lunedì 12 luglio 2010

III.7.3. La Palestina (1919-1945)

Finita la prima guerra mondiale, rimangono sul campo due nazionalismi, quello sionista e quello arabo, che puntano a fare della Palestina il proprio Stato. Nel 1919 gli ebrei in Palestina ammontano a 58 mila unità, ossia l’otto per cento dell’intera popolazione, e sono determinati a portare avanti il loro disegno sionista, anche a costo di usare la forza. Shertok, futuro braccio destro di Ben Gurion, lo afferma in modo chiaro: “siamo venuti per conquistare un paese” (da Morris 2001: 121). I sionisti pensano ad un Grande Israele che comprenda il Sud del Libano e la Cisgiordania e si comportano con lucida determinazione. Tra i primi atti va ricordata l’istituzione di un’organizzazione militare, la cosiddetta Haganah (1920), che comincia ad operare clandestinamente, proprio mentre la Palestina passa sotto il mandato del Regno Unito. Gli ebrei sono ben inseriti nell’apparato amministrativo britannico, tanto che, abbandonate le vesti di minoranza malvista a maltrattata, cominciano a comportarsi come “futuri padroni della regione” (Morris 2001: 121). Tutto ciò crea una certa apprensione presso gli arabi ed è all’origine dei primi scontri con gli ebrei (1920).
Gli arabi devono anche fare i conti con una certa opinione inglese, che guarda con occhio benevolo al progetto sionista. Secondo Winston Churchill (1921), “è palesemente giusto che gli ebrei sparsi per il mondo abbiano un centro nazionale […], e quale potrebbe essere se non la Palestina […]?” (da Morris 2001: 131). Le preoccupazioni degli arabi sono dunque giustificate. Il Regno Unito, che pure si muove con prudenza, non riesce ad impedire che il numero degli ebrei passi a 85 mila unità in appena tre anni (1922), contro 730 mila arabi. È così che si costituisce, ad opera di un gruppo di ebrei colonialisti provenienti dall’Europa orientale, con la determinante complicità dell’impero britannico, quella che Ilan Pappe chiama ancora “enclave sionista in Palestina” (2007: 300).
Nel 1922 gli inglesi pubblicano il primo Libro bianco sulla Palestina ad opera di Winston Churchill, attuale segretario alle Colonie, il quale precisa: “Quando si chiede che cosa si intenda con lo sviluppo del Focolare nazionale ebraico in Palestina, si può rispondere che non è l’imposizione della nazionalità ebraica a tutti gli abitanti della Palestina, ma piuttosto lo sviluppo della comunità ebraica che già vi si trova” (da Bensoussan 2007: 536-7). Insomma, l’aver promesso agli ebrei una nazione in Palestina non significa dar loro tutta la Palestina.
Nel 1929 viene fondata a Zurigo l’Agenzia ebraica per la Palestina allo scopo di sostenere la costruzione del Focolare nazionale ebraico. Nello stesso anno gli arabi insorgono e massacrano la comunità ebraica di Hebron. A questo punto il Regno Unito si irrigidisce nei confronti degli ebrei e pubblica il secondo Libro bianco (1930), in cui si impegna a ostacolare il disegno sionistico e limitare l’immigrazione e l’acquisto di terre da parte degli ebrei, ma senza successo, visto che, nel 1931, il numero degli ebrei è già salito a 171 mila. Né si scorgono prospettive di miglioramento. Anzi.
La situazione tende a peggiorare, soprattutto dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche da parte di Hitler (1933), che condannano gli ebrei (viene considerato come tale chiunque abbia almeno un nonno ebreo) all’isolamento civile e alla segregazione. Nello stesso anno, infatti, inizia un’ondata migratoria senza precedenti e in continuo aumento (da 30 mila nel 1933 si passa a 42 mila nel 1934 e a 62 mila nel 1935), che, in soli quattro anni, porta gli ebrei in Palestina a 335 mila unità (1935).
Gli arabi rispondono fondando il Partito arabo palestinese (1935), nel cui programma è compreso il proposito di impedire la nascita del focolare nazionale ebraico, e sollevandosi in rivolta contro gli inglesi (1936-1939). “Più che una rivolta, è un movimento nazionale di grandi dimensioni, seguito e sostenuto da una popolazione che teme di essere invasa ed espropriata della sua patria dall’immigrazione ebraica” (Bensoussan 2007: 635).
Nel 1936 iniziano i lavori della Commissione Peel, che si chiude l’anno seguente con la raccomandazione di creare due Stati (agli ebrei viene assegnata un’area di 7665 kmq). Gli ebrei accettano, anche se non condividono la linea di divisione proposta, ma gli arabi continuano la rivolta. Intanto, al 20° Congresso sionista (1937), Meir Berlin afferma che “la base del sionismo è che la terra di Israele è nostra e non è la terra degli arabi […]. Noi reclamiamo la Palestina semplicemente perché è il nostro paese” (da Bensoussan 2007: 674).
Nel novembre 1938 il rapporto della commissione Woodhead, che ha l’incarico di studiare meglio la situazione e trovare qualche soluzione, “conclude sostenendo l’inattuabilità della divisione del paese in due Stati uno arabo l’altro ebraico” (Weinstock 2006: I, 122). Gli ebrei sono scontenti del comportamento degli inglesi, che ritengono colpevoli di porre dei freni all’immigrazione, e cominciano a colpirli con azioni terroristiche (1937-48). Nello stesso tempo continuano ad investire sugli armamenti e sull’esercito (1936-45), oltre che a proseguire l’immigrazione in modo clandestino.
In questo periodo (1938), Martin Buber, un insigne intellettuale ebraico, lascia la sua città natale, Vienna, per Gerusalemme, dove continua ad alimentare l’ideologia sionista. In una sua opera, Sion. La storia di un’idea, pubblicata per la prima volta in lingua ebraica nel 1944, lo studioso sostiene il legame indissolubile che lega il popolo ebraico alla Terra di Sion, in accordo col volere di Dio e il racconto biblico.
Gli inglesi rispondono redigendo un nuovo Libro bianco (1939), in cui stabiliscono che: 1) entro 10 anni si dovrà creare uno Stato palestinese bi-nazionale; 2) l’immigrazione ebrea sarà limitata a 15 mila persone per anno per un periodo di 5 anni; 3) dopo questa data, nessuna immigrazione potrà avvenire senza il consenso degli arabi. Gli ebrei si oppongono a questo disegno e continuano ad attuare un’immigrazione clandestina, oltre che azioni terroristiche contro gli inglesi. Nonostante tutto, il numero degli ebrei continua a crescere: nel 1939 sono ormai 460 mila unità, ossia il 30% dell’intera popolazione palestinese. Se non scoppiasse la seconda guerra mondiale, con molta probabilità scoppierebbe la rivolta degli ebrei contro i britannici (Weinstock 2006: I, 192).
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale (1939), la situazione degli ebrei in Europa si fa sempre più difficile e diventa tragica quando, accantonata l’idea di trapiantare tutti gli ebrei d’Europa in Madagascar, i dirigenti nazisti approvano un piano che prevede il loro sterminio totale (conferenza di Wannsee del 20.1.42) ed ha così inizio quell’orribile massacro, che passerà alla storia col nome di «olocausto» (= sacrificio di un popolo a un dio) o, come preferiranno gli ebrei, shoah, un termine privo di significato religioso, che sta per catastrofe, distruzione. Ed è proprio la shoah che ha l’effetto di porre in secondo piano tutti i motivi che si opponevano alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina e orientare favorevolmente in tal senso quella parte dell’opinione pubblica internazionale, che fino a quel momento era stata indecisa.
“La tragedia – scrive Bensoussan – ha cementato l’eterogenea nazione israeliana” (2009: 191). Secondo Idith Zertal, la propaganda sionista si è servita della shoah, così come di ogni altro fatto tragico, come una morte, una strage, una sconfitta o un insuccesso, sia per tenere vivo il sentimento nazionalista degli ebrei, sia per inclinare a proprio favore l’opinione internazionale, come del resto avevano fatto prima di loro i movimenti nazionalisti di altri paesi. “I campi di sterminio dei conflitti etnici e nazionali, le tombe dei caduti, sono i muri maestri delle nazioni moderne, sui quali poggia l’edificio del sentimento nazionale” (Zertal 2007: 3). In questo essere corroborato dal sangue dei martiri della shoah Bensoussan vede la specificità del nazionalismo ebraico: “Auschwitz non inventa la nazione ebraica, che esisteva già nell’Europa orientale, nello Yishuv e nel mondo arabo musulmano. Tuttavia la marca con il fuoco, ne suggella l’innocenza perduta ed alimenta in essa, a lungo, lo sguardo inquieto che rivolge al mondo” (2009: 190).
La politica sionista registra un importante successo nel 1946, quando Truman comunica formalmente il sostegno degli Stati Uniti alla nascita di uno Stato ebraico. Intanto il flusso migratorio non si arresta e, alla fine della guerra, il numero degli ebrei in Palestina raggiunge le 600 mila unità.

1 commento:

  1. Complimenti per l'obbiettività della lettura del Sionismo. Vorrei, tuttavia precisare alcuni concetti.
    la presenza ebraica non scomparve mai da quella Terra, dopo la deportazione del 70 e quella del 135 e.v.
    Insediamenti ebraici rimasero sotto i Romani, i Bizantini, gli Arabi, gli Ottomani, gli Inglesi e convissero sempre armoniosamente con gli altri.a Hebron, attualmente quasi completamente in mano araba, vi era una comunità ebraica storica, completamente massacrata nell'agosto del 1929.
    La pretesa araba di essere proprietaria storica legittima di qul suolo è scorretta. Entrambe le popolazioni erano autoctone da tempi biblici.
    Per quanto riguarda l'acquisto delle terre incolte e pagate a caro prezzo, farei risalire il fenomeno ai primi dell''800 grazie agli aiuti di Moses Montefiore.
    come sottolineato nella trattazione, per lunghi decenni le due popolazioni convissero amabilmente: gli Arabi fornirono mano d'opera e trovarono lavoro e sussistenza e gli Ebrei portarono dall'Europa tecnologia e razionalizzazione della coltivazione di una terra divenuta inospitale per 2 millenni.
    I problemi iniziarono negli anni '20 con i primi massacri da parte araba, culminati con l'eccidio di Hebron del 1929, sotto l'occhio imbelle e ipocrita degli Inglesi. Da allora vi è stata una escalation di violenza dove diventa difficile ritrovare i torti e le ragioni degli uni e degli altri.
    Un altro punto cruciale, già ben descritto, è il rifiuto categorico di ogni possibilità di spartizione del territorio, da parte degli Arabi (Fondamentalmente intendiamo gli Stati Arabi dell'epoca, che allora, come oggi, adoperano la questione palestinese per la loro fuerra ideologico-religiosa ad Israele. Gli stessi Stati Arabi che appoggiarono il Nazismo), Per loro si trattava del "tutto o nulla". fuori Israele dalla Palestina e nessuna possibilità di accordo, con completa negazione del diritto di Israele di esistere (Alcuni successivamente hanno modificato quest'ultima posizione, altri ancora la prevedono).
    Il problema dei profughi: da testimonianze raccolte da chi ha vissuto in quei luoghi in quell'epoca, l'esodo di 700.000 palestinesi circa, fu spronato dalle potenze arabe circostanti, le quali chiesero alle popolazioni di abbandonarìre le loro case, dietro lo spauracchio di stermini che gli Israeliani avrebbero potuto commettere. Contemporaneamente vi fu la cacciata di circa 1.000.000 di Ebrei da villaggi e territori arabi (occorre dire anche questo).
    I profughi palestinesi però non trovarono vita facile nei paesi arabi limitrofi, e molto spesso vennero perseguitati e sterminati dai loro stessi fratelli, come accadde in Giordania per circa 8.000 peersone. In altri termini, i primi a non volere i palestinesi erano gli stessi arabi Giordani, Siriani ed Egiziani. A ciò si aggiungeva il fatto che questi paesi erano e ancora sono lontani dall'essere paesi democratici. In quel tempo, come OGGI, ai Palestinesi non faceva piacere integrarsi in altri stati oppressivi e totalitari ed in fin dei conti preferivano e preferiscono la democrazia israeliana.
    Oggigiorno il 95% deei Palestinesi desidera vivere in pace con gli Ebrei, avendo lavoro, scuola sanità e democrazia. Altrettantoì, il 95% degli Israeliani desidera una convivenza pacifica con le popolazioni Arabe di Giudea e Samaria e questo mi consta di persona. I problemi sono causati da non più del 5% di fanatici integralisti, abilmente strumentalizzati da potenze circostanti, con in testa Iran e Siria.

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