lunedì 12 luglio 2010

III.7.4. Israele (1945-1991)

Dopo avere invano, in più occasioni (1945-7), cercato di contrastare l’immigrazione clandestina e di arrestare l’azione terroristica ebraica, Londra finisce per abbandonare la questione palestinese alla competenza dell’ONU (1947), che divide la Palestina in tre parti: uno Stato ebraico di 14.000 Kmq per una popolazione di 963.000 abitanti, di cui 500.000 ebrei, uno Stato arabo, di 11.500 Kmq per una popolazione di 814.000 abitanti, di cui 10.000 ebrei, e Gerusalemme, che è dichiarata territorio internazionale. La delibera dell’ONU (risoluzione 181) è ritenuta ingiusta dagli arabi, che si vedono defraudati di una terra che è loro da secoli. Gli ebrei, invece, accettano, sia pure rammaricandosi per non avere ottenuto di più, e, senza indugio, iniziano l’attuazione del cosiddetto «Piano D», che persegue due obiettivi: il primo consiste nell’impadronirsi di tutte le installazioni civili e militari abbandonate dagli inglesi, il secondo nel ripulire il territorio loro assegnato dall’ONU del maggior numero possibile di arabi.
Truman esprime “l’interesse americano nel concorrere allo sviluppo della giovane e fragile economia e a garantire, in prospettiva, l’autosufficienza difensiva sul piano militare” (Vercelli 2008: 36), e questo appoggio sarà una costante della politica estera americana negli anni a venire. Tuttavia, almeno fino al 1967, gli aiuti americani saranno prevalentemente di tipo economico, mentre l’aiuto militare sarà erogato soprattutto da Francia e Germania, sia pure con il tacito assenso statunitense (Vercelli 2008: 37).
Secondo Ilan Pappe (2008), nel 1948 la politica sionista è già chiaramente orientata all’allontanamento forzato dei palestinesi dalle loro terre. Lo studioso parla senza mezzi termini di «pulizia etnica», espressione che “serve a designare una pratica di persecuzione o di violenza fisica compiuta da una popolazione ai danni di un’altra per terrorizzarla e costringerla ad abbandonare un territorio conteso” (Sabbatucci, Vidotto 2008: 630). Ilan Pappe ricorda che “La pulizia etnica è un crimine contro l’umanità e le persone che oggi lo commettono sono considerate dei criminali da portare davanti a tribunali speciali” (2008: 6). Questo però, sempre secondo Pappe, non sarebbe avvenuto nel caso degli ebrei a causa di un’informazione impostata in modo da orientare l’opinione pubblica mondiale a loro favore. Pappe parla di “crimine contro l’umanità che Israele ha voluto negare e far dimenticare” (2008: 11). Non molto diverso è il giudizio espresso da Nathan Weinstock: “Dal 1948, la maggioranza dei palestinesi vengono brutalmente sradicati e fatti riparare in campi dove regna una miseria atroce. Tragedia resa ancora più straziante dalla placida indifferenza dell’opinione pubblica mondiale” (2006: II, 11). Invano i palestinesi cercano di opporsi: la loro inferiorità militare è netta e sono costretti a subire. Il risultato è che, nel giro di un semestre, 531 villaggi vengono distrutti e circa 800 mila residenti vengono cacciati dalle loro case. Inizia così il dramma dei profughi palestinesi.
Dopo sei mesi di «guerra civile» e in coincidenza con la cessazione del mandato inglese, nonostante la contrarietà del mondo arabo e grazie all’appoggio di alcuni paesi occidentali, Ben Gurion proclama la nascita dello Stato di Israele (14.5.1948), che viene subito riconosciuto dall’Urss e dagli Stati Uniti, entrambi desiderosi di sostituirsi ai britannici nel Medio Oriente. Secondo Mario Moncada di Monforte, lo Stato appena costituito “è il prodotto di una forza usata in modo fanatico” (2009: 67) ed è difficile dargli torto.
Se gli ebrei esultano per il loro «ritorno» nella Terra Promessa, dalla quale erano stati sfrattati circa diciannove secoli prima, gli arabi non possono tollerare quella che considerano un’invasione. Così, alla partenza degli inglesi, essi si uniscono in una Lega e impugnano immediatamente le armi. È la prima guerra arabo-israeliana. L’azione degli ebrei si svolge con cinica metodicità: i soldati israeliani circondano da tre lati i villaggi palestinesi, lasciando che i loro abitanti fuggano dal quarto lato in cerca di asilo nei paesi confinanti; i recalcitranti vengono allontanati con la forza; quindi si procede alla distruzione dei villaggi in modo che degli arabi non rimanga più traccia (Pappe 2005: 167). Talvolta, come nel caso del villaggio Tantura, nella notte del 12 maggio, l’agglomerato urbano viene circondato sui quattro lati così da bloccare ogni via di fuga ai suoi abitanti, che vengono ferocemente massacrati (2008: 167). Il conflitto prosegue fino al 1949 e si conclude con la vittoria degli ebrei che, grazie all’annessione della Galilea, della Giudea e del Negev, estendono il loro territorio a 20.700 Kmq.
Alla fine della guerra, quasi tutti i palestinesi prima residenti nello Stato d’Israele, circa 750 mila, sono stati cacciati e costretti a vivere in tendopoli, in parte in territorio israeliano, poco distanti dalle loro terre e dalle loro case, in parte nei vicini paesi arabi (Libano, Siria, Giordania, Egitto), mentre i pochi rimasti, si sono rassegnati a vivere come cittadini di secondo ordine all’interno di una popolazione ebraica in continua crescita. I primi sognano il ritorno nella loro terra natia, i secondi una vita migliore, e tutti odiano gli ebrei con grande intensità. “Lo Stato ebraico è nato, ma a quale prezzo! […]. La maggioranza dei palestinesi, cacciati dalla propria patria e privi di mezzi di sussistenza, vengono ridotti in condizione di declassati, costretti a vegetare nella nera miseria dei campi mantenuti dall’ONU” (Weinstock 2006: I, 224-5). Particolarmente incontenibile è l’odio verso gli ebrei da parte dei rifugiati arabi d’Israele, i quali possono osservare le loro terre che adesso sono passate ai «conquistatori» ebrei e alcuni di loro, i più audaci, iniziano a compiere incursioni armate negli insediamenti ebraici isolati, allo scopo di uccidere e rapinare, ma gli ebrei controbattono colpo su colpo.
Gli ebrei, che pure possono contare su una netta superiorità militare, già cominciano a pensare alla bomba atomica: essi devono essere in grado di imporsi anche di fronte a qualsiasi eventuale minaccia di aggressione che provenga dal mondo arabo nel suo complesso. Per loro fortuna, le prospezioni nel deserto del Negev portano alla scoperta di uranio (1948-9). Intanto, il flusso immigratorio ebraico prosegue a ritmo serrato, favorito dalla cosiddetta «legge del ritorno» (1950), la quale riconosce ad ogni ebreo, di qualsiasi parte del mondo, il diritto di entrare in Israele e riceverne la cittadinanza.
Nel 1956 Israele scatena una nuova offensiva (seconda guerra arabo-israeliana), che viene fermata dopo pochi giorni da un intervento dell’ONU. I palestinesi provano ad organizzarsi e fondano alcune istituzioni, tra le quali spiccano «Al-Fatah» (1957) e l’OLP o Organizzazione per la liberazione della Palestina (1964), che, dal 1967, passano entrambe sotto la leadership di Yasir Arafat. Intanto, intorno al 1966, con l’aiuto della Francia e il consenso degli USA, Israele costruisce segretamente la sua bomba atomica. È il primo e unico paese di piccole dimensioni (20 mila kmq con 3 milioni di abitanti) a dotarsi di un arsenale nucleare, ed è pronto a usarlo nel caso sentisse la propria stessa esistenza minacciata (Hutchinson 2003: 129).
Nel mentre Israele perviene al massimo della sua potenza militare, dalla parte araba la situazione non potrebbe essere peggiore: “La maggioranza dei palestinesi sono ridotti a una condizione di mendicità collettiva, mentre la minoranza restata entro le frontiere israeliane è soggetta a una discriminazione tanto umiliante quanto scandalosa” (Weinstock 2006: II, 29).
Nel 1967 scoppia la cosiddetta Guerra dei sei giorni, che consente agli ebrei di allargare ulteriormente i loro territori fino a 65.000 Kmq e occupare le aree dove vive la maggioranza dei profughi palestinesi. Questa occupazione, che è accompagnata da una sistematica violazione dei diritti umani e civili da parte degli ebrei (Pappe (2005: 250), porta gli arabi all’esasperazione, ma essi devono fare i conti con la schiacciante superiorità militare degli ebrei, che, oltre all’atomica, dispongono di carri armati, elicotteri, aerei e missili. Non potendo opporre altro che fucili e mitra, gli arabi decidono di rispondere col terrorismo. Uomini-bomba cominciano allora a lasciarsi esplodere in luoghi affollati seminando strage e fanno sì che nessun ebreo possa sentirsi al sicuro in nessuna parte del paese e in qualsiasi momento. Gli israeliani rispondono con bombardamenti e i palestinesi replicano con attacchi suicidi. Per anni si va avanti così e, inutilmente, le Nazioni Unite si esprimono per il ritiro israeliano dai territori occupati (risoluzione 242 del 22.11.1967).
Nel 1973 gli egiziani scatenano la quarta guerra arabo-israeliana, che si conclude con un nulla di fatto.
Il malcontento della nuova generazione dei palestinesi, nati in Cisgiordania e nella striscia di Gaza sotto il dominio israeliano, è all’origine di una rivolta spontanea (1987), detta Intifada (in arabo «risveglio»), che è repressa nel sangue dagli israeliani: in sei anni 1.500 arabi vengono uccisi in scontri a fuoco.
Nel 1988 l’OLP proclama ufficialmente l’istituzione di uno Stato palestinese, riconoscendo implicitamente la spartizione della Palestina stabilita dall’ONU nel 1947, ma gli ebrei non ci stanno. Intanto, entra in scena di «Hamas», un movimento integralista, che non riconosce lo Stato di Israele e vuole la cessazione dell’occupazione delle loro terre, anche ricorrendo all’uso della forza. Nello stesso tempo si diffonde il fanatismo religioso e la lotta si radicalizza: da una parte sale in auge la figura del martire kamikaze, che si immola per guadagnare il paradiso e per il bene del suo popolo, dall’altra parte gli israeliani continuano a ribattere colpo su colpo.

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