lunedì 12 luglio 2010

III.7.9. Lo Stato d’Israele: tra democrazia e antidemocrazia

Ci sono elementi nella cultura ebraica, che possono essere ricondotti ad una mentalità di tipo democratico. Uno di questi consiste nella consapevolezza che l’uomo è stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza ed è figlio suo, il che vuol dire che tutti gli uomini sono fratelli e devono rapportarsi fra loro in condizioni paritarie. Un altro elemento di democrazia è l’idea che la terra appartiene a Dio, che ne è signore e creatore, da cui discende l’inconcepibilità della proprietà patrimoniale trasmissibile ereditariamente di generazione in generazione, l’unica proprietà privata legittima essendo quella che Dio-Padre dà a ciascuno dei suoi figli. Secondo questa cultura, è improponibile che un uomo possieda un latifondo, mentre altri suoi fratelli siano nullatenenti: se la terra è di Dio-Padre, a ciascuno dei suoi figli spetta la sua parte.
Accanto a questi elementi pro-democrazia ce ne sono altri che vanno in direzione antidemocratica. Abbiamo notato che il venti per cento della popolazione d’Israele è composta da arabi. Ebbene, che ne sarà di loro? Si integreranno pienamente con la maggioranza ebraica, dunque, rinunciando alla propria fede religiosa e alla propria identità nazionale? Oppure resteranno cittadini di serie B? E che ne sarà degli ebrei? Rinunceranno essi alla propria fede religiosa e alla propria identità nazionale per integrarsi con la minoranza araba? Oppure si comporteranno come cittadini di serie A? Esiste, dunque, “un conflitto di interessi tra l’essenza ebraica e l’essenza democratica dello stato” (Della Pergola 2007: 237). Allo stato attuale, lo scenario più probabile sembra quello di “uno Stato sionista, fondato sull’esclusione dei palestinesi e lo sciovinismo ebraico” (Weinstock 2006: II, 46), uno Stato che non sia disposto a riconoscere la parità dei diritti al non-ebreo e, dunque, non democratico.
Un secondo elemento che si muove in direzione antidemocratica riguarda la componente religiosa della popolazione ebraica. Finora i fatti dimostrano è che questa minoranza religiosa tiene in pugno l’intero paese e che il sionismo difficilmente potrebbe resistere senza il supporto della religione: “Proviamo a sopprimere il concetto di «popolo eletto» e di «terra promessa» e vedremo che le fondamenta del sionismo crollano” (Weinstock 2006: II, 37). “Non soltanto non v’è separazione tra lo Stato e la sinagoga, ma lo Stato è subordinato alla religione” (Weinstock 2006: II, 38). Ora, difficilmente uno Stato confessionale può essere veramente democratico. “Soltanto i turisti sprovveduti e l’opinione pubblica occidentale meno informata, ormai, hanno un’immagine di Israele come di uno Stato moderno e degno di ammirazione” (Moncada 2009: 89). D’accordo, probabilmente oggi la maggioranza degli ebrei non interpreta più la Promessa nel modo tradizionale e si sentirebbe paga se potesse vivere pacificamente in uno Stato tutto proprio, in modo laico e democratico, ma non ci sarebbe da sorprendersi se qualcuno continuasse a sognare la signoria del popolo eletto su tutte le altre nazioni. D’altra parte, che senso avrebbe la Promessa di Jahve, se poi gli ebrei devono vivere al pari degli altri? E se gli ebrei dovessero vivere come qualsiasi altro popolo, che senso avrebbe continuarsi a chiamare «ebrei»? Non sarebbe più appropriato chiamarsi «israeliani»? Ma, a questo punto, che ne sarebbe dell’ebraismo?
Almeno in linea teorica, si potrebbe immaginare l’eventualità che la minoranza ebraica devota abbandoni la propria fede religiosa e si laicizzi. Tuttavia, ove ciò dovesse accadere, in che senso si potrebbe parlare ancora di «ebrei» e di «ebraismo»? In altri termini, che cosa significherebbe essere ebreo una volta che si sia abbandonata la religione ebraica? Ne consegue che uno Stato israeliano democratico sarà possibile solo a condizione che non vi siano più ebrei!

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