lunedì 12 luglio 2010

III.7.8. Il sionismo: un bilancio

Volendo fare un bilancio di questi 130 anni di sionismo, non possiamo che prendere in considerazione e soppesare le ragioni dei sionisti, ponendole in contrapposizione con le ragioni dei palestinesi e del mondo arabo in generale. Ora, in questo compito ci viene in soccorso Lorenzo Kamel, che in un suo recente libro (2008) ha proprio affrontato, e in modo egregio, questa questione. Partiamo dalle ragioni dei sionisti e illustriamo il loro punto di vista, che è stato regolarmente argomentato da una certa storiografia.
Alla fine dell’Ottocento i sionisti vedevano negli ebrei un popolo senza terra, inviso e maltrattato in Europa, che aveva tutte le ragioni per desiderare una propria nazione sovrana dove vivere in pace e in libertà. «Se loro (gli europei) non ci vogliono», pensavano, «noi non vogliamo loro e fonderemo una nostra nazione». E Leo Pinsker aggiungeva: «Poco importa dove, in qualsiasi parte del mondo». Partendo da questa base e dopo aver scartato le varie proposte possibili, i sionisti puntarono con decisione sulla Palestina, che era una terra a loro particolarmente cara per ragioni storiche e religiose e una terra in cui la presenza ebraica non era mai venuta meno nel corso dei secoli. Ai loro occhi la Palestina di fine Ottocento era una terra desolata e scarsamente abitata da una popolazione non strutturata in Stato e priva di un sentimento nazionale, il che li autorizzava a concludere che si trattava di «una terra senza popolo».
Partendo da questi presupposti, i sionisti iniziarono un’immigrazione di massa in quella terra. In effetti, con il loro arrivo, la Palestina andava progredendo e si andava popolando: perfino la regione semidesertica del Negev finì per diventare produttiva e, nell’arco di un secolo, la sua popolazione passò da 50 mila ad oltre 500 mila. Il fatto che gli ebrei si adoperarono a costruire il proprio Stato agì da stimolo e da modello per i palestinesi e fece sì che anch’essi sviluppassero uno spirito nazionale e desiderassero un proprio Stato sovrano. Fin qui tutto bene. Il problema nacque nel momento in cui gli arabi mostrarono di non gradire la presenza di uno Stato israeliano in Palestina. Ebbene, i sionisti erano certi che, così facendo, gli arabi commettevano un grave errore: l’errore di non capire che anche gli ebrei avevano diritto ad avere una propria patria in Palestina, tanto più dopo che essi si erano prodigati a migliorare quella regione e avevano anche suscitato uno spirito nazionale nella scalcinata popolazione palestinese di fine Ottocento. Secondo i sionisti, gli arabi persistettero colpevolmente nel loro errore quando, in occasione della partizione dell’Onu del 1947, si opposero alla costituzione di due Stati e negarono ad Israele il diritto di esistere, creando così le condizioni favorevoli allo scoppio della guerra.
Un secondo errore commesso dagli arabi è l’avere creduto che il divario delle forze in campo era tale a loro favore che essi avrebbero avuto facilmente ragione degli ebrei. 27 milioni di arabi erano intenzionati a distruggere il neonato Stato di’Israele, che era composto da sole 700 mila anime. Quello che si profilava era uno scontro impari, che ricordava il mitico scontro tra Davide e Golia, ma che, come nel caso di Davide e Golia, finì con la vittoria inopinata del più debole. Il comportamento degli ebrei fu ineccepibile. Essi, infatti, mirarono unicamente a difendersi e si appropriarono delle terre dei vinti come legittimo bottino di guerra. Ma gli arabi non intesero desistere dai loro propositi e continuarono a sbagliare.
Un terzo errore commesso dagli arabi fu la convinzione che gli ebrei non avrebbero resistito ad un nuovo attacco e, in vista di questa rivincita, ordinarono ai palestinesi di abbandonare le loro case e di inscenare il dramma dei profughi, sia per mettere in cattiva luce gli ebrei e indebolirli psicologicamente, sia con l’intento di ingrossare gli eserciti arabi e ritornare con essi vittoriosi. Insomma, secondo i sionisti, il dramma dei profughi palestinesi nasceva “a causa dell’aggressione araba che seguì la dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele” (Kamel 2008: 200).
Un quarto errore commesso dagli arabi è stato l’ostinazione con la quale hanno continuato a negare il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele e a non comprendere “i vantaggi che il sionismo stava portando loro” (Kamel 2008: 214). Insomma, gli arabi si sarebbero fatti male da soli, mentre gli ebrei hanno semplicemente esercitato un loro elementare diritto: il diritto di difendersi dalle vessazioni e di darsi una nazione sovrana.
Tutte queste ragioni sono ben compendiate in un recente libro della giornalista ebrea, Fiamma Nirenstein, dal titolo fortemente evocativo Israele siamo noi. La Nirenstein non ha dubbi sulle buone ragioni degli ebrei, colpevoli solo di essere invisi a tutti e che perciò devono fare i conti con l'antisemitismo occidentale e il furore antisionista dell'antisionismo islamico. Non solo "Israele è uno Stato del tutto legittimo" (Nirenstein 2007: 8), ma esso è anche il "fronte avanzato della democrazia" occidentale (ivi p. 256) che, gli eventi della storia hanno incastonato in quel mondo antidemocratico ed estremista che si chiama Islam. Israele siamo noi, democratici occidentali, che ci troviamo a doverci confrontare con la cultura del jihad e del terrorismo. Ebbene, proprio per questo, la Nostra si rammarica nel constatare che spesso l'Occidente, anziché sostenere il sionismo, lo fa bersaglio di dure critiche immotivate, costringendo così Israele a combattere su due fronti: l'Islam e l'Occidente. "Israele e gli ebrei sono al centro di un attacco ideologico pari soltanto a quello subìto alla vigilia della Seconda guerra mondiale" (Nirenstein 2007: 8).
Da parte loro i palestinesi respingono tutte le accuse e vedono gli ebrei come invasori o come colonialisti, che si sono introdotti nella loro desolata regione e, col pretesto di civilizzarne e ammodernarne la popolazione, vi hanno imposto, anche con la forza, il proprio volere e i propri interessi. Secondo i palestinesi, il fatto che la Palestina fosse una terra povera e scarsamente popolata e che gli ebrei ne fossero stati i padroni fino a diciotto secoli prima e vi avessero abitato ininterrottamente non dava il diritto a questi ultimi di penetrarvi in massa e costituirvi un proprio Stato a spese della popolazione autoctona. Per i palestinesi non è vero che la guerra del 1948 è stata combattuta da 27 milioni di arabi contro 700 mila ebrei, ma da un esercito arabo di 25 mila uomini contro un esercito israeliano di 35 mila unità (Kamel 2008: 306). E non è nemmeno vero che i sionisti hanno badato solo a difendersi: essi hanno, invece, deliberatamente attuato sin dall’inizio un piano mirante all’espulsione sistematica dei palestinesi dalla loro terra allo scopo di insediarvi un proprio Stato. Il dramma poi dei profughi palestinesi sarebbe stato determinato in gran parte, se non interamente, dalle armi e dalla strategia del terrore messe deliberatamente in campo dai sionisti. Tutto questo, nella prospettiva palestinese, non può essere giustificato appellandosi a ragioni storiche e religiose e in nessun altro modo che su meri rapporti di forza.
A fronte di queste ragioni addotte dalle due parti in causa, ogni persona terza sia libera di formarsi una propria opinione.

1 commento:

  1. Non credo che non si possa prevedere quale partito predominerà. Israel è uno stato laico e negli ultimi anni, con l'arrivo di oltre un milione di Ebrei provenienti dai paesi dell'ex Unione Sovietica, grazie alla legge del ritorno, bisogna fare i conti con un particolare: molti di questi sono Ebrei, hanno tradizione ebraica ma in reltà non hanno fatto una scelta sionista, che sia laica o religiosa. Hanno solo colto l'occasione per sfuggire all'oppressione totalitaria dapprima e alla miseria dopo, andando in uno Stato giovane che offrisse prospettive di libertà e di lavoro. Questo fenomeno fa pendere fortemente la bilancia dalla parte dei laici. I partiti religiosi hanno una certa voce sulle questioni che investono l'etica ebraica ed alcuni aspetti della vita civile: matrimonio (non esiste ancora in Israel il matrimonio civile, ma solo quello officiato da un rabbino), divorzio, definizione dell'ebraicità, ecc.
    In realtà il partito che in parlamento rappresenta i religiosi, è un po' fuori degli schemi politici tradizionali. Esso fa sempre coalizione con lo schieramento che vince le elezioni, in quanto non è un partito politico in senso stretto e le istanze che rappresenta possono essere portate avanti da qualsiasi governo, in quanto non si tratta di una idelogia.
    Non si può nemmeno dire che lo Stato laico sia avversato dagli ultraortodossi in maniera esagerata, in quanto lo stato laico esonera i religiosi dal servizio militare e finanzia le "yeshivot" (accademie e scuole di studio di Torah e Talmud). Il panorama politico israeliano resta comunque molto frammentato, perché innumerevoli sono le estrazioni di origine degli Israeliani: innanzitutto i due grandi gruppi principali: Sefarditi (provenienti dal bacino del Mediterraneo) Ashkenaziti (Europa centrale e orientale) a loro volta suddivisi a seconda dei paesi di provenienza: Spagna, Italia, Francia Polonia, Russia, Ucraina. A questi si aggiungono coloro che provengono da paesi arabi: Libia, Yemen Libano Siria. Lo stesso concetto di destra e sinistra è completamente diverso rispetto all'occidente. Questo spiega le difficoltà incontrate per la costituzione di un governo politicamente saldo. Si tratta di una costellazione di tradizioni, mentalità, esperienze, storie familiari, molto eterogenea, tanto che è famoso l'aforisma: "Due Ebrei, tre opinioni"

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