martedì 13 luglio 2010

III.1.8. Mosè

Poco sappiamo di Mosè e quel poco che sappiamo lo ricaviamo dalla Bibbia: nessun’altra fonte ne parla e non disponiamo nemmeno del conforto di ritrovamenti archeologici, sicché, per alcuni siamo di fronte ad un personaggio non realmente esistente. Io, tuttavia, non voglio entrare in simili questioni storiografiche e resterò vicino allo spirito del racconto biblico.
Secondo Freud, “Mosè è un egizio, probabilmente un aristocratico, che la leggenda si propone di far divenire ebreo” (2010: 37). La tesi di Freud sarebbe avvalorata dal fatto che il nome «Mosè», che deriva da Thutmose, non è un nome ebraico, ma egiziano. Il periodo in cui è vissuto Mosè non è noto, ma prevalgono nettamente le opinioni che lo collocano in un’epoca successiva alla morte di Akhenaton. È possibile che, intorno al 1250, Mosè sia un giovane principe egizio, dalla personalità assai complessa, incline alla meditazione e al misticismo, critico nei confronti della cultura di palazzo e convinto seguace della religione monoteista di Aton. Nella sua terra si sente incompreso e isolato, deriso e perseguitato e sogna una vita assai più semplice, a contatto della natura, senza lussi, orpelli e sovrastrutture. È una specie di San Francesco del XIII secolo a.C., dibattuto fra “rimanere a vivere in Egitto solamente come proscritto o come infedele” (Freud 2010: 73), oppure cercare una nuova terra, dove poter vivere secondo i propri ideali.
Alla fine sceglie questa seconda via, ed è seguito da una tribù semitica immigrata in Egitto da alcune generazioni, che vive in condizioni pietose, gli ebrei appunto. Non è dato di sapere se sia stato Mosè a richiamare intorno a sé gli ebrei d’Egitto, o se siano stati questi a chiedergli di prenderli con sé e portarli via da quella terra amara. Quello che possiamo presumere è che non tutti gli ebrei lasciano l’Egitto per le stesse ragioni di Mosè: molti di essi sognano verosimilmente una vita migliore, più libera e più confortevole. La Bibbia racconta che Mosè lascia l’Egitto insieme ad un popolo di 600 mila uomini (Es12,37; Nm 1,46 e 26,51). Questo evento è conosciuto col nome di esodo.
La data dell’esodo non è nota. “Ai giorni nostri è ormai consuetudine collocare la fuoriuscita dall’Egitto all’epoca di Ramsete II, cioè intorno al 1250 a.C. Ma di documenti che lo provino con certezza non ce ne sono” (Lehmann 1987: 96). Un’altra data possibile è il 1470 a.C.. C’è chi sostiene una terza data, e cioè dopo la morte di Akhenaton (1347). Un’ulteriore ipotesi concilia le date precedenti, sostenendo l’esistenza di più esodi. Nel mentre si allontanano dalla terra d’Egitto, gli ebrei devono provare momenti di intensa emozione: essi stanno camminando verso la libertà e ciascuno di loro può liberamente immaginare cosa lo attende e come sarà la sua nuova vita.
La Bibbia racconta che Mosè e i suoi uomini si intrattengono per quarant’anni nel Sinai, dove le condizioni di vita sono tanto dure da scatenare proteste di massa, che il patriarca fa fatica a controllare. Ora, chi conosce il Sinai sa che le risorse di questa terra sono tali da non potere consentire la sopravvivenza a più di sette-dieci mila persone (tanti sembrano essere i nomadi che ancora oggi vivono in quei luoghi). “La familiare immagine di Mosè che guida tutto un popolo è ingenua. I figli d’Israele non ce l’avrebbero fatta a resistere neanche due giorni, figurarsi tutto il periodo indicato dalla Bibbia, che dice che erano partiti «in numero di 600.000 uomini adulti a piedi, oltre le donne e i fanciulli» (Lehmann 1987: 140; cfr. Es12,37; Nm 1,46 e 26,51). “L’unica ipotesi realistica è che i fuggitivi si siano suddivisi in gruppi capaci di sopravvivere o che «gruppi originariamente autonomi abbiano preso a cooperare». Ciò spiegherebbe perché la Bibbia parla di diversi itinerari: alcuni diretti a nord, altri a sud. Ciascuno di quei gruppi ebbe dunque la propria storia, e tutte insieme confluirono poi nel ricordo di un solo esodo, dopo che l’oasi di Cades-Barne divenne il punto di raccolta di tutti i nomadi” (Lehmann 1987: 149-50). A mio giudizio, questa questione sui numeri non è da ritenere determinante ai fini della comprensione della storia ebraica e non fa una grande differenza se gli ebrei che lasciano l’Egitto al seguito di Mosè fossero 6 mila anziché 600 mila. A noi deve bastare il sapere che, intorno al 1250, un gruppo di ebrei guidati da un capo lasciano l’Egitto, perché sono scontenti della vita che conducono in quella terra.
Ma cosa spinge Mosè a dirigersi e stabilizzarsi proprio nel Sinai e non invece a Canaan, che, secondo la Bibbia, è la «terra promessa» agli ebrei dal dio di Abramo? “Se fin dall’inizio dell’esodo la meta dichiarata dei figli d’Israele fosse effettivamente stata Canaan, essi avrebbero potuto raggiungerla in due settimane. E invece camminarono per quarant’anni, o comunque molto a lungo” (Lehmann 1987: 140). Perché allora Mosè si dirige nel Sinai, e non in Canaan? La risposta, in questo caso, potrebbe essere semplice: la terra di Canaan è sotto il controllo dell’Egitto e Mosè potrebbe avere paura di essere perseguitato e fatto prigioniero o ridotto in schiavitù dagli egizi. Potrebbe aver pensato: meglio libero in Sinai che schiavo in Canaan; e i suoi uomini potrebbero aver accettato quella soluzione come la migliore possibile, fidandosi di Mosè. Così, per alcuni anni, gli ebrei si adattano a vivere nel Sinai, uniti nella persona del patriarca, e il loro soggiorno nel deserto ha tutta l’aria di essere una sistemazione stabile, frutto di una precisa scelta di vita, liberi sì, ma in condizioni miserrime.
“La Bibbia narra con chiarezza le difficoltà che gli israeliti devono affrontare nel deserto, dopo essere diventati nomadi. Da altri racconti emerge che neppure Mosè in quella situazione sarebbe stato in grado di cavarsela senza prodigi” (Lehmann 1987: 16). Nei quarant’anni di peregrinazioni attraverso il deserto le disavventure cui vanno incontro sono tali da indurli a rimpiangere la schiavitù d’Egitto, la stessa contro la quale si sono ribellati. Anche se schiavi, infatti, lì avevano di che mangiare; mentre qui, nel deserto, muoiono di fame e malattie. Ma Mosè esclude categoricamente questa opzione, che ritiene fallimentare e rischiosa. Qualcuno gli chiede allora di avanzare verso la terra di Canaan e tentare un’azione di conquista. Ma nemmeno questa opzione è gradita a Mosè, perché va contro la sua indole pacifica e la sua personalità di asceta. Lo sconforto raggiunge momenti drammatici e Mosè deve far ricorso a tutta la propria abilità per tenere unito il gruppo e per impedire un umiliante e pericoloso ritorno in Egitto.
Che fare allora? Mosè fa quello che fanno, di norma, tutti i capiclan quando si trovano in situazioni difficili e devono prendere una qualche importante decisione: si rivolge al suo dio. La Bibbia racconta che egli si ritira in riflessione sul monte Sinai, dove gli si fa incontro Jahve, il quale si presenta come il dio che lo ha fatto uscire dall’Egitto (Es 20, 1), un dio potentissimo, che in sei giorni ha creato l’universo (Es 20, 11), un dio geloso e terribile, che non sopporta rivali (Es 20, 5; 34, 14) e pretende una fede esclusiva (Es 20, 3). Su Mosè l’effetto di quella visione è folgorante e gli consente di capire che, la causa dell’infelicità degli ebrei non è legata alle misere condizioni di vita del deserto, ma al fatto che essi non hanno tributato il culto dovuto al più potente degli dèi, ossia a Jahve. Senza indugio, il patriarca trasmette questo messaggio alla sua gente e deve apparire convincente, dal momento che tutti promettono di adorare solo Jahve e di osservare tutto ciò che lui comanderà (Es 24, 3).
In pratica, viene richiesta agli ebrei un’obbedienza senza condizioni alle volontà che lo stesso Jahve farà loro pervenire attraverso il suo rappresentante umano, ovvero Mosè. In cambio, Jahve promette che si occuperà di loro, che li tratterà come se fossero una sorta di sua proprietà (Es 19,5; Deut. 7,6; Sal 135,4), li condurrà alla conquista di Canaan (Es 23, 20-33; Dt 33, 27-29) e farà di loro un grande popolo. In pratica, Jahve condurrà gli ebrei erranti in una terra che stilla «latte e miele», dove si insedieranno stabilmente e dove non correranno il pericolo di morire di fame, né di malattie, né di spada. Alla fertilità delle campagne provvederà lo stesso Jahve facendo venire le piogge al momento giusto. Anche le malattie scompariranno, insieme al peccato. Circa il pericolo derivante da nemici, Jahve costituisce un’assoluta garanzia. Egli, infatti, è un Dio-Guerriero e nessuna potenza umana potrà resistergli.
La Promessa fatta da Jahve a Mosè, pur costituendo essenzialmente un impegno unilaterale del dio nei confronti del proprio popolo, viene considerata dagli ebrei alla stregua di un vero e proprio accordo politico. Del resto, a quell’epoca simili «accordi» sono comuni tra un sovrano e i suoi vassalli e vengono chiamati «Patto Antico» o «Antico Testamento» o «Alleanza». La consapevolezza di questa Promessa gonfia i cuori di profonda emozione e ridà nerbo ad una compagine, che è ridotta allo stremo e dilaniata da contrasti interni. Mosè si accontenta di questo risultato, ma in realtà egli non ha alcuna intenzione di uscire dal Sinai e tergiversa.
Questa situazione di compromesso entra in crisi allorquando, tra il 1220 e il 1200, Mosè e i suoi uomini, che si trovano ancora nel deserto, vengono raggiunti dall’eco del terremoto politico che sta scuotendo la terra di Canaan. La notizia accende d’entusiasmo soprattutto i giovani, fra i quali c’è Giosuè, che vi vedono un segno divino e si mostrano risoluti a muoversi senza indugio verso la conquista di quella terra. La religione di Jahve si adatta a perfezione agli eventi di Canaan e suscita nei beduini un appassionato e pervasivo ottimismo. Ma Mosè continua a frenarli, e ciò conferma le diverse motivazioni che hanno spinto lui e i suoi uomini a lasciare l’Egitto: allora Mosè era mosso da ardore religioso ed ora accetta la vita ascetica del deserto, i secondi sognavano migliori condizioni materiali e ora non vogliono rinunciare all’occasione propizia per insediarsi in una regione fertile. Jahve sta loro indicando la via da seguire per assicurare a se stessi e ai propri figli una vita migliore.
In definitiva, l’alleanza con Jahve significa per gli ebrei la nascita di una «volontà di potenza», ma anche l’affermazione di una coscienza di popolo. È da tempo, infatti, che le tribù sono consapevoli che, solo formando un popolo unito, possono alimentare speranze di affermazione o, quanto meno, di sopravvivenza in mezzo a tanti temibili nemici. Gli ebrei sanno che restare separati costituisce una condizione di debolezza e di rischio, mentre l’unione rappresenta un traguardo obbligato e, in certi momenti, anche una questione di vita o di morte. Ma la monarchia è estranea alla loro mentalità. Un buon compromesso sembra invece la figura di un condottiero a tempo, o «giudice», che però, alla lunga, si rivelerà, come vedremo, inidonea a unire le tribù in modo stabile. Gli ebrei chiedono, dunque, a Mosè di guidarli alla conquista di Canaan.
Stranamente, però, Mosè, che è ormai avanti negli anni, insiste nel suo atteggiamento prudente e getta acqua sugli ardori bellicosi che stanno infiammando la sua gente. Non si sa se egli si comporti così perché ha ancora paura degli egizi o perché preferisce la vita del deserto ad un eventuale insediamento in Canaan. Ma l’entusiasmo della gente, alimentato dalla fede Jahve e nella sua promessa, risulta incontenibile e Mosè non può far altro che impegnarsi a guidarli verso la terra dei loro sogni. In realtà egli continua a non essere convinto e fa di tutto per rallentare la marcia, poi, quando potrebbe puntare diritto su Cades e ricongiungersi coi fratelli habiru del Negev, decide di deviare verso est e, infine, quando è ormai prossimo alla Palestina, esita e, invece di penetrarvi deciso, continua a procedere lungo il confine.
I giovani fremono, non capiscono le ragioni di quel comportamento, mugugnano, ma Mosè insiste: nessun comandamento prevede la lotta armata ed è bene aspettare le mosse di Jahve; sarà lui a prendere le iniziative necessarie e agire. Non tutti però trovano convincenti queste argomentazioni e Mosè, che non ha le doti del condottiero, deve far ricorso a tutta la propria abilità e a tutto il proprio carisma per mantenere la calma fra la sua gente. Alla fine, gli ebrei si dividono in due gruppi: uno contrario alla lotta, rappresentato da Mosè; l’altro favorevole, rappresentato da Giosuè. Col passare del tempo il partito di Giosuè va ricevendo nuove adesioni, mentre va calando la popolarità di Mosè, il quale finisce per essere visto come un ostacolo alla voglia di combattere della sua gente. La Bibbia racconta che il venerando patriarca deve «accontentarsi» di vedere solo da lontano quella dolce terra, dal monte Nebo, dove muore (Dt 34, 4). Secondo Freud, invece, Mosè viene ucciso dal suo stesso popolo, che lo vede come un impedimento alla propria felicità.
Morto Mosè, Canaan, ovvero la «Terra promessa» diventa un traguardo concreto per gli ebrei d’Egitto, che si incamminano in quella direzione. Lo stesso sogno, ma su basi «umane», è condiviso dagli habiru del Negev, i quali stanno combattendo da tempo per conquistare un buon territorio in cui poter vivere agiatamente e hanno già avuto modo di mettersi in luce come popolo, il cui nome «Israele» è menzionato per la prima volta in una stele risalente al regno del faraone Merenptah (1224-1211). Nemmeno loro vogliono lasciarsi sfuggire l’occasione propizia, che è rappresentata dall’invasione dei Popoli dei mare, e sono sul piede di guerra. Alla fine, gli uni e gli altri si raccolgono nell’oasi di Cades, proprio alle porte di Canaan. Li unisce la religione di Mosè, che ha tutte le caratteristiche per riempire di ardore i cuori di quegli uomini. È così che Israele irrompe nella storia. È un popolo che marcia verso la conquista della Terra che il suo dio, il più potente fra tutti gli dèi, gli ha promesso.

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