martedì 13 luglio 2010

III.1.1. Fonti

La principale fonte della storia ebraica è rappresentata dalla Bibbia. Fonti minori, ma non per questo di scarsa importanza, sono costituite dalle scoperte archeologiche e dalle poche notizie sugli ebrei rinvenibili negli annali delle corti (egizia e assira innanzitutto) che ebbero a che fare con Israele (il primo documento che fa menzione degli ebrei come popolo risale al 1220 a.C.). Il contributo di queste fonti minori è decisivo se non altro perché fornisce un elemento di verifica dell’attendibilità del racconto biblico. A partire dal III sec. a.C. abbiamo le prime notizie sugli ebrei da parte di autori greci e, da qui in avanti, le documentazioni storiche sul popolo «eletto» si fanno sempre più ampie e articolate.
La Bibbia non è un’opera storica perché i suoi compilatori erano persone di fede, alle quali non interessava conoscere l’esatto svolgimento dei fatti, ma dimostrare che gli eventi trascorsi avevano obbedito ad un preciso disegno divino. Ora, essendo gravato da questo pregiudizio, è inevitabile che il loro racconto presenti discrepanze, reticenze e adattamenti, che servono a renderlo congruente con la loro fede religiosa. Ciò però non vuol dire che essi hanno deliberatamente voluto nascondere o alterare la verità dei fatti. Se avessero voluto prescindere dalla verità, infatti, i compilatori biblici avrebbero raccontato un’altra storia, una storia totalmente inventata, irreale, fantastica, più bella e meno cruda. Essi hanno voluto invece raccontare la storia «vera» di un popolo reale, anche se poi si sono limitati a esporre la loro verità, che era, lo abbiamo detto, una verità di fede. A ciò va aggiunto il fatto che i singoli libri risultano da un collage di scritti diversi, composti da autori diversi e in tempi diversi, ma anche di tradizioni orali, che il redattore finale ha legato fra loro con l’intento di creare un’opera il più possibile unitaria. A causa di questa natura composita della Bibbia e della sua lunga storia redazionale, non ci dobbiamo meravigliare delle sue imperfezioni. Semmai dovremmo sorprenderci che queste imperfezioni non siano maggiori.
Fino a non molto tempo fa si riteneva che la Bibbia fosse stata scritta di proprio pugno da Mosè, da Davide e dai profeti. In realtà, l’indagine filologica sviluppata negli ultimi due secoli ha dimostrato che non solo la Bibbia è stata redatta in epoca assai più tarda di quella di Mosè e di Davide, ma che anche i libri «profetici» sono stati scritti in larga misura da non dai profeti stessi che ne risultano autori, ma da loro discepoli e in tempi anche molto successivi. Secondo Finkelstein e Silberman, i primi testi scritti, che poi andranno a far parte della Bibbia, sono stati redatti ai tempi del re Giosia con l’obiettivo di suscitare un sentimento nazionalista in Giuda e dimostrare la sua predestinazione divina verso un futuro brillante (2002: 36), ma la prima edizione della Bibbia vera e propria, ovverosia il Pentaeuco o Torah, deve essere fatta risalire al periodo dell’esilio babilonese e a quello immediatamente successivo.
Ne consegue che la Bibbia non è una mera raccolta di testi scritti in tempi diversi, bensì un’elaborazione di fatti lontani in terra d’esilio, il frutto del “ripensamento della storia passata” (Liverani 1988: 690) operato dagli ebrei in terra di Babilonia. In altri termini, la Bibbia contiene la storia di Abramo e della sua progenie vista in funzione della situazione politica del VI secolo, una storia che non si propone di raccontare la verità dei fatti, ma che intende descrivere e spiegare quei fatti alla luce della fede nella Promessa. Ciò spiega le discrepanze fra il racconto biblico e i dati archeologici. In effetti, se dovessimo raccontare la storia degli ebrei basandoci principalmente sui dati archeologici oggi disponibili, dovremmo raccontare una storia assai diversa da quella riportata nella Bibbia, una storia simile a quella che possiamo leggere nell’interessante libro di Finkelstein e Silberman (2002).
Ora, proprio in virtù del fatto che la Bibbia è più un libro di fede che un libro di storia, è bene che noi la leggiamo non come si legge un libro di storia, ma un libro scritto da uomini di profonda fede religiosa. Pertanto, accostandoci, ad esempio, ai Libri dei Re, non dobbiamo pensare che quelle pagine fotografano obiettivamente ciò che è avvenuto, ma piuttosto dobbiamo calarci nei panni degli scrittori sacri e cercare di capire quale senso essi intendessero dare al proprio racconto alla luce dell’elemento che maggiormente connota la loro fede, ovvero l’Alleanza o la Promessa fra Jahve e il suo popolo. Ed è questo che io cercherò di fare.

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