martedì 13 luglio 2010

II.4. I Paleobabilonesi

L’eredità politica e culturale della Sumeria passa ad alcune città-stato, che si contendono l’egemonia della Mesopotamia meridionale. La prima, in ordine temporale, è Isin, il cui re Ishbierra (2017-1985) riesce a cacciare gli elamiti da Ur (un suo successore, Lipit-Ishtar, si segnalerà per essere autore di un codice di leggi); poi è la volta di Larsa, il cui re Rim-Sin (1822-1763) conquista Isin; l’ultima è Babilonia, dove si insedia una dinastia di origine amorrea (1894-1595), che ha in Sumuabum (1894-1881) il fondatore e in Hammurabi (1792-1750) il sovrano di maggiore spicco.

II.4.1. Hammurabi e il suo Codice
Quando Hammurabi sale sul trono, Babilonia è una città di secondo livello nello scacchiere mesopotamico e altrettanto secondaria è la sua divinità tutelare, Marduk. Occorrono sei anni al nuovo sovrano per sbarazzarsi di quanti potrebbero insidiarlo e consolidare il suo potere all’interno della città. Poi, anche col ricorso di una saggia politica di alleanze, riesce a sottomettere, una alla volta, alcune popolazioni vicine, fino a conquistare un impero. Di pari passo con la potenza di Babilonia ascende anche la potenza di Marduk, che viene celebrato dai letterati del tempo come il signore supremo dell’universo.
Esaurita la spinta espansiva, volendo dare stabilità al suo impero, Hammurabi si preoccupa di emanare delle leggi scritte, che – sostiene – vengono dal dio tutelare e, come tali, devono essere considerate indiscutibili ed eterne. È il Codice mesopotamico più famoso. In ultima istanza esso esprime la volontà di Hammurabi di “realizzare l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge” e di “salvaguardare i diritti degli inferiori dalle prevaricazioni dei più forti” (Camera, Fabietti 1983: 74).
Il Codice è giunto fino a noi, inciso a caratteri cuneiformi su una stele di basalto nero, di forma pressappoco cilindrica, alta più di due metri, scoperta a Susa nel 1901. Nella parte apicale della stele è raffigurato il re nell’atto di ricevere le volontà del dio. Seguono 3.600 righe di testo che riportano una raccolta di 282 sentenze del sovrano riguardanti casi reali o immaginari, una sorta di casistica giudiziaria, cui avrebbero dovuto ispirarsi i giudici babilonesi nella loro pratica forense quotidiana. Siamo ancora lontani da “quella disciplina fondata sul ragionamento che è il diritto” (Aymard, Auboyer 1955: 143).
Di certo, Hammurabi non è mosso dal desiderio di far giungere alle generazioni future informazioni sulla società del suo tempo, eppure è proprio questo l’aspetto più importante del Codice dal punto di vista della storia. Infatti, quel poco che sappiamo della cultura di questi antichi babilonesi lo dobbiamo in massima parte a questo prezioso documento, da cui traspare una società stratificata e diseguale, distinta in tre categorie giuridiche di uomini: i «liberi» (amelu), cioè i proprietari di terre, che occupano il gradino più alto della gerarchia sociale; i «subalterni» (muskenu), cioè coloro che non possiedono terre, ma che si guadagnano comunque da vivere per mezzo di attività commerciali o artigianali, anch’essi considerati liberi, seppure a un livello più basso; gli «schiavi», per debiti o prigionieri di guerra, che sono privi di libertà. Non sono segnalate discriminazioni razziali, né religiose. Di particolare rilievo è la salvaguardia giuridica della donna che non si riscontra, per es., nel diritto assiro di alcuni secoli posteriore dove la donna è mantenuta in uno stato di inferiorità.
Il Codice mostra una particolare attenzione nel garantire la proprietà privata e la sua trasmissione di padre in figlio, quella proprietà che in molti casi è stata conquistata con la forza e che ora diviene un diritto di famiglia, tutelato dal re. I criteri di giustizia espressi nel Codice si ispirano prevalentemente alla legge del taglione, che ritroveremo nella legge mosaica, ma prevedono anche la riparazione in beni o in denaro, con pene che variano a seconda del reato e del rango sociale della persona che ha commesso o ha subìto il reato stesso. Così, per esempio, un uomo libero, che abbia rotto i denti ad un altro uomo libero, perderà i suoi; mentre, se la vittima è un subalterno, il reo gli risarcirà il danno in denaro. Non dobbiamo dimenticare che nell’immaginario popolare dei babilonesi al tempo di Hammurabi, questo sistema morale proviene da un dio e, dunque, rappresenta il massimo livello di giustizia concepibile. In pratica, il sovrano non deve fare altro che ergersi a paladino supremo e ultimo garante di una volontà superiore, che proviene, per l’appunto, dal mondo divino.
Ora, qualcuno potrebbe chiedersi perché Hammurabi avverta l’esigenza di rappresentare, in modo così spettacolare, il suo ruolo di giudice supremo. Per rispondere a questa domanda dobbiamo partire dal fatto che ci troviamo al termine di un lungo periodo di sanguinose guerre, che ha visto contrapposte le più potenti città mesopotamiche e a cui il grande sovrano ha posto fine. Ebbene, in questo clima è comprensibile che, dopo aver provveduto, com’è consuetudine, a dividere i territori conquistati e gli schiavi fra le famiglie che lo hanno appoggiato, Hammurabi voglia costruire la pace, ed è in quest’ottica che va valutata la sua decisione di far scolpire il Codice sulla stele e renderlo pubblico. Quella stele non è un mero supporto finalizzato ad ospitare in forma grafica le volontà di un dio, che pochi sono in grado di leggere, ma è soprattutto un simbolo scenografico con funzione di propaganda politica. Attraverso quella stele, il re rivolge a tutti i sudditi e ai potenziali nemici un messaggio forte e chiaro, del tipo: «qui comando io», «la mia volontà è legge», «la mia legge viene dal dio».
Insomma, dopo aver imposto la sua autorità con la forza delle armi, ora il sovrano si atteggia a paladino della giustizia, come risulta dal prologo del Codice stesso: “Anu ed Enlil nominarono me, Hammurabi, principe umile e devoto, perché facessi rispettare il diritto nel paese, togliessi di mezzo il violento ed il cattivo, in modo che il forte non opprimesse il debole”. Questo schema si ripeterà più volte nel corso della storia e diventerà una prassi abituale: dopo che le armi hanno indicato chi deve comandare, costui annuncia che governerà secondo giustizia! In ultima analisi, dunque, la stele simboleggia la consacrazione e la legittimazione del potere di Hammurabi per volere del dio.

II.4.2. Il dopo-Hammurabi
I successori di Hammurabi non riescono a conservare i confini territoriali dell’impero e forse devono anche far fronte a importanti crisi economiche interne, ma nondimeno Babilonia conserva il suo status di potenza leader e si conferma “come unico e legittimo centro politico del paese” (Jursa 2007: 25), almeno fino al 1595, quando il re ittita Mursilis la saccheggia. Da quel momento, Babilonia non ha più la forza di riprendersi e, pochi anni dopo, viene conquistata dai cassiti (1590-1157), che vi insediano una propria dinastia.
Nello stesso periodo, nel nord della Mesopotamia alcuni principati hurriti si uniscono e fondano il regno di Mitanni, il quale, grazie anche all’uso di carri da guerra, sottrae agli ittiti gran parte della Siria, imponendosi così come una potenza di prima grandezza.
Dopo ripetuti scontri con gli elamiti a est e con gli hurriti e gli assiri a nord, alla fine Babilonia viene espugnata da questi ultimi, i quali, con l’occasione, si appropriano delle importanti opere letterarie babilonesi, da cui attingeranno ampiamente. Dopo un trentennio di dominazione, gli assiri vengono cacciati, ma Babilonia viene nuovamente sottomessa dagli elamiti (1155). È in questo periodo che fanno il proprio ingresso nella storia della Mesopotamia le popolazioni seminomadi dei caldei , che, fino alla metà dell’VIII secolo, domineranno la scena politica (insieme agli aramei). Caldei e aramei sono organizzati in tribù e principati, a fronte di un potere centrale inconsistente. Ebbene, allorché un principe caldeo, Nabucodonosor I (1125-1104), riesce a cacciare gli elamiti, Babilonia riprende il suo posto al centro dell’universo e lo conserverà anche quando, morto Nabucodonosor, la storia della città procederà all’insegna dell’instabilità.
Questo quadro cambia con l’intrapresa di una politica espansionistica da parte dell’Assiria, che, con Sennacherib, conquista Babilonia (689), distruggendone i templi e portando via la statua di Marduk. Ora, il fatto che il re assiro muore per mano dei suoi figli pochi anni dopo (681) viene visto da molti come il segno di una maledizione, per avere egli profanato una città che era considerata da molti un mito vivente. Forse anche per questo i successori di Sennacherib decidono di ricostruire la città coi suoi templi e restituiscono la statua di Marduk.

II.4.3. La società
La società babilonese è fortemente gerarchizzata: al vertice sta il re e i dignitari della corte, seguono i sacerdoti e i funzionari, quindi le tre classi giuridiche dei cittadini, dei liberi e dei subalterni, e infine i servi. Il regno è diviso in province ciascuna delle quali è governata da un prefetto, o sindaco, o governatore. A partire dal periodo cassita, la società babilonese assume un ordinamento di tipo feudale, che ruota attorno alla figura del re, il quale “accentra ed unifica nella sua persona tutti gli elementi del potere, tutti gli aspetti della sovranità” (Charpin 2005: 206). Il re fissa le norme del diritto e amministra la giustizia, ma soprattutto decide la pace e la guerra.
La vita economica babilonese poggia sull’agricoltura. Molto sviluppati sono anche l’artigianato e il commercio, quest’ultimo reso necessario dalla mancanza di materie prime. I templi, oltre che luoghi di culto, sono anche centri di potere economico, in quanto possiedono immensi latifondi e rappresentano, essi stessi, centri di scuole e di cultura. Particolarmente ricca è la produzione letteraria, che comprende testi a contenuto amministrativo (compravendite, prestiti, matrimoni), lessico-grammaticale per la formazione degli scribi, geografico, matematico, astronomico, medico, religioso e storico (liste reali, resoconti di campagne militari, annali, cronache).

II.4.4. La religione
I babilonesi venerano le divinità più per timore che per vera fede. La loro religiosità origina dalla consapevolezza che gli dèi possono influire pesantemente nelle vite degli uomini. “Da ciò il timore di offendere la divinità o di suscitare il risentimento di qualche dio sconosciuto” (Camera, Fabietti 1983: 76). In pratica, ogni babilonese ha il proprio dio personale, da cui si aspetta che interceda per lui presso le altre divinità e lo difenda dalle schiere di demoni e di spiriti maligni di cui l’universo è popolato. A tale scopo il fedele offre preghiere e sacrifici, indossa amuleti, recita formule magiche e compie atti di scongiuro. Inoltre cerca di captare gli umori degli dèi e degli spiriti servendosi di tecniche divinatorie, che costituiscono “uno degli elementi fondamentali della vita babilonese” (Oates 1984: 249).
I babilonesi amano stare coi piedi ben piantati per terra e saldamente ancorati a questo mondo dal quale cercano di trarre il maggior numero di vantaggi coi mezzi che possiedono. Rifuggono perciò da concezioni metafisiche elaborate, come quelle relative all’immortalità dell’anima, e non sono propensi a credere in una vita beata dopo la morte. “La sorte dell’uomo nell’aldilà, non diversamente da quanto pensarono gli antichi ebrei, i greci e i romani, è assai triste, perché i morti vivono nelle tenebre e nell’assenza delle delizie e dei conforti di cui godevano in vita […]. I morti ricevono o attendono il conforto dei vivi (i parenti) attraverso le offerte funerarie e si rendono minacciosi verso di essi se ne sono privati” (Gagni 1987).

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