martedì 13 luglio 2010

III.1.5. Gli habiru del Negev

Intorno alla metà del secondo millennio, la regione semidesertica del Negev diviene il ricettacolo di un’accozzaglia di gente di diversa provenienza, che sono accomunati dal fatto di essere dei fuggiaschi, dei reietti, degli emarginati dalle città, il che sarebbe provato da alcuni documenti scritti del XV-XIV sec., in cui il termine habiru è usato per indicare non il nome di un popolo, ma una categoria sociale. In generale, “si tratta di bande di fuorilegge costituite da relitti della società – personaggi senza radici e senza uno spazio nell’ordine stabilito, il cui numero fu aumentato da schiavi fuggiti, mercenari sottopagati e insoddisfatti di ogni genere – pronti a portare il loro sostegno a qualsiasi signore o capo che offrisse loro una speranza di guadagno” (Bright 2006: 127). Siamo cioè di fronte a persone che, per vari motivi, hanno interesse a fuggire dalla città: criminali, ricercati dalla giustizia, ribelli, perseguitati politici, uomini disperati, ma soprattutto debitori insolventi che, insieme alle loro famiglie, fuggono dalla città per evitare di essere fatti schiavi. Sono noti come «fuorusciti».

“Il fuoruscitismo è un fenomeno endemico nelle antiche civiltà orientali, e può essere considerato a buon diritto il naturale contrappeso delle loro strutture politiche e giuridiche […]. Il rigido assetto delle monarchie orientali creava a tutti i livelli delle vittime: era frequente che l’individuo, travolto dal sistema, eludesse certi esiti estremi eclissandosi. Il congiurato che falliva, chi rifiutava un verdetto o si riteneva vittima di un sopruso, oppure il ladro o l’omicida che non erano in grado di pagare il risarcimento imposto, se potevano fuggivano; fuggivano gli schiavi, e quelli che erano in procinto di diventarlo per debiti: l’usura, grave soprattutto sui ceti rurali, era probabilmente la principale matrice del fuoruscitismo. La fuga era concessa dal costume, perché il fuggiasco, fuori del raggio d’azione del potere cui si sottraeva, non era considerato un criminale.
Uno degli sbocchi possibili del fuoruscitismo era il passaggio a forme di vita semi-nomadica o al brigantaggio. Molto più spesso, però, si riaffermava su individui e gruppi l’attrazione del mondo che avevano lasciato, e l’aspirazione a rientrarvi. I gruppi fuorusciti che ci riuscivano, si mettevano semplicemente alle dipendenze di un altro re in un altro regno, ove erano impiegati in lavori occasionali, o come truppe mercenarie, o insediati come coloni” (Pintore 1976: 423-4).


Preferibilmente il fuoruscito si rifugia in un altro Stato, dove si rifà una nuova vita, ma, con la diffusione di trattati internazionali, in cui gli Stati si impegnano alla reciproca consegna dei fuggiaschi, i fuorusciti preferiscono riparare in luoghi remoti, montagnosi o inospitali, dove è difficile scovarli. La desolazione di quei luoghi è tale da indurre quegli uomini sradicati, indipendentemente dal motivo che li ha spinti a fuggire, a solidarizzare, ad unirsi, ad organizzarsi. In effetti, essi si vedono simili e imparano a convivere come se fossero un’unica tribù. Di solito vivono di pastorizia e/o di razzie (le loro incursioni sono temute soprattutto dai ricchi proprietari), ma possono arruolarsi o offrirsi per qualche lavoro di manovalanza dove c’è richiesta. Sono conosciuti come gente di infimo rango, la feccia dell’umanità, ma anche come pericolosi predoni e banditi. Si tratta, dunque, come nota John Bright, “di bande di fuorilegge costituite da relitti della società” (2006: 127). “Questi vagabondi, i progenitori di Israele, non appartengono alla storia di Israele, ma alla sua preistoria” (Bright 2006: 63).
Gli habiru praticano la vita dei nomadi. È assente in essi l’idea di accumulare ricchezze; non esistono classi sociali, né ricchi, né poveri; non c’è né aristocrazia, né leader sovrani; l’esercizio del potere è affidato ai più anziani, i quali formano una sorta di consiglio; ciascuna tribù ha le proprie tradizioni e venera i propri dèi; ha i propri eroi e i propri miti. Non ci sono re, né corti, né si sente l’esigenza di fissare per iscritto su un diario gli eventi di un’esistenza che si svolge in maniera piatta e anonima. Lontani dai centri importanti, le tribù sono relativamente al riparo dalle guerre e dalle invasioni. I nomadi, solitamente, non hanno nulla da perdere e nulla da difendere, a parte le loro vite, e il massimo rischio che corrono è quello di essere fatti schiavi, ma questo non viene visto come il più grave dei pericoli e, comunque, non costituisce un’occorrenza frequente. Quello che i beduini temono più di ogni altra cosa sono le malattie e la fame. Ma mentre per le malattie essi non possono far altro che invocare qualche spirito, la fame costituisce un potente stimolo all’azione.
Nel corso del II millennio, la tendenza generale è quella di abbandonare il nomadismo per una vita sedentaria e urbana. In effetti, proprio in virtù della superiore organizzazione e dell’esistenza di riserve alimentari, è improbabile che gli abitanti delle città patiscano la fame, ma è anche vero che la vita dei cittadini è irreggimentata e coartata all’interno di rigide norme, doveri e obbligazioni. Non deve sorprendere, dunque, se alcuni cittadini, scontenti della vita urbana, si allontanino verso le campagne in cerca di libertà e di indipendenza. Ma questo fenomeno è minoritario: la regola è il passaggio dal nomadismo all’urbanesimo. Come tutte le regole, però, anche questa ha le sue eccezioni. Non tutti, infatti, provano attrazione per la monarchia, ma ve ne sono di quelli che si sentono tenacemente attratti dai vantaggi che la vita nomade offre e che si oppongono con fiera determinazione alla rigida organizzazione della città. Tra costoro si devono annoverare gli habiru, almeno quelli che andranno a costituire il popolo ebraico. Essi non solo appaiono in grave ritardo rispetto alle altre tribù ma, per certi aspetti, nella misura in cui apprezzano la loro vita libera e disprezzano il modello cittadino, sembrano procedere in controtendenza.

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