dell’esclusivo affetto dei loro figli, ma così non sembra. Infatti, “se i genitori del kibbutz, rispetto alle altre società, ottengono meno calore e affetto da parte dei propri figli, ne ricevono di più da tutti gli altri bambini della comunità. In paragone, essi non hanno meno soddisfazioni, ma di più. Soltanto, la fonte di queste gioie non sono i propri figli, ma tutta la popolazione infantile” (Bettelheim 1977: 138).
Del resto, il legame con la famiglia non è abolito. “I bambini incontrano i propri parenti e fratelli nelle ore libere e passano i pomeriggi e la prima parte della serata con loro; al sabato e nei giorni di festa stanno per la maggior parte del tempo con i genitori” (Saraceno 1975: 237). “L’estrema limitazione delle funzioni della famiglia nella sfera del mantenimento e della socializzazione dei bambini non ha condotto alla distruzione della solidarietà familiare. Paradossalmente, la riduzione degli obblighi ha rafforzato piuttosto che indebolito il rapporto genitori-figli e ha aumentato l’importanza dei legami emotivi tra loro” (Saraceno 1975: 241).
Nella comunità domina una logica legata alla persona piuttosto che al gruppo, e questo ha delle ripercussioni favorevoli sulla famiglia. In particolare, come osserva Bettelheim, “Nel kibbutz il comportamento del bambino non può in alcun modo danneggiare la posizione dei genitori nella comunità. La questione del «cosa penserà la gente se mio figlio va male a scuola», causa di tanti conflitti nelle nostre famiglie, è difficile che si presenti nel kibbutz, dove una persona viene giudicata soltanto in base alla propria personale posizione di compagno e membro della collettività” (1977: 151-2).
In sostanza, il k. investe una straordinaria quantità di risorse nell’educazione dei bambini, col risultato che i futuri cittadini si sviluppano “in condizioni molto più favorevoli della maggioranza dei nostri bambini del ceto medio, per non parlare di quelli disagiati” (Bettelheim 1977: 118). Basti pensare che, pur comprendendo il 2,5% della popolazione totale di Israele, i kibbutzim forniscono il 6% della produzione industriale e un terzo della produzione agricola (Maron 1994: 7-8) e continuano a costituire “la fucina di élite culturali, politiche e militari” (Vercelli 2008: 39). Tutto ciò potrebbe contribuire a spiegare tanto l’elevata valorizzazione del capitale umano, quanto la scarsa incidenza del disagio mentale, che sono state rilevate all’interno dei k. (Bettelheim 1977: 182-90).
Eppure c’è qualcosa che non va e che può spiegare un certo disagio avvertito da molte persone all’interno del kibbutz. Secondo De Benedetti, la causa principale dello scontento è la mancata remunerazione del merito e l’appiattimento totale: “chi lavora dieci ore al giorno sui campi, in fabbrica o coi bambini riceve lo stesso compenso degli scansafatiche o peggio ancora di quelli che per una ragione o per l’altra non lavorano affatto” (2001: 213). “Questo è il kibbuz: tutti uguali. Ma è giusto, è economico continuare così!?”, si chiede De Benedetti con evidente disappunto (2001: 125). Purtroppo la letteratura sul tema, almeno quella in lingua italiana, è scarsa e un giudizio univoco e definitivo sul kibbutz dev’essere per il momento sospeso e rimandato a data da definire, almeno per quel che mi riguarda.

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