lunedì 12 luglio 2010

III.7.6. Israele (1991-2009)

Nel giugno 1992 è eletto premier il laburista Ytzhak Rabin con l’obiettivo di portare avanti un programma di pace.
Nel 1993 Arafat e Rabin sottoscrivono la Dichiarazione dei principî di Oslo, che prevede il riconoscimento reciproco tra Israele e Olp, il ritiro israeliano dai territori occupati e l’autonomia di governo dei palestinesi nei loro territori, che sono la Cisgiordania, la striscia di Gaza e Gerico. Sulla scia di questo nuovo corso nasce la cosiddetta Autorità nazionale palestinese (ANP), di cui diviene presidente lo stesso Arafat, ma, nella pratica, lo stato delle cose non cambia. I più preoccupati sono i 150 mila ebrei che vivono negli insediamenti palestinesi, i quali temono di dover abbandonare prima o poi le proprie case. Di fatto, l’occupazione israeliana continua, i patti di Oslo non vengono rispettati da entrambe le parti e lo stesso Rabin viene assassinato (1995). I rapporti fra ebrei e palestinesi rimangono tesi e, nel 2000, in risposta al fallimento dei colloqui Arafat-Barak, si assiste ad una brusca interruzione del processo di pace e allo scoppio di una seconda intifada.
Nel 1996, con l’elezione a premier di Benjamin Netanyahu, leader del Likud, il baricentro della politica israeliana si sposta a desta, ma ciò non arresta i tentativi di giungere ad una pace. Così, nel 1998, Netanyahu s’impegna a restituire ai palestinesi una parte dei territori occupati dagli insediamenti ebraici, il che non solo non accontenta Hamas, ma solleva anche dure critiche interne, che portano ad elezioni anticipate e all’elezione del laburista Ehud Barak.
Nel 2001, dopo l’ennesimo fallimento di una trattativa di pace promossa dal presidente americano Clinton, viene eletto a capo del governo il candidato del Likud, Ariel Sharon, che adotta una linea particolarmente dura. Egli risponde sistematicamente con bombardamenti agli attacchi kamikaze dei palestinesi, occupa militarmente territori palestinesi e rende impossibile, o limita al massimo, l’entrata dei palestinesi in territorio israeliano, mentre nel Sud del Libano gli Hezbollah si fanno minacciosi nei confronti delle truppe israeliane che operano nella «zona di sicurezza».
Nel 2002 riprendono i negoziati di pace, che culminano in un piano denominato Road Map, che prevede “una serie di tappe per giungere alla creazione, entro il 2005, di uno Stato palestinese indipendente nei territori occupati (senza però definirne i confini), in cambio dell’impegno palestinese di porre fine agli attacchi terroristici contro Israele” (Pappe 2005: 321).
La pace però non arriva e, così, gli ebrei decidono di erigere un muro che li separi dai territori palestinesi e renda impossibile la penetrazione dei kamikaze. Si tratta di un muro di cemento (con l’aggiunta di filo spinato e congegni elettronici) alto da 4 a 8 metri e lungo 725 km, che divide Israele dalla Cisgiordania, inglobando o isolando nel suo tortuoso percorso “significative porzioni di terra araba, calcolate tra il 7 e l’11% del totale, colpendo così gli interessi economici e la libertà di circolazione di circa mezzo milione di palestinesi” (Vercelli 2010: 205).
A Gaza invece si decide di smantellare i 21 insediamenti ebraici e di spostare i 7500 ebrei che vi risiedono.
Agli inizi del 2004 inizia il processo al «muro» da parte della Corte Internazionale dell’Aja, che però gli ebrei non riconoscono. Intanto muore Arafat e al suo posto s’insedia il moderato Abu Mazen (gennaio 2005), il che lascia presagire un avvicinamento della pace. Un primo significativo passo avanti in tale direzione può essere considerato il ritiro dei coloni ebrei da Gaza (agosto 2005), che segna la fine dell’occupazione israeliana in quel territorio. Ma ancora il cammino per la pace è lungo.
Alle elezioni del 25.1.2006, l’affermazione di Hamas, che conquista la maggioranza assoluta (76 seggi su 132, contro i 43 di Fatah, l’altro grande partito palestinese, che esprime idee moderate, riconosce Israele e vuole la pace), alimenta un senso di inquietudine non solo in Israele ma anche nel mondo, che adesso vede soffiare venti di guerra. Intanto, colpito da un ictus cerebrale, esce di scena il primo ministro Sharon e al suo posto si insedia Ehud Olmert (maggio 2006).
Nel luglio 2006 prende inizio la guerra israelo-libanese, una guerra che Israele muove contro Hezbollah («Partito di Dio»), un’organizzazione politica fondata nel 1982 in Libano con l’appoggio dell’Iran, colpevole di avere fatto prigionieri due soldati ebrei e di rappresentare una minaccia per lo Stato ebraico. Gli obiettivi d’Israele sono: liberare i soldati e disarmare Hezbollah, sradicarlo dal sud del Libano, dove è insediato, così da rendere sicuro il confine israelo-libanese. Alla data della cessazione dei bombardamenti (14.8.06) questi obiettivi non sono raggiunti: Hezbollah è ancora in piedi e i due soldati prigionieri non sono stati liberati. In cambio sono morti circa 1150 civili, quasi tutti libanesi, e 650 militari, 530 dei quali hezbollah, più oltre 4000 feriti e un milione di sfollati, in maggioranza libanesi, senza contare i danni materiali alle cose (edifici, infrastrutture, servizi), che sono ingenti.
La risoluzione n. 1701 dell’Onu arriva tardi e non scioglie i nodi della questione: la risposta eccessiva di Israele in rapporto alla provocazione subita non viene condannata, bensì giustificata secondo il principio di «autodifesa», e si afferma il diritto d’Israele a riprendere le ostilità in caso di nuove provocazioni. Il messaggio è chiaro: Israele deve poter vivere in pace all’interno del proprio territorio e non deve essere fatto oggetto di minacce esterne. Insomma, gli arabi «devono» riconoscere lo stato d’Israele senza protestare. Ma è proprio questo il motivo della contesa: Hezbollah e molti altri arabi sono sul piede di guerra da quasi un secolo perché non accettano di essere stati sfrattati dal loro territorio e di essere stati depredati della loro patria dalla politica sionista. Ebbene, a queste rivendicazioni mancano risposte chiare ed eque da parte dell’Onu, ed è qui che io vedo il nodo irrisolto della questione palestinese.
Nel giugno 2007 le perduranti divergenze sulla politica estera da parte di Hamas e di Fatah portano sull’orlo della guerra civile nella Striscia di Gaza. Il più forte sul campo risulta essere ancora una volta Hamas, ma gli Usa rispondono con una politica tesa a potenziare Fatah e indebolire Hamas, una politica, dunque, contraria alla volontà degli elettori che, liberamente, hanno preferito Hamas. In questo caso, i principî della democrazia e del rispetto della sovranità popolare sembrano disattesi proprio dal quel paese, che si propone al mondo come il simbolo della democrazia stessa. Il fatto di dover rinunciare alla propria coerenza ideologica potrebbe essere interpretato come un segno di debolezza e non depone certamente a favore di un’effettiva democraticità degli Usa.
Nel febbraio 2009 viene eletto un governo di destra e Netanyahu confermato premier.
Nel maggio 2010 una nave turca della «Freedom Flotilla» con a bordo 700 pacifisti pro-palestinesi e 10 mila tonnellate di aiuti umanitari viene attaccata da un commando israeliano, con un bilancio di 9 morti e numerosi feriti. Israele si oppone a simili iniziative, nelle quali vede “una provocazione”. Per i filo-palestinesi, invece, l’attacco israeliano è equiparabile a terrorismo di Stato.
La situazione appare statica e senza soluzioni, con le due parti che si guardano in cagnesco e continuano a perseguire politiche contrapposte. “Alla radice rimane il mancato riconoscimento reciproco, la tragica finzione per cui, affinché l’uno possa esistere, l’altro debba scomparire una volta per sempre” (Vercelli 2010: 210).

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