lunedì 12 luglio 2010

H) Una conseguenza del monoteismo: la radicale sfiducia nell’uomo

Un’alleanza stipulata fra due parti infinitamente disuguali, come lo sono Dio e Israele, disegna un quadro singolare: da un lato abbiamo Dio, il promittente, che essendo perfetto per definizione, non può venir meno alla parola data, e nemmeno può sbagliare in alcun modo; dall’altro lato abbiamo gli ebrei, i destinatari della promessa, i quali sì che possono sbagliare e mostrarsi non meritevoli del dono divino. In ogni caso, dunque, e qualunque cosa succeda, la colpa non potrà giammai essere attribuita a Dio: la colpa è da attribuire interamente all’uomo. È questa l’interpretazione dell’Alleanza che i profeti ripetono fino alla nausea e che, alla fine, avrà successo.
Solo l’uomo, infatti, può ribellarsi al piano divino (Nm 10,11 - 36,13) e ostacolare così l’attuazione della sua promessa (Es 32,1 - 34,35). Il castigo degli umani è pienamente meritato, sempre: “Il Signore è giusto; ed è giusto tutto quello che ci ha comandato di fare, ma noi non abbiamo ubbidito alle sue parole, quando ci invitava a seguire i comandamenti che ci ha dati” (Bar 2,9). L’uomo non può imputare a nessun altro la responsabilità del male che a se stesso. “Signore Dio, tu sei grande e tremendo, tu mantieni la tua alleanza con quelli che ubbidiscono ai tuoi comandamenti e sei fedele con quelli che ti amano. Noi non ti abbiamo ubbidito, abbiamo peccato e siamo colpevoli; ci siamo ribellati contro di te, ci siamo allontanati dai tuoi comandamenti e dalle tue leggi. Non abbiamo dato ascolto ai tuoi servi, i profeti, che hanno parlato da parte tua ai nostri re, ai nostri capi, ai nostri padri e al popolo tutto. Tu solo, Signore, sei giusto!” (Dn 9,4-7).
Insomma, sono i peccati degli ebrei che frenano Dio. “Siamo stati ribelli incalliti e tu, Signore, non ci hai perdonato. Chiuso nella tua ira, ci hai perseguitati e massacrati senza pietà. Ti sei nascosto dietro una nuvola per non essere raggiunto dalle nostre preghiere. Ci hai ridotto come spazzatura, come rifiuti in mezzo agli altri popoli” (Lam 3,42-45). “La gioia si è spenta nei nostri cuori, la nostra danza è diventata un lutto. La corona è caduta dalla nostra testa. Queste sono conseguenze del nostro peccato!” (Lam 5,15-16). In definitiva, Gerusalemme soffre “per i suoi molti peccati che ha commesso” (Lam 1,5). Per quanto inspiegabili, i castighi di Dio sono considerati dai profeti giusti per definizione e, al massimo, essi ne auspicano un alleggerimento: “Signore non essere troppo adirato, non ricordarti sempre delle nostre colpe. Guardaci: siamo il tuo popolo!” (Is 64,8).
A forza di addossare ogni colpa all’uomo, gli ebrei finiscono con lo sviluppare una radicale sfiducia nell’uomo. “Io condanno chi si allontana da me, perché ha fiducia nell’uomo e conta soltanto su mezzi umani […]. Ma io benedico chi ha fiducia in me e cerca in me la sua sicurezza” (Ger 17,5-7). Insomma, per molti ebrei l’uomo non è capace di comportarsi secondo la volontà di Dio e di discernere il bene dal male. “Nessuno sa scegliere la giusta via, nessuno sa decidere bene per la propria vita” (Ger 10,23). Solo Dio ha questo potere e, in virtù della sua onnipotenza, egli potrebbe trasmetterlo all’uomo, allo stesso modo di quanto fa il burattinaio coi i suoi burattini. “Li renderò capaci di pensare e di agire tutti d’accordo per essere sempre fedeli a me. Così saranno felici, essi e i loro discendenti” (Ger 32,39). “Metterò dentro di voi il mio spirito e vi renderò capaci di ubbidire ai miei ordini, di osservare e di applicare le leggi che vi ho dato” (Ez 36,27). In ogni caso, il protagonista rimane Dio.
Il monoteismo sostiene la fede degli ebrei nella Promessa, che poi in fondo altro non è che la loro volontà di potenza e, per di più, senza richiedere loro alcun impegno. Infatti, essi devono semplicemente osservare la Legge e aspettare che il Dio-Padre mantenga la sua promessa. Così facendo, gli ebrei finiscono per declassare i valori della libertà, del merito e della responsabilità personali e favorire l’affermazione di una morale di tipo eteronomo. Il loro ideale di individuo non è colui che si fa da sé, bensì di colui che si appoggia totalmente alla legge di Dio, senza prendere alcuna iniziativa personale.
A causa della loro radicale sfiducia nell’uomo, e quindi in se stessi, gli ebrei non possono appoggiarsi che a Dio. Non hanno altra scelta. E anche quando Dio non risponde alle loro aspettative, perfino nei momenti più cupi, quando sono sull’orlo della disperazione, essi altro non possono fare che ribadire e rafforzare la propria fede incondizionata in quello stesso Dio, di fronte al quale essi si pongono come si pone il bambino nei confronti dell’adulto. Consapevole di essere impotente a risolvere i suoi problemi, il bambino si serve dell’adulto come se fosse uno strumento imprescindibile. Se l’adulto lo ignora egli lo supplica, se lo maltratta lo abbraccia, se lo picchia si stringe forte a lui. Un adulto potrebbe uccidere di botte un bambino, e questi si attaccherebbe a lui fino all’ultimo respiro! D’altra parte quale alternativa avrebbe un piccolo che sia rifiutato dagli adulti da cui dipende? Ebbene, di fronte al Dio-Padre-Perfetto, gli ebrei sviluppano degli atteggiamenti che oggi sono ritenuti tipici dell’età infantile, come il bisogno di essere rassicurati, di sentirsi protetti, di sapere che c’è una provvidenza, e quando si sentono impotenti a controllare gli eventi o quando stanno patendo le sofferenze più atroci, essi vanno incontro al loro Dio e lo abbracciano impauriti, come un bambino abbraccia suo padre che lo picchia. Sotto questo aspetto, l’ebraismo può essere considerato come il paradigma della tendenza che c’è nell’uomo di affidarsi ad altri, di delegare altri a trovare risposte ai propri interrogativi e la soluzione ai propri problemi. In ultima analisi, se da un lato il monoteismo conferisce una garanzia assoluta all’Alleanza, dall’altro lato esso implica l’annichilimento del contraente umano e la sua regressione allo stadio infantile.

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