martedì 13 luglio 2010

II.5. Gli Ittiti

La civiltà ittita trae origine da alcune tribù nomadi indoeuropee, forse provenienti dai Balcani e/o dall’Asia, che giungono in Anatolia sul finire del III millennio a.C., portando con sé il cavallo, animale sconosciuto in quell’area, che si rivelerà determinante per le successive azioni di conquista. Agli inizi del II millennio alcune di queste tribù (luviti, nesiti, hatti, ecc.) si organizzano e fondano dei principati, che presto iniziano a confliggere fra loro, il che dà origine a tentativi di unificazione.

II.5.1. Cenni di storia
Il primo tentativo di unificazione noto è quello operato, tra il XIX e il XVIII secolo, dal principe Anittas, il quale riesce a creare un regno in Anatolia centrale, che però si rivela molto instabile a causa delle incessanti lotte tra i signori locali, cui riesce a porre un freno Tabarnas (1680-50), il primo capace di fondare un impero abbastanza stabile (Antico Impero), di cui possediamo scarse informazioni, anche a causa delle difficoltà che si incontrano per decifrarne la lingua, che è diversa sia da quella egizia che da quella sumero-accadica. Le prime significative documentazioni in nostro possesso riguardano Hattusilis I (1650-20), successore di Tabarnas e fondatore della capitale Hattusa, che diventerà una delle più grandi città del II millennio: è estesa su una superficie di 160 ettari ed è circondata da un’imponente doppia cinta muraria che si sviluppa per una lunghezza di circa sei Km. Hattusilis attua una politica di espansione e getta le basi per un impero solido e duraturo, che durerà circa seicento anni.
Ad Hattusilis succede il nipote Mursilis I (1620-1590) che ne prosegue la politica di espansione a spese di Siria e Mesopotamia, giungendo a minacciare la stessa Babilonia. Mursilis non riesce però a contenere del tutto le mire indipendentiste dei singoli signori e, alla fine, viene ucciso. Si apre così un periodo di debolezza e di crisi, che è caratterizzato da lotte intestine per il potere e da sconfitte militari ad opera di nemici esterni, cui si oppone Telepinus (1520-1490), il quale, al fine di mettere ordine in un sistema sociale che appare tendenzialmente instabile, emana un codice di leggi, che regola, fra l’altro, la successione al trono, introducendo il principio della monarchia ereditaria. Ma ciò non basta ad evitare le spinte indipendentiste e le lotte intestine, e nemmeno è in grado impedire che gli ittiti subiscano la dominazione di un’altra potenza emergente, quella degli Hurriti, una casta guerriera di provenienza asiatica, che si era insediata in Mesopotamia, dove aveva fondato il regno di Mitanni (1600).
Approfittando della politica imperialistica del faraone Thutmosi III, che indebolisce il Mitanni, gli ittiti riacquistano la propria indipendenza e, con Tuthaliya (1480-40), fondano il Nuovo Impero, che si consolida anche grazie alle doti militari dei sovrani e alla loro sapiente politica di alleanze, per poi raggiungere il suo apogeo sotto il regno di Suppiluliumas (1380-46), il «Grande Ittita», che estende il suo potere sul Mitanni e su una parte del territorio siriano prima controllato dall’Egitto. L’impero ittita viene infine travolto dai Popoli del mare intorno al 1200 e scompare letteralmente dalla storia.

II.5.2. La società ittita
La società ittita, come quella egizia e quella sumera, è costruita intorno alla figura del re, che “è la massima autorità non solo in ambito politico, ma anche in quelli militare, giuridico e religioso” (De Martino 2003: 75). Ma non è un dio. In tutto il corso dell’Antico Impero i sovrani ittiti, pur assumendo nomi divini, al pari dei re degli stati vicini, non si identificano con la divinità. Per gli ittiti il re è solo un uomo, che viene eletto in funzione delle sue qualità e attitudini al comando da un’istituzione «democratica», prima sconosciuta, che ne limita i poteri, ossia da un Consiglio di nobili. Dopo averlo eletto, i nobili gli giurano fedeltà in cambio di determinate concessioni, quali il diritto di sfruttare un certo territorio, di comandare i propri contingenti in caso di guerra, e altro ancora. Il re, o meglio il Grande Re come viene chiamato, controlla i signori locali, o re minori, ai quali offre protezione e privilegi in cambio di una serie di obblighi e di un tributo. Ne risulta una società con un’impostazione di tipo feudale. Ogni signore è sovrano nel proprio territorio e vi esercita tutti i poteri. Solo in vista di importanti imprese militari i signori ittiti uniscono le loro forze a quelle del Grande Re e combattono come un sol popolo.
Il potere del re è limitato non solo dal Consiglio, ma anche da altri fattori, come il rigido cerimoniale di corte, il potere accordato alla regina e il prestigio della classe sacerdotale, che, oltre a godere di importanti privilegi fiscali e giuridici, esercita anche poteri civili. “Il sovrano ittita, eletto per le sue rilevanti capacità di comando, è quindi un uomo tra gli uomini; l’autorità regia, perciò, in uno stato plurinazionale è continuamente minacciata e rimessa in discussione, specialmente al momento della morte del re, quando la successione suscita lotte e contrasti” (Camera, Fabietti 1983: 81).
Nel Nuovo Impero, volendo rafforzare la stabilità del potere centrale, anche gli ittiti si risolvono a divinizzare il loro re e a farne oggetto di culto, ma solo dopo la sua morte. “Solo dopo morto un re diventa dio” (Lehmann 1986: 197). Solo nella tarda età imperiale gli ittiti finiscono per divinizzare il re mentre è ancora in vita, e ciò, se da un lato rafforza il potere centrale, dall’altro suscita l’aspettativa generale che il re debba dimostrare di essere un dio coi fatti, innanzitutto con le vittorie sui campi di battaglia. L’attività militare diventa perciò di capitale importanza per il sovrano, indipendentemente dal fatto che venga attuata in chiave difensiva, ossia per garantire la sicurezza dei sudditi, od offensiva, ossia per acquisire nuovi territori e ricchezze. In ogni caso la guerra serve al sovrano per alimentare una propaganda politica tesa a conferire legittimità al suo potere e a confermare l’effettività della sua natura divina.

II.5.3. La politica
La principale preoccupazione dei sovrani ittiti è quella di tenere uniti sotto il proprio controllo popoli diversi per lingua e cultura. A tale scopo, essi ricorrono anche all’arte diplomatica e a politiche di integrazione, dove rivelano qualità sorprendenti. Basti pensare allo spirito di apertura mostrato dagli ittiti, i quali non solo non riducono in schiavitù i popoli sottomessi, ma li elevano al rango di vassalli e se li fanno alleati. In altri termini, gli ittiti tollerano le differenti culture dei popoli dominati e le integrano con la propria. Si dice che essi sogliono portare in patria, come bottino di guerra, anche i simulacri delle divinità dei popoli vinti, che introducono nel proprio pantheon e collocano accanto ai propri dèi, ne mantengono il nome originario e ne fanno oggetto di culto, ritenendo che le divinità straniere così catturate passino dalla parte del vincitore e si mettano al suo servizio. Anche questo costume finisce per favorire l’avvicinamento fra i popoli e l’integrazione culturale.

II.5.4. L’economia
L’economia ittita è fondata principalmente sull’agricoltura (cereali, frutta, olio e vino) e sull’allevamento (ovini, bovini, suini) cui provvedono cittadini liberi e proprietari, che versano allo Stato una parte dei prodotti, oltre a contribuire con prestazioni lavorative, che vengono svolte presso i latifondi dei palazzi e dei templi. Un posto di rilievo è occupato anche dall’industria mineraria (il territorio è ricco di miniere di rame e di ferro) e dal commercio.

II.5.5. Il diritto
Il diritto ittita disegna una società bipolare, che vede da un lato il gruppo dominante (all’apice, il re con la sua famiglia, quindi gli alti funzionari, i sacerdoti e i quadri dell’esercito), dall’altro il resto della popolazione (contadini, artigiani, soldati, ecc.). Due aspetti del diritto ittita emergono sopra tutti: la particolare mitezza delle pene, che si risolvono generalmente in risarcimenti in denaro o in natura, segno inequivocabile di “uno straordinario rispetto per la vita umana” (Camera, Fabietti 1983: 81), e una concezione «laica» del diritto stesso, che non viene ricondotto ad una presunta volontà divina, ma rimane opera umana (De Martino 2003: 86). Le corti giudicanti sono formate da un consiglio locale di anziani o, a livelli superiori, da funzionari del re o dal re medesimo.

II.5.6. La religione
La religione ittita è, al pari di quelle egizia e sumera, caratterizzata dal politeismo antropomorfo. Il sentimento religioso ittita poggia sulla credenza che le disgrazie e le malattie degli uomini sono castighi divini, di tutte le divinità esistenti, e si possono evitare per mezzo di purificazioni, sacrifici, preghiere e formule magiche. Non c’è un confine netto fra magia e religione, le cui pratiche rimangono “strettamente connesse” (De Martino 2003: 99). Culto religioso e riti magici svolgono entrambi la funzione di attirare i favori della divinità e di allontanare i mali. Oltre alle pratiche rituali gli ittiti sviluppano molto l’arte della divinazione e dell’interpretazione dei sogni, di cui si servono per conoscere la volontà degli dèi, che poi dovranno assecondare per avere fortuna.

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