martedì 13 luglio 2010

II.2. Gli Egizi

La regione egizia è resa unica dalla sua particolare posizione geografica, che la rende in buona parte protetta da elementi naturali: a nord dal mare, ad est ed ovest dal deserto, a sud dalle cataratte del Nilo. Ciò, se da un lato riduce il rischio di attacchi da parte di nemici esterni, dall’altro lato limita la libertà di movimento dei clan indigeni, costringendoli per così dire a ricercare forme di coesistenza pacifica. A ciò si aggiunga il fatto che il Nilo, essendo in buona parte navigabile, favorisce gli spostamenti, gli scambi interni e lo sviluppo di una cultura e di un linguaggio comuni. Va infine ricordata la progressiva crescita demografica. che ha l’effetto di ridurre gli spazi liberi interni, a tal punto che, già 10 mila anni fa, il nomadismo in Egitto è praticamente scomparso e le tribù sono costrette a vivere l’una accanto all’altra. Le condizioni sono tali da porre le singole famiglie di fronte ad una sfida inedita: devono trovare sul posto le risorse di cui hanno bisogno.

II.2.1. Cenni di storia
Nel periodo compreso fra 10 e 5,5 Kyr fa, in Egitto, gli uomini vivono in piccoli villaggi situati in prossimità di terreni fertili e al riparo di tende o capanne costruite con stuoie e canne. Il cereale prevalentemente coltivato è l’orzo, che viene conservato in appositi granai. Molto praticata è la caccia e la pesca. Gli animali addomesticati sono la pecora, la capra e, forse, i bovini. Si dispone di numerosi utensili di pietra e di vasellame di argilla grossolana mista a paglia. Si producono anche rozzi indumenti in lino.
Il più grosso problema che i signori dei villaggi e delle città devono affrontare è il controllo delle acque del Nilo, che richiede lavori di scavo e di canalizzazione al fine di favorire e proteggere i raccolti. Il successo in tale impresa può essere conseguito solo grazie all’azione concertata fra i vari gruppi, il che induce le popolazioni interessate a cooperare fra loro, ma anche ad unirsi sotto la guida di un unico capo. Così avviene che, “attraverso successive fusioni di tribù sotto capi più potenti” (Cimmino 1994: 141), intorno a 5150 anni fa, si giunge alla formazione di due regni, il regno del Nord e quello del Sud, il Basso e l’Alto Egitto.
I due regni si rivelano da subito molto bene organizzati se è vero che l’invenzione della scrittura risale proprio a questo periodo (Bresciani 2000: 143), ma occorrerà un secolo e mezzo prima che Narmer, re dell’Alto Egitto, e suo figlio e successore Menes, riescano, non si sa se a seguito di accordi pacifici o con la forza delle armi, nell’impresa di unificare il paese sotto la propria corona e fondare la prima dinastia. I due sovrani intraprendono una colossale opera di organizzazione amministrativa del paese, che verrà portata a termine dai successori, i quali divideranno l’Egitto in province governate da funzionari, generalmente parenti stretti della famiglia reale. Inizia così la «storia» dell’antico Egitto. Siamo intorno a 5000 anni fa. Il nuovo soggetto politico si rivela subito stabile, e ciò è provato dal fatto che, già dai primi anni, fanno la loro comparsa le prime forme di architettura in mattoni, che trova applicazione soprattutto nella costruzione di tombe. Dal nome della città, Thinis, nell’Alto Egitto, in cui i sovrani stabiliscono la loro residenza, si suole indicare questa fase della storia egizia come Periodo Tinita (3000-2700).
Il periodo denominato Antico Regno (2700-2181) inizia con la Terza Dinastia, che sposta la capitale a Menfi. Grazie alla sua organizzazione interna e alle sue difese naturali, l’Egitto può finalmente iniziare a godere di un lungo periodo di pace e ciò consente al suo sistema sociale di consolidarsi attorno alla figura del re-sacerdote. L’accentramento dei poteri nelle mani di un solo uomo e il gettito tributario sono tali che, già alcuni sovrani della IV dinastia (2630-2510) possono fare erigere tombe regali così monumentali e resistenti (le piramidi) da finire per simboleggiare l’intero paese. Almeno a partire dalla Quinta Dinastia, si va diffondendo l’idea che il re sia generato da una madre umana, senza intervento di un padre umano e senza atto sessuale, ma attraverso il volere espresso dalla divinità (Toynbee 1981: 299). Questa credenza nella natura divina del re non cesserà mai del tutto nel corso della lunga storia dell’Egitto e darà origine, come vedremo, al faraonato, altro elemento caratteristico di questo paese.
Nonostante l’accentramento del potere, l’Egitto non si può ancora considerare un paese propriamente monolitico, perché i principati locali godono di una discreta autonomia, il che costituisce un fattore di instabilità politica. In effetti, l’Antico Regno si dissolve non già ad opera di un attacco esterno, ma a causa di una rivoluzione interna, che è indotta dalla spinta indipendentista dei signori locali e si risolve nella frantumazione del Regno in una miriade di principati e in una situazione di disordine politico.
I tentativi di ricomporre l’unità giungono a buon fine intorno al 2050, quando Mentuhotep II inaugura il Medio Regno (2050-1720), la cui capitale è Lisht, poco più a sud di Menfi. In questo periodo i sovrani si trovano a dover combattere ripetutamente contro signori locali renitenti, che costruiscono qua e là fortezze in difesa della propria indipendenza. È anche a causa di questa imperfetta centralizzazione del potere che l’Egitto non riesce ad evitare l’invasione da parte di popolazioni semitiche nomadi, i cosiddetti Hyksos, che, grazie all’impiego del cavallo e del carro da guerra, conquistano la regione del Delta. La riscossa degli egizi parte dal sud e in particolare dai principi di Tebe, che sono rimasti indipendenti.
È Amosis che riesce a cacciare gli Hyksos e a fondare la XVIII dinastia e il Nuovo Regno (1575-1090), che ha per capitale Tebe, la città del dio Ammone. Questa volta i nuovi signori riescono nell’impresa di unificare saldamente l’intero paese intorno alla propria persona e assumono il titolo «faraone» (in egizio, «grande casa»), il che significa maggiore controllo del paese, maggiori entrate e soprattutto maggiore potenza militare, grazie alla quale l’Egitto può estendere il proprio dominio sulla Nubia e sull’area siro-palestinese. Tra i faraoni di questo periodo si distingue Thutmosi III (1504-1450), “il primo grande condottiero della Storia dopo Sargon; certamente, il primo delle cui imprese si abbia notizia in modo dettagliato, anche perché egli stesso si preoccupò di portarsi dietro, nelle sue diciassette campagne, degli scribi che annotassero e infiorettassero le sue imprese” (Frediani 2005: 540). Thutmosi è autore di numerose campagne militari vittoriose e artefice di importanti annessioni territoriali e di bottini di guerra, parte dei quali vengono devoluti a favore del tempio di Ammone, il cui clero acquista così un considerevole potere (Cimmino 2003: 250-1).
Dopo la fine della ventesima dinastia (1090) segue la cosiddetta Epoca Tarda (1090-332), che è segnata, per oltre due secoli, dal dominio di forze straniere provenienti dalla Libia e dall’Etiopia. Nel 664 il potere torna ad un principe indigeno, Psammetico I, ma solo per poco più di un secolo. Nel 535, infatti, l’Egitto diventa la sesta satrapia dell’impero persiano. Seguiranno le dominazioni greca e romana, ma, nondimeno, la civiltà egizia sopravvivrà fino alla morte di Cleopatra (30 a.C.).

II.2.2. Il monoteismo di Akhenaton
Nel corso del Nuovo Regno si registra in Egitto un evento di straordinaria importanza, vale a dire il tentativo da parte di un faraone di introdurre il monoteismo nel paese, tentativo che finirà, come vedremo, in un fallimento. Qui di seguito cercheremo di capire le ragioni di questo tentativo e del suo epilogo fallimentare.
Dopo le conquiste di Thutmosi III, l’Egitto è divenuto un impero multinazionale ed è forse la maggiore potenza della Fertile Mezzaluna. La sua estensione e complessità sociali sono tali che dopo il 1500, si ritiene necessario dividere il paese in due visirati, per l’Alto e il Basso Egitto (Schlögl 2005: 17). Al tempo stesso, il faraone è forse l’uomo più potente della Terra. Egli però non può esercitare direttamente il suo potere, ma lo può fare solo attraverso l’intermediazione di collaboratori, fra i quali spiccano i due visir e il sommo sacerdote del dio Ammone, che nel frattempo è diventato dio nazionale. Questa situazione potrebbe essere vista da un faraone come una macchia, per non dire un’insidia, per il monolitismo del suo potere, e può essere indicata come una delle cause del tentativo di introdurre il monoteismo operato da Amenofi IV (1364-1347 a.C.).
In effetti, la logica monoteista si presta ad un accentramento estremo del potere politico nelle mani di un uomo solo. Il principio è semplice: così come c’è un unico potere in cielo, allo stesso modo ci dev’essere un unico potere in terra, ed è il potere del faraone. In realtà, il tentativo di imporre il monoteismo da parte di Amenofi IV si inserisce all’interno di una lotta intentata dal faraone, soprattutto contro i sacerdoti di Ammone, per affermare il monopolio del potere politico.
Un’altra importante causa in grado di spiegare la svolta monoteistica di Amenofi IV va sicuramente individuata nella personalità dello stesso faraone, che è caratterizzata da una spiccata sensibilità e intelligenza, ma anche da una profonda fede religiosa, al limite del misticismo, e fa di lui un idealista e sognatore, assai lontano dall’uomo d’azione che era stato Thutmosi III. Secondo Jan Assmann, ad Amenofi IV “spetta di diritto un posto non soltanto tra i fondatori di religioni quali Mosè, Gesù e Maometto, ma anche fra le menti più illuminate che abbiano mai investigato il mondo della fisica come Talete, Anassimandro, Tolomeo, Newton e Einstein” (2000: 262). Ebbene, Amenofi IV è fermamente convinto che esista un solo dio, che egli individua in Aton, il dio sole. Benché sia raffigurato con la forma di un cerchio da cui si dipartono i raggi che inondano di luce la terra, in realtà Aton non è “il Sole nella sua essenza fisica, ma «la potenza che ha creato il Sole stesso: il dio creatore e protettore del mondo»” (Bramini 2006: 71).
Le intenzioni del faraone sono tanto serie da indurlo a cambiare il proprio nome in Akhenaton, che vuol dire «Colui che è utile ad Aton». Egli fa cancellare i nomi delle divinità dovunque si trovino (Gardiner 1971: 208); costruisce in pochi anni una nuova capitale ad El-Amarna, proprio nel bel mezzo del paese, tra Alto e Basso Egitto, e la chiama Akhetaton; rinnova i quadri amministrativi dello Stato sostituendo i vecchi funzionari con persone alle quali viene richiesto come requisito essenziale l’avere abbracciato la nuova fede. Ma il monoteismo ha almeno tre importanti ostacoli dinanzi a sé, ossia i sacerdoti, gli intellettuali e il popolo: molti sacerdoti, specie quelli di Ammone, che sono i più potenti del paese, non vedono di buon occhio la nuova religione, che riduce le entrate dei loro templi e a causa della quale temono di scomparire; gli intellettuali fanno fatica ad accettare una religione che rompe brutalmente con una tradizione millenaria; da parte sua, il popolo si rivela incapace di comprendere una religione astratta, priva di miti e di valori morali.
Per di più, il monoteismo va contro una consolidata tradizione di stampo nazionalista che pone l’Egitto al di sopra delle altre nazioni, e anche per questo risulta difficilmente comprensibile e accettabile per la maggioranza degli egiziani. In effetti, l’idea di un dio universale, la cui protezione si estende a tutti gli uomini, mette in discussione questo sentimento nazionalistico, che è ormai profondamente radicato fra le masse. Ammettere un solo dio per tutti gli uomini significa porre la Nubia e la Siria, ma anche le popolazioni nomadi di infimo rango, sullo stesso piano dell’Egitto, significa cioè ammettere la fratellanza universale di tutti i popoli, e questa mentalità è del tutto estranea agli egiziani.
A questo quadro, che è già molto problematico, va aggiunto il fatto che il faraone lascia, alla sua morte, una situazione turbolenta, sia all’interno, dove, in assenza di figli maschi del faraone stesso, si accende una lotta per la successione e si apre un periodo di anarchia, sia all’esterno, dove i rapporti col re ittita Suppiluliuma peggiorano di lì a poco (Schlögl 2005: 84). Di questa situazione sanno approfittare i sacerdoti di Ammone, che entrano in agitazione contro la religione di Aton. Questo stato di crisi termina otto anni dopo la morte di Akhenaton con l’estinzione della XVIII dinastia e la cancellazione delle opere e della memoria del faraone «eretico».
La religione di Aton però non scompare del tutto, ma lascia “tracce, anche profonde, nella vita del Paese” (Cimmino 1987: 362). Infatti, il monoteismo verrà in qualche modo ripreso da Mosè, mezzo secolo dopo la morte di Akhenaton, e andrà a costituire il tratto specifico del popolo ebraico (vedi sezione III).

II.2.3. Il faraone-dio
Se a livello regionale i villaggi si uniscono per ragioni contingenti legate alla necessità di cooperare per sopravvivere, è difficile immaginare un’unità nazionale senza il collante della religione. In effetti, l’Egitto faraonico è reso possibile dalla religione ed è inconcepibile senza di essa. Gli egizi sono propensi a credere che i caratteri esteriori del loro sistema politico siano “fissati ab aeterno da un dio creatore” (Scamuzzi 1987). Insomma, tutto, in Egitto, ruota intorno a qualche divinità. Ogni insediamento umano ha il suo dio e questo dio è considerato il padrone di quel territorio: a lui si rende il culto in quel luogo e ogni luogo venera un unico dio (sotto questo aspetto, si può parlare di monoteismo). Ma c’è rispetto per gli altri dèi come per le altre forme di culto. “Non si ha notizia di punizioni, di riprovazioni inflitte per violazioni religiose, di fatto o di solo pensiero” (Nera 1985: 55).
La particolarità del modello egizio va individuata nella divinizzazione del re. La credenza nell’origine divina dei sovrani, in qualche modo, può essere equiparata ad una sorprendente e originale invenzione. È la prima volta, infatti, che si attribuisce una natura divina ad un essere umano e vi si crede per fede. Ebbene, questa invenzione rende possibile la realizzazione di una società umana di dimensioni mai viste prima. Il meccanismo è semplice: in quando sudditi dello stesso re-dio, milioni di persone sparse su un territorio di centinaia di migliaia di Kmq, si ritengono appartenenti allo stesso popolo e condividono la stessa cultura. Ciò costituisce un fenomeno nuovo e straordinario, in precedenza nemmeno immaginabile e dà conto di un modello politico nuovo, che è come se fosse stato disegnato da un dio in persona, a forma di piramide. “L’Egitto faraonico ci fornisce uno degli esempi più impressionanti di monarchia assoluta: il diritto divino, fondamento di tutte le monarchie di questo genere, vi ha trovato la sua espressione più energica e le conseguenze più estreme” (Aymard, Auboyer 1955: 34).
In teoria l’intero paese si considera proprietà degli dèi e vive per gli dèi. In realtà, ogni persona e ogni cosa appartengono al faraone, anche se questi non manca mai di riconoscere, umilmente, che il proprio potere viene dal cielo. In ogni caso, per l’Egitto il faraone è tutto: è sommo re e sommo sacerdote, è uomo e dio, e ciò gli conferisce un potere assoluto. Egli è consapevole delle proprie origini divine o, almeno, così lascia credere. “Sono il figlio vostro, creato dalle vostre due braccia. Voi mi avete fatto sovrano Vita, Salute, Forza di ogni paese. Voi avete fatto di me la perfezione sulla terra” (Cimmino 1994: 138).
In pratica, l’intero paese ruota intorno ad un centro, che è la persona del faraone, e tante realtà locali che generalmente fanno capo ad un tempio. Il tempio rappresenta il cuore della religione egizia. Al suo interno possono accedere solo i sacerdoti, i quali, solitamente, si limitano a svolgere atti rituali in modo autonomo, senza preoccuparsi di uniformare le proprie attività di culto con quelle degli altri sacerdoti, né di creare elaborati sistemi dottrinali e dogmatici, né di fondare chiese, né di prendersi cura delle anime. L’essenza della loro religione è la celebrazione del rito, la cui funzione è quella di attirare la benevolenza del dio. A fronte di questo impegno modesto, essi possono contare su solide entrate, e perciò il ruolo sacerdotale è molto ambito. Generalmente si diventa sacerdote “per eredità o per acquisto della carica, più raramente per elezione” (Cimmino 1994: 108). Ogni tempio ha la sua divinità locale, di cui il faraone è considerato il figlio. In ragione di questa sua filiazione, il faraone è tenuto a provvedere al culto di tutte le divinità locali, anche se in pratica ciò avviene attraverso l’intermediazione di un sacerdote delegato (Bresciani 2000: 63). Così faraone e sacerdoti governano da padroni incontrastati l’Egitto.
Come tutte le cose di questo mondo, anche la divinizzazione del re ha determinati effetti, che potranno essere visti in chiave positiva o negativa a seconda dei propri convincimenti personali. Per un re-dio è facile ottenere il massimo di fiducia e consenso da parte dei sudditi e avocare un potere assoluto su grandi popolazioni e in ogni settore sociale, conseguendo così un’eccellente stabilità sociale. In effetti, il suddito egizio si sente sicuro di vivere nella società migliore possibile e di essere governato da un dio le cui decisioni sono le migliori possibili. Non ci sorprende, allora, se in Egitto le rivolte popolari sono rare. Le masse, che pure vivono in condizioni di povertà e di sfruttamento a vantaggio di alcune categorie privilegiate (i parenti del re, i sacerdoti, gli alti funzionari), probabilmente non si accorgono di essere sfruttate o, se si ritengono tali, prevale in esse l’inclinazione all’obbedienza e la certezza che la condizione in cui versano sia inevitabile o il minore dei mali. Da ciò lo spirito di sottomissione e la docilità di questi miserabili che, quasi mai, osano ribellarsi all’ordine faraonico che, di fatto, continua ad opprimerli.
Il rovescio della medaglia è che, in realtà, il faraone è un uomo come tutti gli altri e non c’è alcuna garanzia che il suo governo sia esente da errori o il migliore possibile. “Gli uomini […] divinizzano troppo spesso il potere. Attribuiscono ai capi una facoltà pressoché illimitata di modificare la storia del mondo. Immaginano che i governanti esercitino un pieno controllo sulla politica, sull’economia, sulle burocrazie, sugli apparati militari. Ma si ingannano. La realtà del potere è diversa dalle apparenze. Un capo conosce molto poco il mondo che lo circonda, e molto poco riesce a trasformarlo” (Melograni 1977: 1). Di questo lo stesso faraone è probabilmente consapevole, come lo sono verosimilmente le persone a lui più vicine. Ma poiché l’intero sistema sociale si regge su questa credenza, è interesse della classe dominante comportarsi come se il faraone fosse davvero un dio. Il cerimoniale, le parate, le pompe sono i mezzi di cui quel sistema sociale si serve per “occultare a se stesso e agli altri la sua insicurezza e la sua miseria” (Melograni 1977: 1-2). Ora, un faraone che è creduto dio, mentre in realtà è un uomo, può commettere qualunque errore senza che nessuno abbia il potere di sindacarlo. È questo il rovescio della medaglia del faraonato.

II.2.4. L’apparato amministrativo
Nel Nuovo Regno l’Egitto è suddiviso in una quarantina di distretti, chiamati «nomi», ed è praticamente governato da due visir, che sono coadiuvati da una ristretta schiera di funzionari di primo livello, i quali, a loro volta, si servono di funzionari di secondo livello, e così via. Tra i funzionari del faraone dovremmo annoverare anche i sacerdoti, i quali però, in taluni casi, rappresentano centri di potere parzialmente autonomi. In generale è il faraone stesso a nominare i suoi collaboratori più stretti, che sceglie quasi sempre nella cerchia dei suoi parenti e delle persone più fidate. Alla fine, faraone, visir, funzionari e sacerdoti costituiscono il vertice della piramide sociale, ossia una ristretta élite aristocratica, che controlla pressoché tutte le risorse del paese e che è ben distinta dal resto della popolazione: un classico esempio di società duale.
Questo apparato burocratico si dimostra molto efficiente e, grazie ad esso, il faraone è in grado di censire ogni risorsa economica del paese (bestiame, campi, imbarcazioni, alberi), ogni impresa produttiva (manifatture, cave di pietra, miniere, botteghe) e la forza lavoro (contadini, artigiani, artisti, mercanti). Tutto è scrupolosamente registrato e a tutti, con poche eccezioni, lo Stato chiede un’imposta oltre ad un contributo di lavoro personale.

II.2.5. L’agricoltura
La principale risorsa economica degli egizi è l’agricoltura. La maggior parte delle terre sono di proprietà del faraone e dei templi e date in affitto di mezzadria a persone che non lavorano direttamente la terra, ma la affidano a contadini. Il mezzadro dovrà consegnare la metà del prodotto al proprietario, mentre con l’altra metà dovrà compensare i contadini e tenere una parte per sé (Bresciani 2000: 80). Si coltivano, in prevalenza, orzo, frumento, legumi, alberi da frutta, vite, lino e cotone. La quantità del raccolto dipende dall’inondazione del Nilo: “un’inondazione insufficiente significava carestia, un’inondazione troppo abbondante significava l’impossibilità di seminare per tempo” (Cimmino 1994: 197). Allo scopo di controllare il corso delle acque, gli uomini realizzano un sistema complesso di dighe, chiuse, canali e bacini. Molto praticato è anche l’allevamento di diversi animali, come il bue, l’asino (il cavallo, dopo gli Hyksos), il maiale, il montone, la capra, oche e anatre (i polli sono sconosciuti). Il lavoro dei contadini-allevatori è ingente e frustrante. Essi, infatti, lavorano tutto il giorno, ma poi, dovendo consegnare una parte del raccolto al faraone, resta loro solo il necessario per la sussistenza, o poco più.

II.2.6. L’artigianato
In Egitto le attività artigianali sono ben rappresentate, con particolare riguardo alla filatura e alla tessitura del lino. I tessuti sono molto apprezzati e, insieme al papiro, costituiscono “uno dei prodotti più esportati” (Bresciani 2000: 104). In buona misura gli artigiani (fabbri, orefici, ebanisti, tessitori, tintori, ecc.) lavorano al diretto servizio del faraone e dei suoi funzionari e possono così marginalmente beneficiare dei loro privilegi. Perciò la loro condizione è leggermente migliore rispetto a quella dei contadini.

II.2.7. Il commercio
Il commercio interno deriva dalla divisione del lavoro; quello esterno dalla necessità di procurarsi oggetti e materie prime, come il legname, di cui il paese è carente, e che vengono scambiati con altre merci. È anche a ragione di queste esigenze di scambio che si avverte la necessità di costruire strade. Viaggiare è comunque rischioso e di solito ci si muove solo in caso di stretta necessità e in gruppi organizzati. La moneta rimarrà sconosciuta fino al periodo ellenistico.

II.2.8. Le categorie più umili
La società egizia si fonda essenzialmente su princìpi religiosi, implicanti solidarietà e mutuo rispetto, anche nei riguardi delle categorie sociali più deboli. La donna ha gli stessi diritti dell’uomo e, almeno in teoria, può esercitare il sacerdozio e ascendere al trono, anche se in pratica queste evenienze sono poco frequenti (Bresciani 2000: 92-4).I pastori sono considerati gente selvaggia e fatti oggetto di disprezzo, ma non per questo sono maltrattati. Le popolazioni straniere, che generalmente svolgono lavori umili, non sono trattate in modo molto diverso rispetto alle classi più modeste della stessa popolazione indigena: tale è il caso degli ebrei. Perfino gli operai semplici, che lavorano al servizio del faraone, nelle sue terre e nei suoi cantieri, vengono di norma trattati con generosità e comprensione, essendo anche previste cure mediche e vacanze atte a garantirne un buon equilibrio fisico e mentale (Bresciani 2000: 81). Gli stranieri sono rispettati e godono “degli stessi diritti degli egiziani” (Bresciani 2000: 74). Insomma, a tutti è riconosciuto almeno il diritto ad un’esistenza dignitosa. Ne risulta una società tutto sommato umana, il che contribuirebbe a spiegare il profondo attaccamento del popolo a quel sistema.

II.2.9. La guerra
Per la maggior parte della sua lunga storia, l’Egitto vive in pace e si accontenta di difendere i propri confini da infiltrazioni indesiderate. Se si eccettuano i pochi faraoni che si impegnano in politiche espansionistiche, per il resto la guerra costituisce raramente una necessità primaria per l’Egitto e, per conseguenza, è relativamente scarso il prestigio di cui godono i guerrieri.
Quando la situazione lo richiede, il faraone non deve far altro che ordinare ai governatori delle sue province di arruolare un certo numero di uomini. L’arruolamento è un obbligo che viene imposto con la forza, ma non mancano coloro che lo fanno volontariamente, attratti dal desiderio di sottrarsi ad un’esistenza grama e dalla speranza di conquistare un ricco bottino. Al tempo stesso, a chi se lo può permettere viene data la possibilità di farsi sostituire da un altro in cambio di denaro.
Col tempo diverrà più frequente il ricorso a truppe mercenarie. Il rischio è che dei generali prezzolati potrebbero essere tentati di attuare un colpo di stato, ma, ove ciò dovesse accadere, essi dovranno trovare il modo di legittimare il proprio potere, per esempio sposandosi con una principessa, se vorranno conferire una qualche stabilità al proprio trono.
Dopo una campagna militare, i soldati vengono congedati e, in caso di vittoria, molti di essi riescono a portare a casa una parte del bottino, mentre agli ufficiali vengono elargite prebende, incarichi remunerativi e, più raramente, anche schiavi.
Nel Nuovo Regno esiste un esercito permanente composto di 50 mila soldati arruolati con leva obbligatoria e diviso in quattro divisioni, chiamate ciascuna col nome di una delle quattro principali divinità del paese: Ra, Ammone, Ptath e Seth. L’armamento comprende archi, picche, giavellotti, scimitarre, pugnali, scudi e, a partire dagli Hyksos, anche carri da guerra a due ruote trainati da cavalli (Bresciani 2000: 78).

II.2.10. La schiavitù
In Egitto la schiavitù è un fenomeno scarsamente rappresentato, ma esistente. Si diventa schiavi generalmente per insolvenza di debiti. Tuttavia lo schiavo non perde del tutto i diritti civili, come accadrà in Grecia e a Roma, e di norma riesce a condurre un’esistenza accettabile. Alcuni schiavi vengono selezionati in base alle loro qualità personali e destinati a specifiche mansioni: alcuni vengono reclutati come soldati, altri come interpreti e qualcuno può perfino accedere alla carriera amministrativa, come testimonia il racconto biblico di Giuseppe (Gn 37-50).

II.2.11. Un mondo chiuso
Tale è l’essenza dell’Antico Egitto: un grande popolo con una sola volontà; uno Stato monolitico, autarchico, chiuso, pieno di sé, misoneista; un sistema politico nato perfetto, ma, proprio per questo, non ulteriormente perfettibile e soggetto a cadute rovinose; una società statica, immobile, fossilizzata; una sorta di formicaio, dove ognuno è prigioniero del proprio ruolo e dove si ignora il valore della libertà; un mondo improntato dall’alto e dove l’individuo ha scarso valore. A rigore, nemmeno il faraone può essere considerato un uomo libero. Anch’egli, infatti, costituisce una parte di quel sistema ed è «costretto» a recitare il ruolo assegnatogli. Gli egizi non riescono, o non vogliono, concepire un modello di società alternativo e rimangono legati a quel mondo, che li fa sentire sicuri di vivere nella società migliore possibile e governati da un «uomo-dio», le cui decisioni sono le migliori possibili.

II.2.12. Il pensiero religioso
Dopo la morte, il faraone ritorna nel mondo degli dèi da cui è venuto. Ma qual è il destino post mortem degli altri uomini? Gli egizi sono inclini a credere che anche gli uomini comuni abbiano una scintilla divina o spirito vitale o anima, detta Ka. Essi sono i primi al mondo a credere nell’esistenza di un’anima e di un aldilà di gran lunga più desiderabile rispetto alla vita terrena. Secondo gli egizi, il corpo muore quando viene abbandonato dalla sua anima, ma può ricongiungersi con essa, a condizione che conservi la propria integrità. Dopo che si sono ricongiunti, corpo e anima iniziano il cammino nell’aldilà, dove verranno giudicati nel tribunale di Osiride e, se considerati degni, entreranno nel mondo eterno del dio Ra, l’equivalente del paradiso.
In una stele funeraria di 4 mila anni fa si legge: «ho dato pane all’affamato, vesti all’ignudo, e questo ho fatto per il desiderio di essere un eletto verso il dio grande» (Curto 1981: 161). Per gli egizi, la vita terrena è solo una tappa intermedia, mentre la morte segna l’inizio della vera vita, quella eterna. Secondo l’autore del Libro dei Morti, che scrive intorno al 3500 BP, alla morte l’uomo viene giudicato da Osiride e punito o premiato a seconda della sua condotta morale: il reo viene annientato, il giusto destinato alla felicità in eterno. Per questo gli egizi imbalsamano il cadavere del faraone e lo seppelliscono in una tomba adeguata al rango, dove possa conservarsi per un tempo indefinito, e per la stessa ragione gran parte delle risorse del paese viene impiegata “per scopi funerari o per il mantenimento del culto dei morti” (Cimmino 1994: 32). Di converso, gli egizi costruiscono “solo case modeste per la loro breve vita terrena, riservando tutti i fasti alla «casa eterna», ove avrebbero trascorso la vita nell’aldilà” (Vardiman 1998: 254).
Partendo da poche idee essenziali, quali l’esistenza di esseri divini e di un’anima, gli egizi costruiscono concezioni teologiche molto avanzate, alle quali attingeranno a piene mani gli ebrei. Essi concepiscono, per esempio, che un dio abbia creato l’uomo ad immagine di sé e il mondo in funzione dell’uomo, che la malattia sia una punizione divina per i peccati dell’uomo, che gli dèi siano inclini alla misericordia e al perdono, e che perciò bisogna pregarli, che la preghiera non serva solo per ottenere la guarigione delle malattie e per aiutare i vivi, ma anche per salvare le anime dei morti (Curto 1981: 163-4). Gli egizi si pongono anche il problema del male e giungono a formulare ipotesi destinate ad avere un futuro, come le seguenti: 1) il male è conseguenza necessaria della libertà concessa da Dio all’uomo; 2) il male è una realtà esistente per volontà di Dio ed è imperscrutabile per l’uomo, il quale non può fare altro che piegarsi impotente di fronte a un Destino che lo sovrasta; 3) il male è opera di un dio malvagio che si contrappone al dio del bene (è la concezione dualista). Queste idee saranno riprese dai filosofi e pensatori greci, dalle religioni dualiste (zoroastrismo, manicheismo, gnosi), e anche dal cristianesimo.
Coerentemente con questi princìpi, si diffonde l’usanza di scrivere, prima sulle pareti della tomba del faraone e poi su papiri, che vengono introdotti nel sarcofago o infilati fra le bende della mummia, invocazioni e formule magiche, che hanno la funzione di guidare lo spirito del defunto nel suo cammino verso il mondo del dio Ra. Successivamente questi testi saranno raccolti in quello che è noto col nome di Libro dei Morti .

II.2.13. Diritto
Il faraone incarna lo spirito dell’intero paese e la sua volontà ha valore di legge. Ciò spiega perché gli egizi non avvertono l’esigenza di elaborare un diritto paragonabile a quelli mesopotamici: si conoscono, tuttavia, raccolte di leggi di tono minore. In Egitto nessun individuo, a parte il faraone, è riconosciuto portatore di diritti propri. Tutti sono sudditi e gli stessi funzionari possono solo esercitare un potere riflesso.

II.2.14. Cultura generale
Liberi da ogni preoccupazione per la sussistenza e non svolgendo attività manuali, molti alti funzionari possono dedicarsi ad attività di pensiero, ed è soprattutto a loro che dobbiamo la cosiddetta «civiltà egizia», che è la risultante delle acquisizioni conseguite in discipline, come la geometria, l’architettura, l’astronomia, l’astrologia e la medicina, e dei progressi tecnici nella coltivazione della terra, nella mummificazione dei cadaveri, nelle attività artigianali e in altri settori. In tutti questi campi, gli egizi si cimentano principalmente per rispondere ai problemi concreti della vita quotidiana, certo, ma anche per puro interesse speculativo e semplice curiosità intellettuale, raggiungendo livelli degni di nota, anche se rimangono lontani dall’eccellenza ellenica. È inutile, infatti, cercare in Egitto un pensiero filosofico o politico paragonabili a quello che svilupperanno gli antichi greci. E lo stesso vale per il metodo storiografico. La storia interessa gli egizi soltanto a fini dinastici e si riduce “a poco più che liste di nomi, alla somma degli anni di regno di ciascun sovrano e alla annotazione di alcuni fatti essenziali” (Cimmino 1994: 301).

II.2.15. Arte
Nel tempio e nel palazzo, accanto agli scribi che si occupano prevalentemente dell’amministrazione dello Stato, lavorano anche artisti, il cui compito è quello di abbellire la casa del dio e curare la propaganda di Stato. Affreschi, iscrizioni, stele, lapidi, obelischi, statue, templi e altro ancora, tutto ciò obbedisce, in ultima analisi, all’intento di magnificare e legittimare la figura del faraone e la ragion di Stato.

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