lunedì 12 luglio 2010

G) Una conseguenza della Promessa: il Monoteismo

Leggendo la Bibbia si ha l’impressione che il monoteismo nasca di colpo, per iniziativa di Jahve, che si rivela, e di Mosè, che presta fede a quella rivelazione e ne fa partecipe il proprio clan. In realtà, come già si può capire ad una lettura più attenta della stessa Bibbia e come nota André Lemaire, “la nascita del monoteismo è stato un processo complesso e di lunga durata” (2005: 149), in cui si possono riconoscere almeno due fasi: una che inizia con Mosè, l’altra con l’esilio.
Secondo il racconto biblico, dopo essere fuggito dall’Egitto, Mosè sposa una figlia di un sacerdote madianita, di nome Jetro, che gli fa conoscere Jahve. Mosé ne rimane colpito a tal punto da imporlo ai suoi uomini come un dio nazionale molto potente, ma anche molto irascibile, che dà tanto, ma anche esige un’obbedienza assoluta e un culto esclusivo. Inizia così la prima fase del monoteismo, che consiste essenzialmente nella monolatria di Jahve e nell’esclusione dal culto di tutti gli altri dèi stranieri. A giustificazione della monolatria si va sostenendo che “Jahve è più grande di tutti gli dèi” (Es 18,11). Questa posizione prende il nome di enoteismo.
Non è dato di sapere se Mosé abbia concepito il monoteismo puro, come lo intendiamo noi oggi, ma quello che appare certo dalle pagine della Bibbia (per es. Sal 89,7-8), è che, tranne qualche breve periodo, dopo Mosè e fino alla caduta della monarchia, gli ebrei non hanno professato un monoteismo rigoroso, ma hanno creduto nell’esistenza di altre divinità, solo che hanno immaginato il proprio dio come il più potente di tutti (enoteismo) e, dunque, come l’unico che valga la pena di adorare (monolatria). Questa posizione ben si addice alla temperie culturale dell’intera area siro-palestinese ai tempi della monarchia di Giuda, quando ogni regno è sotto la protezione di un dio supremo nazionale. In questo stesso periodo, infatti, si afferma una tendenza enoteistica da parte delle potenze egemoni del momento. Anche gli assiri e i neobabilonesi, ad esempio, considerano il loro dio nazionale più potente di tutti gli altri dèi. A nessuno però viene in mente di affermare l’unicità del proprio dio. Evidentemente, il monoteismo puro è ancora ritenuto inconcepibile, almeno a livello popolare.
In buona sostanza, Jahve è concepito dagli ebrei “con i tratti dell’ideologia religiosa regale del tempo in modo molto simile agli altri dèi supremi attestati nei regni semitici circonvicini (Moab, Ammon, Fenici, Aramei)” (Merlo 2009: 37-8). Per gli ebrei Jahve è il più potente degli dèi, allo stesso modo in cui per i babilonesi lo è Marduk. Lo jahvismo si inscrive, dunque, in una logica enoteistica. Il meccanismo psicologico dell’enoteismo ce lo spiega Freud: “il credente partecipa della grandezza del suo dio: quanto più grande è il dio tanto più sicura è la protezione che può offrire” (2010: 129). È proprio questa linea che finì per affermarsi in Giudea dopo il ritorno degli esuli.
Il monoteismo puro viene proclamato dai profeti ebraici non prima del VI secolo o, più verosimilmente, “durante il periodo persiano” (Merlo 2009: 117), quando la fede nell’Alleanza esisteva già da un pezzo. Ora, se la Promessa viene prima del Monoteismo, ne consegue che il monoteismo dev’essere spiegato alla luce della promessa, e non il contrario. In effetti, il monoteismo ben si attaglia ad una comunità che, dal fondo della scala sociale, sogna il trionfo, e tale è la comunità ebraica degli esuli in Babilonia. Sono essi, dunque, che decretano la fine dell’enoteismo e proclamano il monoteismo. Questo passaggio avviene in modo graduale e si accompagna all’abbandono del nome «Jahve» a favore di nuovi appellativi più generici e personali, come “Dio onnipotente” (Gen 17,1), “Altissimo” (Dan 4,14), “Signore” (Gen 4,26), “Dio dei cieli” (Esd 6,9-10), che si accompagnano ad un forte accento nazionalistico, almeno finché ci sarà il tempio, che rappresenta il simbolo della nazione ebraica. Ebbene, l’accesso al tempio è vietato ai non ebrei, e questo collide con l’idea universalistica del Dio-unico. Del problema è consapevole Terzo-Isaia, il quale giunge ad affermare che il tempio è una “Casa di preghiera per tutti i popoli” (Is 56,7), ma questa implicazione logica del monoteismo avrà scarso seguito presso gli ebrei, i quali continueranno a credere in un Dio-Unico-Nazionale, il solo in grado di giustificare la volontà di potenza di un popolo decaduto, ma predestinato.
Il monoteismo ebraico, così come viene illustrato nella Bibbia, si può comprendere solo alla luce della necessità di preservare lo spirito di unità nazionale, che rischia di scomparire dopo la caduta della monarchia e la distruzione del tempio, e di tenere viva la propria volontà di potenza. Il pas¬saggio dall’enoteismo al monoteismo va, dunque, visto anche in chiave nazionalistica. “Israele non può avere che un unico dio, come le altre nazioni non possono che avere un unico re. Il dio unico è, dunque, il fondamento dell’unità e della continuità nazionali” (Caquot 1988: 32). Il monoteismo, in sostanza, non si impone come fatto prettamente religioso, bensì anche come fatto sociale e politico a testimoniare l’unità e l’unicità, ma anche la superiorità, degli ebrei nei confronti delle altre nazioni. “Se l’orgoglio nazionale è al centro della religione di Israele, è facile capire perché questa religione è una religione prevalentemente «storica». Israele non ha avuto quasi altro mito se non le tradizioni sulle sue origini come nazione” (Caquot 1988: 10).
La differenza tra enoteismo e monoteismo sta nella firma del contratto, che, nel primo caso è «Il più potente degli dèi», nel secondo caso «Il Dio-Unico» o più semplicemente «Dio». Ora, è del tutto evidente che, rispetto al più potente degli dèi, il Dio-Unico ha la pienezza del potere e non deve rendere conto ad alcuno. La sua firma rappresenta, pertanto, una garanzia assoluta ed è l’unica che può essere accettata da un popolo che, dopo la sconfitta e la deportazione babilonese, si trova in posizione sfavorevole e occupa un posto di basso livello fra gli altri popoli. Quel popolo sarà disposto a credere nell’Alleanza solo a condizione che il firmatario sia in grado di fornire adeguate garanzie, e non c’è nessuno che può farlo meglio del Dio-Unico. Diremo, dunque, che il monoteismo si afferma come mezzo per tenere alta la fede nella Promessa in un momento in cui questa fede rischia di vacillare a seguito dell’andamento negativo degli eventi.
La caduta definitiva dell’enoteismo corrisponde alla caduta definitiva del tempio “segna anche la fine dello «jahvismo» in quanto religione particolare legata a Jhwh, e questa scomparsa si presenta come il compimento del movimento universalista che fa la sua apparizione durante l’esilio” (Lemaire 2005: 148). Durante l’esilio, lo jahvismo scompare e cede il posto al monoteismo, che ben si coniuga con la fede nella Promessa e il nazionalismo ebraico. Grazie al monoteismo, infatti, gli ebrei continuano a ritenersi un popolo santo e predestinato, ma questo evidentemente mal si concilia con l’idea di un Dio-Unico-Universale.
Rimane da spiegare perché nessun altro popolo fuori dagli ebrei sia giunto ad affermare il monoteismo. Le ragioni potrebbero essere due: la prima è che i popoli paragonabili agli ebrei (ossia che siano giunti tardivamente all’unità nazionale e alla costituzione della monarchia, passando da una condizione di habiru) si possono contare sulle dita di una mano; la seconda ragione è che, in casi del genere, l’evenienza più probabile è l’integrazione di quel popolo in una cultura dominante, ovvero la sua scomparsa.
In conclusione, gli ebrei abbracciano il monoteismo non in quanto tale, ma solo come strumento di garanzia della Promessa. Il loro scopo è la Promessa, non l’Unico-Dio. Se gli ebrei credessero veramente in un unico Dio, creatore e padre di tutti gli uomini, essi certamente svilupperebbero l’idea di fratellanza umana e cercherebbero l’integrazione piuttosto che la segregazione. E invece, la particolarità del monoteismo ebraico va ravvisata proprio in questo improbabile doppio ruolo attribuito all’unico Dio: quello di essere un Dio universale e al tempo stesso un Dio nazionale, un Dio universale in teoria, un Dio nazionale di fatto. La logica è stringente: se esiste un unico Dio e se questo Dio ha scelto un popolo, nulla potrà evitare che quel popolo estenda la sua signoria sulla Terra. Insomma, come ha correttamente osservato Freud, Mosè fornisce agli ebrei una religione che aumenta “la loro presunzione al punto da ritenersi superiori a tutti gli altri popoli” (2010: 125).
Il monoteismo universale è poco compatibile con l’idea di «popolo eletto», né è in grado di spiegare la fede nelle Promessa e la volontà degli ebrei di isolarsi dagli altri popoli. Se gli ebrei vogliono tenersi distinti dalle altre popolazioni, ciò è certamente dovuto al fatto che essi, e solo essi, si sentono predestinati dall’unico Dio ad assumere la signoria del pianeta. È facile perciò comprendere perché essi non scorgono la via dell’amore come mezzo per realizzare una società secondo la volontà di Dio. Il concetto dell’amore fraterno per il prossimo che tanto spazio avrà nel Nuovo Testamento, è estraneo agli ebrei, i quali non solo non amano i loro nemici, ma nemmeno si amano fra di loro, preoccupati come sono di farsi belli agli occhi di Dio sì da meritare in esclusiva i benefici della promessa. Basti ricordare la disputa fra gli ebrei di Gerusalemme e gli esuli di Babilonia, o fra i farisei e gli zeoliti, che si contendono il ruolo di unici depositari della Promessa.
Dal punto di vista strettamente logico, il pensiero degli ebrei non fa una grinza, ma solo a condizione di concepire l’unico Dio come un Dio nazionale. Come potrebbe, infatti, un Dio universale prescegliere un solo popolo ad esclusione di tutti gli altri? Perciò, quando San Paolo si propone di convertire i gentili all’ebraismo e di realizzare un’unica religione universale (Rm 11,17), forse non immagina che, così facendo, condannerebbe la religione ebraica all’estinzione, perché questa evenienza renderebbe vana la fede nel Patto e la coscienza di essere un Popolo Eletto. Gli ebrei non potrebbero mai accettare l’universalizzazione della loro religione perché, nel preciso momento in cui lo facessero, essi finirebbero di essere ebrei.
Possiamo concludere affermando che il fine ultimo degli ebrei non è il monoteismo, ma la Promessa e la sua attuazione, e che la vera sostanza della religione ebraica non è il monoteismo, ma il testo del Contratto, ovvero l’Alleanza con l’unico-dio. In altri termini, gli ebrei sono più interessati alle condizioni della loro vita presente e futura piuttosto che alla fede nell’Unico-Dio. La fede nella promessa è talmente radicata nel cuore degli ebrei, e talmente stabile nel tempo, che non mi sembra esagerato definire Israele come un popolo escatologico, ovvero un popolo predestinato ad un futuro eccezionale e superiore a quello di qualunque altro popolo. Tale è l’essenza della loro religione.
Ricapitolando, le tribù ebraiche che si unirono a formare un popolo concordavano sostanzialmente su due punti: il loro dio le aveva prescelte come suo popolo prediletto e aveva loro promesso un futuro privilegiato. Inizialmente, il loro dio era solo il più potente degli dèi e, solo nel corso del VI secolo, si giunse a concepire l’idea del Dio-Unico, ovvero del monoteismo. In sostanza, la religione ebraica non prosegue in direzione monoteismo-promessa, ma in direzione promessa-monoteismo, e converge verso un punto finale: l’affermazione trionfale degli ebrei. La costruzione ideologica è semplice: Jahve sceglie Israele come suo popolo prediletto e si impegna ad annichilire tutti i suoi nemici e predestinarlo ad un futuro di gloria. Fu grazie a questa fede che gli ebrei riuscirono ad attuare la loro volontà di potenza e a superare difficoltà immani.

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