lunedì 12 luglio 2010

III.4.1. Il ritorno degli esuli e la costituzione di uno Stato sacerdotale (539-515)

L’esilio dura poco meno di cinquant’anni e si conclude quando Ciro di Persia, dopo essere entrato vittorioso in Babilonia (539) ed essere salutato dagli giudei come inviato da Javhe (Is 44,28; 41,25-28; 46,11) per punire gli oppressori Babilonesi, concede agli esuli di fare ritorno nella Giudea (538), che intanto è divenuta un distretto della provincia di Samaria ed è amministrata da un funzionario persiano. Molti, però, soprattutto fra quanti hanno raggiunto un elevato livello economico-sociale, preferiscono rimanere in Babilonia o in altre sedi dell’immenso impero persiano, che eleggono a propria patria. Inizia così, in via potremmo dire ufficiale, quella dispersione (diaspora) che, da lì in avanti, caratterizzerà per sempre la storia degli ebrei.
Il ritorno avviene ad ondate e a piccoli gruppi e si svolge nell’arco di circa un secolo, dal 539 al 428. In questo periodo la Giudea è un’area di scarsa importanza politica, peraltro funestata da una serie di magri raccolti (Ag 1,11; 2,15-17), e quindi economicamente depressa, e per di più è scossa da una spinosa questione che si va profilando già con l’arrivo dei primi profughi, che, va ricordato, costituiscono l’élite della società ebraica. Ebbene, essi si aspettano di riprendere il loro posto nella società e riappropriarsi dei loro beni, ma incontrano la resistenza dei residenti, e ciò è causa di forti tensioni sociali. Questa questione rimane per il momento senza risposta ed è causa di un profondo malessere sociale.
Sotto il profilo religioso, il morale dei reduci è alto e, già dopo i primi arrivi, può essere avviata la ricostruzione del tempio, anche se i lavori procedono lentamente a causa delle misere condizioni economiche della comunità, che però vanno lentamente migliorando a mano a mano che arrivano gli altri esuli.
Nel 521 fa ritorno un gruppo di esuli più consistente, di cui fa parte Zorobabele, l’ultimo rampollo della casata di David, insieme al sommo sacerdote Giosuè. Molti in Giudea vedono in quell’evento il segno divino della svolta e già sognano la ricostituzione della monarchia, se non addirittura un imminente avvento del regno di Dio. Gli animi cominciano ad eccitarsi e i profeti del momento, che sono Terzo-Isaia, Aggeo, Primo-Zaccaria e Abdia, non perdono l’occasione di cavalcare quell’onda di emozione. Terzo-Isaia assicura che per Gerusalemme verranno giorni di gioia e pace: “Il lupo e l’agnello pascoleranno insieme, il leone mangerà la paglia come un bue, e il serpente mangerà la polvere, non faranno né male né danno in tutto il mio santo monte” (Is 65,25). Per Aggeo gli anni di magra e le tensioni sociali sono la giusta punizione divina al fatto che la gente si mostra più preoccupata a costruire la propria casa che quella del Signore. Inoltre, il ritardo dei lavori ritarda anche l’avvento del regno. Come può, infatti, Dio fare il suo ingresso trionfale a Gerusalemme, se non c’è il tempio? Bisogna non solo riprendere i lavori del tempio (Ag 1,9; 2,4), ma anche far sì che tutti i giudei residenti all’estero rientrino nella loro patria. Primo-Zaccaria si dice certo che il Signore tornerà a Gerusalemme e vi fisserà la sua dimora (Zc 8,3). Abdia afferma che i tempi bui stanno per lasciare Israele per abbattersi sulle altre nazioni (Abd 15) e alla fine “la casa di Giacobbe possederà i suoi possessori” (Abd 17), mentre il “regno sarà del Signore” (Abd 21). Nonostante queste parole di speranza, rimane aperta la questione sociale innescata dall’arrivo degli esuli.
Cosa fare allora? Le principali opzioni possibili sono due: ripristinare la dinastia di Davide oppure instaurare uno Stato sacerdotale. La prima ha il vantaggio di rispettare la tradizione e di accontentare tanto il candidato-re, Zorobabele, che è lì a disposizione e non vede l’ora di sedersi sul trono, quanto il popolo, che chiede ordine e pace sociale. L’istituzione dello Stato sacerdotale è maggiormente gradita ai reduci di Babilonia, i quali, volendo recuperare lo stesso status sociale che avevano in origine e dovendo confrontarsi con l’opposizione dei residenti, ritengono che la questione possa risolversi a loro vantaggio più a livello religioso che politico, più con un governo sacerdotale che con la monarchia. Lo Stato sacerdotale è preferito anche dai signori persiani, i quali però dubitano che i sacerdoti abbiano la forza necessaria per affermarsi in questa competizione e soprattutto la capacità di ben governare il popolo ebraico.
I reduci di Babilonia sostengono che il Patto con Jahve non si riferisce solo ai giudei residenti, ma anche agli esuli, i quali, per le stesse ragioni per cui hanno conservato i diritti religiosi, devono anche conservare i diritti sociali e politici. Essi chiedono dunque che sia il sommo sacerdote Giosuè a dirimere la questione alla luce delle Sacre Scritture, e i residenti non trovano nulla da obiettare: non vogliono mettersi contro Dio.
Giosuè, che dev’essere un uomo ambizioso, oltre che scaltro, fiutando un eccellente affare, si dichiara disponibile per il delicato compito che gli viene affidato, ma chiede del tempo. Il suo scopo, in fondo, è di mantenere il potere nelle proprie mani, evitando che nella questione intervenga il re. I Sacri Scritti – si scusa – non si limitano solo alla Torah: ci sono anche i Proverbi, i Salmi, i Profeti, le Cronache, e altri testi ancora, e tutti sono ugualmente ispirati da Jahve. Inoltre, molti libri sono stati rovinati dal tempo e dalle ultime vicissitudini della deportazione e sarebbero da riscrivere e ordinare: solo una rilettura unitaria e attenta potrebbe perciò consentirgli di cogliere la reale volontà del Signore. Così facendo, Giosuè non risolve il problema, ma raggiunge il suo intento.
Intanto i lavori del tempio riprendono ma, con pochi soldi a disposizione, non si possono fare miracoli e così essi possono giungere a conclusione solo grazie all’intervento del re persiano (Esd 6,8). Finalmente, nel 515, il tempio viene inaugurato. “La ricostruzione del tempio e dell’antica città di Davide dopo il ritorno dall’esilio babilonese indica chiaramente che Israele si rende conto che i tempi del regno sono irrevocabilmente passati e che soltanto l’intima unione nella comunità religiosa può garantire la sopravvivenza del piccolo popolo, comunque possano svolgersi gli eventi politici” (Keller 1986: 323). Anche se si tratta di una struttura relativamente modesta, se confrontata con quella precedente, il tempio assurge a simbolo della religione ebraica e a sede del governo d’Israele. Nello stesso tempo, il sommo sacerdote diviene il capo supremo di Israele e governa dinasticamente. Zorobabele viene deposto e la monarchia finisce per sempre, ma non per questo cessa il desiderio di un re-messia, che “tornerà a farsi viva in Israele in molti momenti di crisi” (Sacchi 1987). Su questo avremo modo di ritornare più avanti.
È così che si costituisce in Palestina uno Stato sacerdotale ebraico, di cui abbiamo poche notizie, ma che, con molta probabilità, è un governo debole e incapace di risolvere la questione sociale che si è aperta fra i reduci di Babilonia e i residenti. Per quanto concerne l’appello accorato dei profeti, affinché tutti i giudei dispersi nel mondo facciano rientro nella loro patria, invece, pochi rispondono, così che la questione della diaspora rimane aperta.

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