martedì 13 luglio 2010

II.1. Aspetti generali

II.1.1. Il mondo dei nomadi
Per poter ben comprendere la specificità e l’importanza della cultura ebraica è necessario partire dagli eventi che hanno avuto per protagonisti i paesi racchiusi nella cosiddetta «Fertile Mezzaluna», in particolare l’Egitto, la Palestina, la Fenicia, la Siria e la Mesopotamia, nel periodo compreso fra 30-5,5 mila anni fa, cioè prima che inizi la storia. Nelle fasi iniziali del periodo indicato, questi paesi sono caratterizzati da una densità demografica molto bassa e sono abitati principalmente da gruppi nomadi e seminomadi, che vivono essenzialmente di caccia e raccolta, mentre l’agricoltura è ancora praticata in modo non sistematico.
I nomadi raccolgono ciò che cresce spontaneamente e che, secondo una tradizione che si tramanda lungo le generazioni, è commestibile. Il cibo spontaneo però è prodotto in quantità insufficiente per la sussistenza di gruppi che tendono a diventare sempre più numerosi e, poiché non c’è un surplus, i singoli clan (decine di persone) devono spostarsi continuamente alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, oltre che di acqua. Abitualmente i nomadi dormono all’aperto o in ripari naturali, talvolta in semplici tende facilmente trasportabili. Non conoscono la gerarchia sociale. Le principali forme di vita comunitaria sono la famiglia e il clan, la cui coesione è garantita dalla vicinanza fisica e dalla consanguineità, che è resa possibile da un sistema matrimoniale endogamico.
Quando si trattengono un po’ più a lungo nello stesso luogo, i nomadi creano un villaggio. “I villaggi sono di norma piccoli e radi. La dimensione ridotta, valutata di concerto alle strategie matrimoniali, induce a ritenere che l’insediamento coincidesse con poche famiglie estese, e al limite con una sola, e che comunque l’imparentamento all’interno del villaggio fosse pressoché generalizzato. La struttura sociale e decisionale è dunque impostata sulla presenza di uno o di pochi capi-famiglia («anziani» o «patriarchi» che dir si voglia); su differenziazioni drastiche per sesso, età, provenienza; ma su differenziazioni relativamente modeste di carattere socio-politico. Non emergono ancora, neppure dai corredi delle sepolture – per non dire della dimensione e attrezzatura delle abitazioni – differenze di rango significative” (Liverani 1988: 75). Nel villaggio non esistono gerarchie, né in campo religioso, né in campo politico. “All’interno della comunità il ruolo dei singoli nuclei è largamente paritetico, e la loro aggregazione è sostanzialmente cumulativa” (Liverani 1988: 76). E infatti, le tombe risalenti a questo periodo sono caratterizzate dalla presenza di un corredo che presenta differenziazioni legate all’età e al sesso, ma non al rango (Guidi 2000: 99).
Col passare del tempo gli uomini cominciano a credere nell’esistenza di esseri divini che governano gli eventi naturali e le vicende umane, e si pongono sotto la loro protezione. Così facendo, essi aggiungono un altro fattore di coesione sociale che, a differenza della vicinanza fisica e della consanguineità, questa volta è di natura culturale.
Ora, grazie al fattore religioso, è possibile creare gruppi più numerosi, ossia le tribù, i cui membri si riconoscono affini perché figli dello stesso dio. In pratica, la tribù è composta da un certo numero di famiglie e di clan non necessariamente imparentati fra loro e nemmeno fisicamente vicini, ma uniti dalla fede nello stesso dio. Non c’è ancora un’autorità costituita, ad eccezione dello sciamano, cui si riconosce la facoltà di farsi tramite fra il dio e i suoi uomini, ma a lui ci si rivolge solo in casi eccezionali, quando cioè vi sia un pericolo incombente. In condizioni ordinarie, invece, le singole famiglie sono sovrane e si affidano alle decisioni del più anziano, oppure, nel caso in cui occorra prendere decisioni che riguardano l’intera tribù, ricorrono al consiglio degli «anziani», che è il massimo organo politico, giuridico ed esecutivo della tribù.
In mancanza di pericoli evidenti, ciascuna famiglia e ciascun clan hanno il medesimo peso politico e nessuno ha il potere di decidere per un altro. In teoria ogni famiglia e ogni clan sono liberi di andare dove vogliono. In pratica è raro che una famiglia abbandoni il proprio clan, e lo stesso vale per il clan nei confronti della tribù, ma con delle differenze. Una famiglia non spezzerebbe mai spontaneamente i legami clanici, perché ciò equivarrebbe ad essere abbandonata anche dal proprio dio ed essere destinata ad una fine tragica pressoché certa, una vera e propria maledizione che tutti vogliono evitare nel modo più categorico. Per un clan le cose sono un po’ diverse, nel senso che, se un clan è abbastanza numeroso e ben organizzato, può sperare di farcela da solo. In effetti, in caso di situazioni particolarmente critiche, non è raro che un clan abbandoni la propria tribù in cerca di fortuna altrove, avendo discrete probabilità di riuscire nell’impresa. Il caso di Terach ne è un esempio (cf. cap. III.1.3.).
Un tratto specifico della tribù è la comparsa di una prima divisione del lavoro, che è ben rappresentata dalla figura dello sciamano e dal consiglio degli anziani, già menzionati, ma anche da altre figure di uomini, che controllano le aree periferiche del territorio, vigilano su eventuali movimenti sospetti e curano i rapporti di buon vicinato con le tribù confinanti.
Nelle regioni ad alta densità demografica, non è facile per una tribù abbandonare il proprio territorio. Ora, il fatto di poter controllare un territorio più esteso e per periodi più lunghi offre dei vantaggi, fra i quali spiccano per importanza l’addomesticamento di alcuni animali (i primi sono il cane, le capre e le pecore, seguono buoi e maiali) e la diffusione della pastorizia. Gli animali addomesticati costituiscono una riserva alimentare tale da consentire, per la prima volta, di prolungare ulteriormente la sosta nello stesso posto. Ciò risulta molto utile nei casi in cui uno spostamento comporti per la tribù il rischio di dover affrontare dei nemici ed essere annientati. In questi casi, il fatto di poter prolungare la sosta, consente alla tribù di scegliere il momento migliore per levare le tende e mettersi alla ricerca di un nuovo insediamento. È il primo passo verso il controllo della natura e il superamento del nomadismo.
La permanenza prolungata in un luogo offre all’uomo un altro vantaggio, quello di metterlo in condizione di “cogliere il rapporto, tutt’altro che ovvio, che lega la seminagione alla nascita dei vegetali” (Liverani 1988: 71). Grazie all’invenzione dell’agricoltura l’uomo può ora disporre di un’altra fonte di surplus alimentare che, opportunamente gestito, consolida la tendenza alla vita sedentaria e porta alla nascita dei primi villaggi stanziali veri e propri. Come osserva Liverani, la sostanza della rivoluzione neolitica sta tutta qui: “nella progressiva messa a punto di tecniche per la produzione di cibo (agricoltura e allevamento) in sostituzione delle tecniche di semplice sfruttamento (caccia e raccolta) del cibo già esistente in natura” (1988: 62). L’uomo, insomma, comincia a padroneggiare la natura anziché subirla totalmente.
Il fatto è che la campagna non produce in modo regolare, né in quantità proporzionale alla crescita demografica e, pertanto, la popolazione deve imparare a convivere con ricorrenti periodi di scarsità. Ebbene, quando la situazione si fa critica, una tribù non può fare altro che guardare ad un vicino, che magari è stato più fortunato. In un simile frangente il consiglio degli anziani può deliberare di rivolgersi ad un’altra tribù per chiedere un prestito, oppure di depredarla e perfino distruggerla. Ora, sia che prevalgano i rapporti di buon vicinato o i rapporti di ostilità, l’effetto è simile: le tribù tendono a conoscersi e a comprendersi meglio. Così può capitare che più tribù si facciano guerra oppure che stringano rapporti improntati alla solidarietà e alla cooperazione, fino ad integrarsi come se fossero un sol popolo. Generalmente, le tribù si uniscono o a causa dei loro buoni rapporti (che, a loro volta, sono favoriti da comunione di religione, lingua, usi e costumi, oppure da scambi di favori e di donne, alleanze a scopo difensivo, ecc.), o perché costrette con la forza.

II.1.2. La città
Il periodo che va da 5.500 a 2.600 anni fa è caratterizzato dalla scoperta dei metalli e dalla loro lavorazione, ed è perciò chiamato Età dei Metalli. I primi metalli che l’uomo impara a riconoscere, estrarre e lavorare sono il rame e l’oro, i quali risultano particolarmente adatti a realizzare oggetti ornamentali e utensili che costituiscono più un simbolo di status sociale e di prestigio che oggetti di reale utilità pratica. Solo con la scoperta del bronzo, una lega composta di rame e stagno, si può disporre di un metallo avente caratteristiche meccaniche idonee a costruire punte di frecce, asce, pugnali e lance: nascono così, intorno a 5 kyr fa, le prime armi metalliche .
In questo periodo clan e tribù tendono ad unirsi sotto un capo comune e a darsi nuove e più complesse forme di organizzazione sociale, allo scopo di assicurarsi maggiori probabilità di sopravvivenza e migliori condizioni di vita, ovvero allo scopo di attuare la propria volontà di potenza. In questa corsa, i più favoriti risultano, come vedremo, i clan specializzati nell’arte predatoria, alcuni dei quali, grazie proprio alla loro organizzazione di tipo militare, fonderanno città, regni e imperi, costringendo numerose etnie a convivere all’interno di un’unica entità politica, che chiameremo Stato, come se fossero un unico popolo. I clan guerrieri lasciano alle famiglie contadine solo il minimo per la sussistenza e incamerano il surplus col quale finanziano gli apparati militare e amministrativo, che sono necessari per conservare la propria posizione di potere.
Insieme ai metalli si vanno affermando nuove figure di lavoratori, come il prospettore e il fabbro, e nasce la metallurgia. Il prospettore esegue ricerche sul terreno finalizzate ad individuare i giacimenti del metallo, che poi viene estratto da squadre di operai e quindi affidato al fabbro, il quale lo ammorbidisce alla fiamma e infine lo forgia, oppure lo fonde al calore e lo cola in appositi stampi in pietra al fine di realizzarne l’oggetto desiderato. I metalli consentono di costruire non solo armi, ma anche utensili e arnesi di lavoro sempre più perfezionati ed efficienti che, insieme all’invenzione della ruota, danno un forte impulso alla produttività agricola e alle tecniche costruttive, rendendo così possibile non solo sfamare un numero maggiore di persone, ma anche costruire città fortificate, atte a proteggere le persone e i loro averi. La città differisce dal villaggio più per l’organizzazione interna che per la dimensione. Essa

“è un raggruppamento fondato sulla divisione del lavoro, sicché nessuno è autosufficiente, tutti lavorano in funzione degli altri, e il risultato è assai superiore sul piano quantitativo e sul piano qualitativo rispetto ad una giustapposizione meccanica di tanti contributi autosufficienti ed eguali. Come la struttura di villaggio comporta la collegialità di eguali, così la struttura urbana comporta una scalarità e un coordinamento di funzioni e piani diversi, comporta cioè una struttura unitaria, accentrata. Le decisioni non possono essere lasciate ai singoli gruppi familiari, liberi di essere tutti d’accordo ma anche di tirarsi fuori in un caso o nell’altro; le decisioni devono essere vincolanti per tutti, unitarie, perché il «tirarsi fuori» di un gruppo ha conseguenze per tutti. La decisione deve dunque essere non unanime ma unitaria, non può risultare da libero confronto, ma da imposizione vincolante” (Liverani 1976: 350).


La città è in primo luogo la sede del tempio e del palazzo.

“Sono questi grossi complessi architettonici e organizzativi che fanno la differenza tra città e villaggi: le città sono quegli insediamenti che sono sedi di «grandi organizzazioni», i villaggi quelli che ne sono privi. Tra tempio e palazzo la differenza è notevole, perché il tempio è innanzi tutto la sede delle attività cultuali, la «casa del dio» ove la comunità presta al suo capo simbolico il culto giornaliero e periodico (feste); il palazzo è invece innanzi tutto la residenza del capo umano, il re con la sua cerchia più stretta (famiglia reale, corte). Ma altrettanto importanti sono le affinità: palazzo e tempio sono entrambi la sede delle attività amministrative e decisionali, e la sede dell’accumulo delle eccedenze sul quale è fondato l’intero meccanismo retributivo” (Liverani 1988: 111).


A differenza del villaggio, l’organizzazione sociale della città è di tipo apicale e gerarchizzato. Al vertice c’è il re che decide per tutti. Non esistono assemblee o organismi collegiali di eguali. Non esistono legami di sangue né ideali comuni per tutta la popolazione. Non ci si sente membri di un’unica stirpe o di un’unica nazione. I cittadini vivono essenzialmente come sudditi e subiscono l’amministrazione della corte, senza necessariamente condividerne gli obiettivi. Il più delle volte, gli interessi dei cittadini non coincidono con quelli del palazzo, perciò l’avvicendamento dei sovrani lascia i popoli pressoché indifferenti. Si spiega allora come mai i regni dell’Antico Oriente si affermano e tramontano con la stessa facilità, senza che ciò produca turbamento nelle popolazioni delle città, dei villaggi e delle campagne.
Una peculiarità della città è quella di ospitare in uno spazio relativamente angusto migliaia di persone, in certi casi decine di migliaia, che sono unite, oltre e più che dai soliti legami (apparentamento, vicinanza fisica, fede nello stesso dio), anche dalla mutua dipendenza, ora che il lavoro è divenuto sempre più specializzato. Nella città c’è posto anche per stranieri, che vi prestano determinati servizi e vi portano anche le proprie usanze e le proprie divinità. La coesistenza di un così gran numero di persone, se da un lato offre indubbi vantaggi, ha il rovescio della medaglia. Tanto per cominciare, ciascuno deve rinunciare a una parte della propria libertà e imparare a districarsi in un’organizzazione sociale complessa e non più di tipo familiare. Inoltre, la divisione del lavoro comporta anche, la divisione delle sostanze e, insieme ad essa, la nascita delle classi sociali e la differenziazione tra ricchi e poveri, nobili e plebei, liberi e schiavi.
Una popolazione così numerosa e articolata ha bisogno di qualcuno che abbia l’autorità di stabilire delle regole e che abbia la forza necessaria per farle rispettare, ma perché questa persona sia accettata da tutti occorre che essa sia legittimata ad assumere quel potere. Ebbene, le forme di legittimazione che si vanno affermando sono essenzialmente due: quella che proviene dalla forza e quella che proviene da un dio. Perciò, almeno in condizioni ordinarie, la città è governata o da un feroce capobanda o da un sacerdote, ciascuno dei quali può, a seconda delle circostanze, essere proclamato re e assumere la pienezza dei poteri. È così che si afferma la monarchia. Il re non decide solo della guerra, ma può anche fissare le regole sociali in tempi di pace e stabilire il carico fiscale da addossare ai propri sudditi, le istituzioni politiche e le opere pubbliche da realizzare, le modalità di arruolamento delle truppe, e altro ancora.
A poco a poco, quelli che prima erano equilibri di forza si vanno tramutando in principî di diritto, e così il semplice controllo della terra diventa proprietà privata della stessa. A questo punto risulta ben delineata la «società duale» o Stato, che si caratterizza perché vi si riconoscono non solo i proprietari terrieri, che perderebbero le loro terre se lo Stato si dissolvesse, ma anche tutti coloro che, a vario titolo, ricevono il soldo dal sovrano: soldati, funzionari, mercanti, artigiani, ecc.. Possiamo chiamarli «vincenti». Sono coloro che dall’esistenza dello Stato hanno da guadagnare e perciò hanno interesse a sostenere lo Stato medesimo. Sul fronte opposto possiamo collocare i «perdenti», ossia tutti coloro che vivono sotto padrone e a livello di mera sussistenza, i quali non hanno alcun interesse a sostenere lo Stato, né si riconoscono in esso. Lo Stato dunque è sostenuto dai vincenti e in grande misura si identifica con essi e persegue i loro stessi interessi, che coincidono principalmente con la tutela della proprietà privata e di alcuni privilegi. I perdenti invece vengono conservati in vita solo come forza lavoro o come milizia ausiliaria o di riserva. In quanto emanazione dello Stato, ossia dei vincenti, anche il diritto ripete i contorni della società duale e tratta vincitori e vinti con due pesi e due misure.
Ora, uno Stato può sussistere solo a due condizioni: 1) che sia riconosciuto da tutti come una forma di convivenza desiderabile; 2) che abbia la forza necessaria per imporsi. Ma poiché, per definizione, una società duale non può godere di un consenso unanime, ne consegue che nessuno Stato può fare a meno della forza se vuole conservare se stesso.
Grazie alle entrate provenienti dal prelievo fiscale, dai proventi delle proprie proprietà private, dai tributi imposti alle popolazioni vassalle e dai bottini di guerra, il re può permettersi un palazzo imponente, abbellito con fregi, decorazioni e opere artistiche di vario genere, e di circondarsi di un gran numero di servitori, artigiani, funzionari e, soprattutto, da un gran numero di uomini ben armati. È in questo periodo che si assiste alla «rivoluzione del rango», ossia alla tendenza ad ostentare il proprio status sociale in tutti i modi possibili, che è ben documentata “dall’esistenza di sepolture isolate dalle altre, in genere con caratteristiche di monumentalità, che per il corredo e per il rito che vi appare praticato possiamo definire come «principesche»” (Guidi 2000: 124).

II.1.3. Città e villaggi
Le popolazioni nomadi si trovano ora a dover fare i conti con la nuova realtà urbana. In un primo tempo lo scambio fra villaggio e città avviene su basi paritetiche e complementari, ma, col passare del tempo, l’equilibrio si va spostando a favore della città, che si impone sempre più come il polo di riferimento di una regione, la residenza degli specialisti, la depositaria dei mezzi necessari al soddisfacimento delle esigenze più avanzate. “Il rapporto da complementare diventa subito gerarchizzato, coi villaggi strutturalmente tributari della città. Dai produttori di cibo va agli specialisti un flusso di eccedenza alimentare che permette agli specialisti di sopravvivere pur non producendo cibo. E dagli specialisti va verso i produttori di cibo un flusso di prodotti specializzati e di servizi. Il meccanismo è per principio bidirezionale, e tale da avvantaggiare la comunità integrata nel suo complesso; ma i rapporti interni si sbilanciano a tutto vantaggio degli specialisti” (Liverani 1988: 110).
Alla fine, le popolazioni nomadi si trovano a dover scegliere: o entrano nell’orbita d’influenza di un re e accettano di pagargli un tributo, oppure si spostano in luoghi remoti e difficilmente accessibili, come aree montagnose o semidesertiche, dove finiranno per accalcarsi, insieme ad altri clan di varia provenienza, venendo così a costituire una popolazione eterogenea e divisa, che però, talvolta, generalmente grazie alla fede in un dio, sviluppa un sentimento di unità nazionale.
Da questo momento, le piccole tribù tendono a scomparire, mentre gli unici soggetti politici in grado di sopravvivere sono i grandi agglomerati tribali e le città. Queste due realtà coesistono a lungo e si condizionano a vicenda, stabilendo rapporti che possono andare dalla collaborazione all’ostilità, dallo scambio di cultura e di beni alla guerra. Generalmente i nomadi si sentono attratti dalla realtà urbana, ma non sono rari coloro che vanno fieri dei propri costumi e delle proprie tradizioni. Basti ricordare il caso degli ebrei, molti dei quali, anche sotto la monarchia, continueranno ad avvertire il richiamo verso l’ideale di vita nomadica e a guardare con nostalgia al loro lontano passato (2 Sam 20,1; Ger 35).
La città tende a fagocitare e ad asservire più gruppi che può, e i gruppi nomadici non fanno certo eccezione. Ma essi tenderanno a resistere e a preservare la propria sfera di autonomia rispetto all’autorità urbana. Gli elementi che giocano a favore della tribù sono la spontaneità della coesione sociale, minime esigenze di risorse, elevate doti di mobilità. Quando entrano in conflitto con una città, alcune di esse si uniscono in leghe e, sotto la guida di un capo comune, possono vivere il loro momento di gloria, riuscendo ad imporsi e dominare. Più spesso invece è la città ad avere la meglio. Alla fine, la tribù sarà superata dalla città, e questo avverrà non tanto sul piano della forza quanto su quello dell’organizzazione, dei servizi, del confort e della sicurezza. Sotto questi aspetti la città si dimostrerà, alla lunga, superiore, anche se ciò non decreterà comunque la fine del villaggio: i villaggi persisteranno, ma dovranno accettare uno stato di inferiorità e dipendenza dalle città.

II.1.4. Il «progresso»
La tendenza a vivere in gruppi sempre più ampi ed eterogenei favorisce quello che chiamiamo progresso umano. “L’uomo non avrebbe conseguito nessun successo, se non si fosse organizzato coi suoi vicini in grandi comunità e se non avesse conferito a queste comunità una struttura politica e sociale atta a coordinare lo studio, la realizzazione e l’uso dei lavori collettivi” (Aymard, Auboyer 1955: 11). Una delle più importanti conquiste del progresso è certamente l’invenzione della scrittura , la quale consente, tra l’altro, la realizzazione di un efficiente apparato amministrativo, con i suoi funzionari, i suoi registri e i suoi inventari. “La burocrazia nasce dalla logica dell’organizzazione sociale su larga scala […]. Essa nasce anche dal potere, dal dominio di uno o di alcuni sopra i molti, dove quel dominio richiede degli agenti, interpreti fedeli della volontà del sovrano, che eseguano gli ordini, che traducano in realtà le aspirazioni” (Albrow 1991: 591). È per questo che quei pochi che sanno scrivere (e leggere) sono ripagati lautamente dal re per il servizio che essi rendono al palazzo.
In un primo tempo la scrittura è usata esclusivamente dalla classe dominante e svolge funzioni essenzialmente di tipo contabile e propagandistico: nel primo caso, si tratta di enumerazioni di merci, di elenchi di tributi da riscuotere e poco altro; nel secondo caso, si tratta di brevi iscrizioni incise sul frontone di un tempio, sul piedistallo di una statua, su un cippo o su una stele, e riportano liste di nomi di divinità e di sovrani associati ad un qualche fatto o avvenimento memorabile. Per la massa delle persone analfabete i simboli grafici non sono altro che strane immagini dotate di potere magico, a cui guardare con meraviglia e stupore. In questa prima fase la scrittura colpisce più per il suo effetto scenico, artistico ed emotivo che per il suo contenuto. In ultima analisi, la simbologia grafica serve a mettere in chiaro chi comanda e contribuisce a stabilizzare i rapporti di potere e la gerarchia sociale.
Col tempo i simboli grafici vengono semplificati e resi più facili da riprodurre, il che rende la scrittura accessibile anche ai ceti medi, che se ne servono per esprimere concetti astratti sempre più complessi, raccontare le origini di una città o di una famiglia o di un dio, descrivere una battaglia, redigere un contratto di compravendita o un codice di leggi, ma anche per poetare o filosofare. Da questo momento la scrittura potrà essere impiegata per una propaganda politica di contenuto, ossia legata al significato del testo. Agli inizi dell’Età dei Metalli gli esempi di scrittura sono ancora rari e la maggior parte dell’informazione viene trasmessa per via orale.

II.1.5. Stati, Monarchie, Imperi
Quando la città inizia a guerreggiare con altre città comincia ad apparire sempre più chiaro che anch’essa non è che un punto di partenza in direzione di entità politiche sempre più ampie. Da qui si va affermando la tendenza ad accorpare più città in un unico regno, nella convinzione che un grande regno, questo sì, sarà invincibile. Purtroppo, il tempo dirà che nemmeno questo è vero. I primi regni della Terra sorgono nella Mezzaluna Fertile (5,5 Kyr) .
Con l’affermazione delle monarchie si fa sempre più forte l’esigenza della legittimazione del potere dinastico, non tanto quello del sacerdote, che rappresenta l’autorità tradizionale, quanto quello del re, che rappresenta l’ultimo arrivato. Occorre cioè spiegare alle persone perché quel re è davvero un grande uomo e perché ha veramente titolo ad esercitare il potere sovrano e a trasmetterlo ai discendenti. A ciò provvedono i racconti e i miti composti appositamente dagli scribi di corte, che sono chiamati a raccontare la nascita e le imprese dei personaggi più potenti. A loro non si chiede una ricostruzione fedele di una biografia del sovrano, impresa che sarebbe pressoché impossibile, dal momento che mancano dati certi sulle vite delle persone; si chiede piuttosto un’apologia, un elogio incondizionato del dinasta, senz’altra preoccupazione che fare risaltare la grandezza e la singolarità della sua persona e della sua stirpe. Attraverso la sua opera, lo scriba confermerà e rafforzerà l’investitura divina del sovrano che verrà sancita anche dall’unzione sacerdotale.
Quello che ne risulta, alla fine, è che ogni grande città e ogni grande dinastia sono celebrate da racconti mitici che ne costruiscono storie fantastiche, storie mitiche appunto, che si perdono lontano nel tempo e riconducono i natali della città e del sovrano fondatore ad una qualche divinità. Il messaggio è semplice e chiaro: la dinastia che oggi è al potere ha origine divina e, pertanto, è legittimata a governare senza ombra di dubbio. Questo messaggio viene ripetutamente declamato in varie forme nelle grandi occasioni o nel corso del cerimoniale di palazzo. Saranno poi alcuni personaggi, non necessariamente alfabetizzati, ma particolarmente sensibili e avvezzi a muoversi incessantemente da un luogo all’altro, come pastori e mercanti (nel mondo ellenico saranno gli aedi o cantori), a diffondere oralmente ciò che hanno udito all’interno dei palazzi e da cui sono rimasti impressionati. Questo processo di legittimazione non solo crea le condizioni favorevoli alla stabilità politica, ma contribuisce anche a rendere desiderabile lo status quo ed esecrabile il cambiamento.
Ricapitolando, lo Stato nasce quando ci sono ricchezze (surplus) da gestire (burocrazia) e da difendere (esercito). Il surplus rende possibile la divisione del lavoro: gli artigiani si dedicano alla costruzione di utensili e armi, i sacerdoti si occupano del culto, i mercanti scambiano o vendono merci, i guerrieri si incaricano della difesa e delle razzie, gli scribi redigono i primi documenti e fondano le prime scuole all’interno del palazzo. La burocrazia rende operative le leggi dello stato e regola i rapporti fra i cittadini e le istituzioni. L’esercito, infine, svolge una duplice funzione: difensive e di potenza.
Nelle pagine che seguono prenderò in rassegna alcuni tra i principali sistemi statuali che si sono affermati nella Fertile Mezzaluna, fra 5-2,5 mila anni fa (Egitto, Sumeria, Babilonia, ecc.) e farò in modo che risulti evidente come ciascuno di loro risponderà, in un modo proprio, agli stessi problemi.

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