martedì 13 luglio 2010

III.2.2. Il periodo dei Giudici (1200-1020)

Con la morte di Mosè, inizia un periodo cruciale nella storia ebraica, nel quale si gettano semi che metteranno profonde e indelebili radici e da cui nascerà uno Stato nazionale. È il periodo dei Giudici, che copre un arco di tempo di 180 anni, dal 1200 al 1020, e del quale dobbiamo ora occuparci. Nel periodo dei Giudici gli ebrei rimangono organizzati alla maniera tribale, e ciò significa che non hanno una struttura sociale gerarchica, non hanno una figura di capo stabile e dotato di importanti poteri, non hanno un apparato burocratico e nemmeno un esercito regolare, che la tribù non può permettersi per almeno due motivi: primo, la sua economia agricolo-pastorale impegna tutte le persone; secondo, le risorse prodotte sono appena sufficienti per la sussistenza o poco più. Nella tribù non c’è un potere politico istituzionalizzato e le uniche autorità riconosciute sono il capofamiglia e il consiglio degli «anziani», ma si tratta di autorità essenzialmente morali. Di fatto ogni famiglia è autonoma e sovrana, e i rapporti fra le famiglie sono improntati all’insegna di uno spirito paritario. Queste caratteristiche rendono la tribù inadatta a condurre con successo una politica di conquista.
Solo in talune circostanze, per esempio un attacco da parte di nemici esterni, il consiglio degli anziani può nominare un capo supremo, investendolo di poteri straordinari allo scopo di fronteggiare l’emergenza, cessata la quale si ristabilisce la condizione precedente e il capo ritorna alle sue consuete occupazioni. Ebbene, questo capo a tempo è chiamato giudice, un condottiero, prescelto da una o più tribù, con lo scopo di portare a termine un’impresa militare particolarmente impegnativa. Non vi è né uno status, né un ruolo istituzionalizzato di giudice; una tribù può avere più giudici, così come un giudice può godere credito presso diverse tribù. Al limite, è possibile che ciascun clan abbia un proprio giudice, ma passeranno alla storia come tali solo quei personaggi le cui gesta saranno tali da travalicare gli angusti limiti della propria tribù.
Abbiamo detto che il giudice dispone di poteri straordinari e limitati. Di norma, egli presceglie gli uomini, chiamiamoli funzionari, che lo dovranno affiancare nel suo compito e, insieme a loro, decide il piano d’azione. Innanzitutto, per coprire le spese della guerra, occorrerà imporre ai singoli clan una tassa, che dovrà essere sostenibile e, al tempo stesso, adeguata alla bisogna. Poi bisognerà valutare il numero dei soldati da arruolare, che non dev’essere troppo esiguo, per evitare di essere schiacciati dal nemico, né troppo numeroso, per evitare di determinare un eccessivo nocumento alle famiglie. Ai funzionari spetta il compito di comunicare ai capiclan le decisioni del giudice e di stabilire un termine perché la tassa venga versata, ma anche il numero di soldati da arruolare. Al singolo clan viene lasciata la facoltà di individuare le reclute e di indicare il loro capo. Alla fine, l’esercito sarà composto dalla somma dei manipoli di soldati che ciascun clan avrà inviato. Al giudice spetta il comando supremo e tutte le principali decisioni in merito all’approvvigionamento di cibo, al luogo dell’accampamento, al tipo di schieramento, al momento dell’attacco, e via dicendo, ma solo per il periodo dell’emergenza, cessata la quale, ciascuno se ne ritorna presso la propria famiglia e alle proprie consuete mansioni, e tutto ritorna come prima.
A differenza del re, il giudice non ha il potere di imporre un carico fiscale né di armare un esercito permanente, il suo ruolo è temporaneo e si esaurisce con l’impresa stessa, e la sua funzione è finalizzata ad affrontare una situazione di emergenza e di breve durata, non adatta a governare efficacemente un grande popolo. Il giudice può tutt’al più affermarsi come un eroe locale di una o, al massimo, di poche tribù, ma si rivela incapace di unire tutte le tribù in un solo popolo e inadatto a dare una risposta appagante alla «volontà di potenza» e al nazionalismo che sono alimentati dalla fede nel Patto. In compenso, la figura del giudice ha il merito di saper conciliare le due opposte tendenze che si contendono il campo dopo la morte di Mosè, quella di preservare la struttura tribale, insieme al suo spirito di indipendenza e al suo tipico assetto sociale paritario, e quella di essere sufficientemente forti quando gli eventi lo dovessero richiedere.
Il primo giudice di cui fa menzione la Bibbia è Giosuè, il successore di Mosè. Trovandosi a dover guidare gli ebrei alla conquista della Terra promessa ed essendo consapevole della propria inferiorità in termini di organizzazione e armamento, Giosuè punta sul fattore religioso per galvanizzare i suoi uomini e infondere in loro una cieca fiducia sulla vittoria finale. Poi punta dritto su Cades, dove si unisce con gli uomini di altre tribù ebraiche palestinesi colà confluite in attesa di decidere il da farsi. L’arrivo di Giosuè e la religione mosaica di cui egli è portatore, agendo da “elemento catalizzatore” (Parente 1985: 8), hanno l’effetto di suscitare negli ebrei un entusiasmo incontenibile e di convincere anche gli indecisi che è finalmente arrivato il momento di muovere tutti uniti alla conquista di Canaan.
I potenziali nemici contro cui gli ebrei dovranno combattere si chiamano edomiti, moabiti, ammoniti, aramei, madianiti, filistei e altri. Alcuni di loro sono retti da monarchie e dispongono di eserciti regolari e ben armati, e, dunque, l’impresa di Giosuè non si prospetta facile, ma egli può contare sull’ardore religioso, oltre che sul coraggio e le sorprendenti qualità militari dei suoi uomini, per sopperire alle carenze tecniche. Tuttavia, dopo qualche iniziale successo, che ha l’effetto di confermare gli ebrei nella loro fede, la realtà appare molto più complessa e difficile del previsto: non solo le tribù cananee non si lasciano facilmente piegare, ma sono anche così forti da costituire una seria minaccia per i figli di Israele. Questo stato di cose è ben illustrato nel seguente passo della Bibbia:

“Per sette anni i Madianiti oppressero con mano pesante il popolo d’Israele. Per difendersi, gli Israeliti si rifugiarono sui monti, in grotte e caverne, tra rocce inaccessibili. Ma ogni volta che gli Israeliti scendevano a seminare i loro campi, venivano i Madianiti, gli amaleciti e altre tribù del deserto e li invadevano. Si accampavano nel territorio degli Israeliti, rubavano le capre, i buoi e gli asini e distruggevano il raccolto quasi fino a Gaza. Così, gli Israeliti non avevano più niente da mangiare. I Madianiti arrivavano con i loro greggi e le loro tende. Erano come le cavallette. Avevano tanti cammelli, che non si riusciva nemmeno a contarli, e dove passavano, devastavano tutto. A causa di Madian gli Israeliti finirono in miseria” (Gdc 6, 2-6).

Ma gli ebrei non si perdono d’animo e rispondono con le imprese di Gedeone (Gdc 4-5), Jefte (Gdc 11-12), Sansone (Gdc 13-16), Otniel (Gdc 3,7-11), Eud (Gdc 3,12-20), Samgar (Gdc 3,31), Debora e Barak (Gdc 4-5), i quali, sfruttando al meglio le qualità dei propri uomini, la loro capacità di muoversi rapidamente e senza farsi notare, la loro determinazione e la buona conoscenza del territorio, riescono a cogliere alcuni successi sulle tribù locali, ma non ad imporsi sui filistei.

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