lunedì 12 luglio 2010

III.3.4. Tentativi di spiegare l’apparente ingiustizia nel mondo

Poiché la realtà dei fatti non concorda con ciò che gli ebrei si aspettano, è giocoforza che essi tentino di aggiustare le proprie convinzioni in modo da renderle congruenti alla loro fede religiosa. Le soluzioni prese in considerazione sono molteplici:
1. Il comportamento di Jahve è giusto per definizione e, se talvolta agli ebrei esso può sembrare ingiusto, ciò vuol dire che essi usano parametri di giudizio diversi (e ovviamente inferiori) rispetto a quelli di Jahve. Perciò i profeti diffidano gli ebrei a non forzare la pazienza di Dio: “Lo stancate quando dite: «Il Signore vede di buon occhio chi fa il male, egli approva questa gente». La promessa di Jahve è a tutti nota e chiara: “L’uomo infedele a Dio morirà, ma il giusto vivrà per la sua fedeltà” (Ab 2,4) e questa promessa prima o poi si realizzerà: “Io, il Signore, lo affermo con franchezza: quello che io annunzio è chiaro ed è sicuro” (Is 45,19). “Il Signore ridà la prosperità ai discendenti di Giacobbe, rinnova la grandezza d’Israele” (Na 2,3). “Il Signore è giusto, salverà Gerusalemme e chiunque vorrà convertirsi. Ma i ribelli e i peccatori andranno in rovina, quelli che abbandonano il Signore periranno” (Is 1,27-28). “Beati gli uomini giusti: staranno bene e gusteranno i frutti delle loro azioni. Guai agli uomini empi! Saranno colpiti dal male come ricompensa dei loro delitti” (Is 3,10-11).
2. Dio punisce gli ebrei in modo preventivo per evitare un male peggiore. Il fatto che Jahve dimostri una maggiore sollecitudine nel punire le colpe di Israele rispetto a quanto faccia con gli altri popoli dev’essere inteso come un segno di grande benevolenza. “Il Signore con noi non fa come con le altre nazioni, per punire le quali aspetta con pazienza fino a quando sia colma la misura delle loro iniquità. Egli punisce noi prima che i nostri peccati abbiano raggiunto il colmo, così non ha motivo di ritirare da noi la sua misericordia; e se pur corregge il suo popolo con le avversità, tuttavia non lo abbandona mai” (2 Mac 6,14-16).
3. Dio ha previsto una retribuzione differita. “Il Signore ha fissato un giorno per rendere giustizia a Gerusalemme e vendicarsi dei suoi nemici” (Is 34,8).
4. La giustizia divina verrà attuata in un futuro indeterminato. “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, e nessun tormento li tocca […]. E se davanti agli uomini subirono tormenti, la loro speranza è piena d’immortalità; dopo aver per poco sofferto, saranno largamente premiati, perché Iddio, che li ha messi alla prova, li ha trovati degni di sé […]. Giudicheranno le nazioni e domineranno sui popoli, mentre su loro regnerà per sempre il Signore” (Sap 3,1-8).
5. Dio colpisce il giusto per toglierlo di mezzo ai peccatori ed evitare che diventi come loro, “poiché il fascino del vizio oscura il bene, e l’agitazione della passione travolge l’animo semplice” (Sap 4,10-12).
6. È vero che Dio è severo nel punire, ma è anche vero che egli è misericordioso in maggiore misura (Dt 5,9-10).
7. La colpa di uno può essere pagata da altri o, il che è lo stesso, l’innocente può addossarsi i peccati degli empi. È il principio della colpa collettiva o responsabilità solidale, di cui la Bibbia ci offre numerosi esempi. Il peccato del Sommo Sacerdote può coinvolgere il popolo intero (Lv 4,3). In Babilonia, gli ebrei scontano le colpe dei loro padri. “E ora, eccoci qui in esilio, dove ci hai dispersi; siamo insultati e maledetti, e scontiamo i peccati dei nostri antenati che si sono ribellati contro di te” (Bar 3,8). Ezechiele è chiamato a sopportare il peso del peccato del popolo d’Israele (Ez 4,4ss). Geroboamo, nonostante la perseveranza nella trasgressione della Legge (1 Re 13,33) e l’idolatria (1 Re 14,9) non viene punito personalmente, ma attraverso la distruzione della sua discendenza (1 Re 13,34; 1 Re 14,10) e l’abbandono degli Israeliti da parte di Dio (1 Re 14,16). L’innocente Giosia è costretto a scontare la pena per i peccati del suo predecessore Manasse. “Non vi fu prima di Giosia un re simile a lui, che abbia servito il Signore con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima, con tutte le sue forze, secondo tutta la legge di Mosè; e neppure dopo non ne sorse più uno uguale a lui. Ma il Signore non depose più l’ardente sua ira, di cui era acceso contro Giuda, a causa degli oltraggi coi quali Manasse lo aveva provocato” (2Re 23,25-26). Si ritiene anche che la colpa di molti possa essere espiata dai meriti di uno. Dio, per esempio, si astiene dallo sterminare il popolo di Joram, che ha fatto “ciò che è male agli occhi di Dio” (1 Re 8,18), per amore di Davide al quale aveva promesso una dinastia imperitura (1 Re 8,19). Nel corso delle lunghe riflessioni sulla giustizia divina emergono alcuni, interessanti elementi di novità rispetto al passato, come la figura del Servo di Javhe, elaborata dal Deutero-Isaia (Is 52,13; 53,11-12), che finirà per essere accostata al messia, anche se, più realisticamente, sembra riferirsi al giusto sofferente, ossia all’esule ebreo, che soffre ingiustamente per colpe commesse da altri.
8. Dio punisce solo i responsabili. L’insostenibilità di una giustizia che addossa le responsabilità di uno su un altro, in assenza di regole precise, non sfugge agli autori del Secondo Libro dei Re e del Deuteronomio, che ammoniscono: “Non si facciano morire i padri per colpa dei figli, né si mettano a morte i figli per causa dei padri; ciascuno sia fatto morire per il proprio peccato” (Deut. 24,16; 2Re 14,6). Lo stesso fa l’autore del Secondo Libro delle Cronache: “Dal cielo, dal luogo dove abiti, perdona, tratta ognuno secondo il suo comportamento, tu che conosci anche le sue intenzioni” (2Cr 6,30). Geremia si pone sulla stessa linea: “soltanto chi mangerà l’uva acerba avrà la bocca amara e soltanto chi ha peccato morirà” (Ger 31,30). Ma è Ezechiele che spezza definitivamente “la catena della colpevolezza collettiva” (Koch 1973: 105), affermando in modo risoluto che “Deve morire soltanto chi ha peccato. Il figlio non pagherà per le colpe del padre, né il padre per le colpe del figlio. L’uomo giusto sarà ricompensato per aver agito con giustizia, mentre l’uomo malvagio sarà punito per il male commesso” (Ez 18,20).
9. La fortuna dell’empio è sempre effimera: “Non sai tu che fin dal tempo antico, da quando l’uomo fu posto sulla terra, il trionfo degli empi è breve, e la gioia del malvagio è di un istante?” (Gb 20,4-5). Prima o poi Dio farà giustizia: “In piena abbondanza la sciagura lo colpirà, ogni specie di disgrazie lo raggiungerà” (Gb 20,22).
10. Dio restringe il tempo della retribuzione al momento della morte e non prima. Secondo tale ipotesi si deve evitare di pretendere una retribuzione per il singolo atto e per tutta la durata dell’esistenza, a favore di una retribuzione globale e alla fine della vita. “Non dire: «Ho peccato, eppure non mi è successo niente» […] perché l’ira del Signore s’abbatterà d’improvviso, e può distruggerti al momento del giudizio” (Sir 5,4-7). E se anche la punizione dovesse tardare, tuttavia è certo che essa non mancherà: foss’anche in un’ora o in punto di morte Dio castiga opportunamente il malvagio. “Per il Signore è facile, al momento della morte, dare a ognuno quello che si merita. La disgrazia di un’ora fa dimenticare ogni bel ricordo; ma è la morte che fa vedere quello che un uomo ha costruito. Non dichiarare felice un uomo prima che sia morto, perché è soltanto alla morte che si conoscono le persone” (Sir 11,26-28). Lo stesso dicasi per i giusti che, seppure dovessero soffrire tutta la vita, essi riceveranno puntualmente il dovuto premio, anche se circoscritto in un brevissimo tempo: “il Signore ricompensa quelli che lo amano, e in un istante egli fa sbocciare i suoi doni” (Sir 11,22).
11. Dio ha previsto una retribuzione spirituale dopo la morte. “Molti di quelli che dormono nelle loro tombe si risveglieranno, gli uni per la vita eterna, gli altri per la vergogna, per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno di luce come la volta del cielo, e quelli che avranno aiutato gli altri a essere fedeli brilleranno per sempre come stelle” (Dn 12,2-3). Questa ipotesi ha l’indubbio pregio di risolvere il grave problema della sofferenza dei giusti, la quale viene ad assumere un significato nuovo e positivo: anche se dovesse morire di morte immatura, il giusto sarà beato (Sap 4,7). Appare chiaro come, spostando la giustizia divina da questa vita e da questa terra e collocandola in un’altra vita e in un’altra sfera, si giunge a giustificare la sofferenza e il dolore e perfino ad attribuire loro una valenza positiva. Siamo agli antipodi della concezione originaria della retribuzione immediata e del trionfo terreno. Si comprende bene, pertanto, la difficoltà da parte degli ebrei di assimilare e far propria una via così estranea alla loro cultura.
12. La logica della giustizia divina non può essere compresa dall’uomo, il quale altro non può fare che rassegnarsi. Nonostante tutte le apparenze, la giustizia divina ci sarà e non potrà che esserci, ma noi non siamo in grado di comprenderla. Se non possiamo far altro che soffrire, accettiamo con gioia e serenità il nostro destino, consapevoli che, in un modo o nell’altro, Dio saprà ricompensarci, trasformando la nostra sofferenza in un fatto positivo. “È bene aspettare in silenzio la salvezza che il Signore manderà. È bene che l’uomo si abitui alle contrarietà fin dalla giovinezza” (Lam 3,26-27). Insomma, se la sofferenza è inevitabile tanto vale accettarla di buon grado, anzi come se fosse un bene. Questa strada è percorsa da pochi spiriti particolarmente dotati e sensibili, come Geremia e Qoelet, di cui parleremo oltre. In entrambi i casi si tratta di un processo interiore straziante perché presuppone una posizione iniziale di dubbio sulla bontà della giustizia divina, che verrà superata mediante la riflessione e grazie ad una fede incondizionata.

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