martedì 13 luglio 2010

III.2.5. Davide

Intanto in Giuda si sta facendo notare un giovane pastore di Betlemme, della tribù di Giuda, di nome Davide (1000-960), che possiede le doti naturali del leader. È “povero, un uomo da niente” (1Sam 18,23), ma ha un gradevole aspetto (1Sam 16,12) e un carattere forte e deciso, sa quello che vuole e niente può fermarlo. Da giovincello contende le prede a leoni e orsi (1Sam 17,34-35) e, ancora giovane, non esita a sfidare a duello un guerriero più esperto e meglio armato di lui (1Sam 17,32), lo abbatte e gli mozza la testa (1Sam 17, 50-51). Sa anche suonare la cetra e parlare con saggezza (1Sam 16, 18). È opportunista, diplomatico, astuto, paziente, lungimirante, fiero, ostinato, generoso e soprattutto ambizioso. Non ci sorprende perciò se, sentendosi sprecato dietro alle pecore, egli decida di imbroccare una strada più consona alla sua personalità, e così, dopo aver convinto altri compagni a seguirlo, si dà alla macchia e vive di razzie e saccheggi.
Tra le attività lucrative in cui s’impegna Davide, c’è quella di offrire protezione a contadini e a pastori in cambio di denaro o altri beni, minacciando di morte quanti si rifiutino di pagare. Ma qualcuno non ci sta: è il caso del ricco allevatore Nabal. Contro di lui muove allora Davide con l’intenzione di ucciderlo insieme a tutti i maschi del suo gruppo. Venuto a sapere ciò Abigail, moglie di Nabal, dà ordine ai suoi servi di caricare alcuni asini di doni e con essi va incontro a Davide: scusandosi per il comportamento del marito, lo prega di accettare quei doni e di desistere dal suo proposito. Davide accetta e ringrazia quella donna per avergli evitato di compiere una strage, che sarebbe rimasta come un peso sulla sua coscienza e sarebbe stata anche una colpa di fronte a Dio (1Sam 25,34). L’attività di Davide è davvero lucrosa e attira molte altre persone, per lo più misere e reiette, che finiscono per diventare un piccolo esercito: “circa altre quattrocento persone oppresse, indebitate o scontente si rifugiarono presso di lui, e Davide si mise a capo di loro” (1Sam 22,2).
In questa prima fase, dunque, il pastore di Betlemme “si comporta come un capo-banda, che raccoglie sotto di sé membri del suo clan e sbandati” (Liverani 2003: 104). Ma la vita del bandito non è facile. Inviso a tutti coloro ai quali egli impone il pizzo, il bandito è visto come fumo negli occhi anche dai mercanti, che spesso sono vittime delle sue rapine, e, indirettamente, anche dai signori delle città, che vedono in lui un pericolo per la sicurezza nelle campagne. Come se ciò non bastasse, il bandito deve anche sostenere la competizione con altri banditi. Per tutte queste ragioni, solitamente il bandito se ne sta defilato in luoghi inospitali e impervi, pronto a defilarsi non appena si profili all’orizzonte un qualsiasi pericolo. Il capobanda poi rischia di pagare con la vita ogni errore, ogni fiasco, ogni passo falso, anche per mano di qualcuno dei suoi stessi uomini, desideroso di succedergli nel posto di comando. Quando le cose vanno bene, però, il capobanda è come un piccolo re e può perfino tentare azioni di conquista dirette, oppure mettersi al servizio di un grande condottiero e sperare in una lauta ricompensa territoriale. Come vedremo, Davide saprà percorrere tutte queste strade, a mano a mano che gli si presenteranno.
Saul, intanto, sta conducendo la sua difficile guerra contro i filistei e ha bisogno di uomini. Davide accetta di mettersi al suo servizio e sul campo di battaglia si comporta da valoroso, tanto da meritare la fiducia del re (1Sam 18,5), che gli dà in sposa la figlia Mical. Ma Davide non è uno che si accontenta, non sta seduto sugli allori e non cessa di tendere verso la gloria. Così decide autonomamente di attaccare una guarnigione filistea a Keila, cogliendo una vittoria (1Sam 23,5) che lo pone in buona luce agli occhi della sua gente (1Sam 18,6). La sua fama è tale che forse Davide sta già accarezzando l’idea di ascendere al trono regale. Da parte sua, Saul, subodorando quell’insidia, prima comincia a guardarlo con sospetto, poi lo fa cercare. Forse vuole solo chiedergli spiegazioni. Ma Davide, temendo il peggio, preferisce fuggire e non esita a passare dalla parte nemica, mettendosi al servizio di Achis, re della città filistea di Gat.
Intanto, la guerra tra ebrei e filistei prosegue. Achis non si fida di Davide e non lo impiega nel proprio esercito, ma si limita a distaccarlo a Siklag, come proprio vassallo, il che offre a Davide una duplice opportunità, ovvero gli risparmia di trovarsi di fronte al grave dilemma, se combattere contro la propria gente e rompere definitivamente i buoni rapporti con essa, o se inimicarsi il re di Gat e perdere il suo appoggio, e nello stesso tempo gli lascia aperte tutte le porte. Adesso Davide non è più un capobanda, costretto a muoversi nella clandestinità, ma un piccolo signore locale che può vivere alla luce del sole, anche se, in quanto alleato dei filistei, è considerato dagli ebrei alla stregua di un traditore.
Davide, però, non ci sta a perdere la stima della propria gente e si adopera per riconquistarla. Che cosa fa il signore di Siklag? Ritorna a fare quello che ha già fatto in passato, e cioè il capo-banda, ma con una differenza: per guadagnarsi la fiducia di Achis, gli fa credere di fare incursioni contro la tribù di Giuda, mentre invece attacca e depreda i ghesuriti, i ghirziti e gli amaleciti (1Sam 27,8) e, per accattivarsi le simpatie degli ebrei, dona loro parte del bottino (1Sam 30,26). Lo stratagemma funziona.
Intanto Nabal muore. Appresa la notizia, Davide manda a dire ad Abigail che vuole sposarla, e lei accetta (1Sam 25,42). È un bell’affare per entrambi: la ricca donna difende il patrimonio, unendosi all’uomo forte, il quale, a sua volta, rafforza la propria posizione economica. Non basta: servendosi unicamente delle proprie truppe personali, intorno all’anno 1000, Davide riesce anche ad occupare Gerusalemme, che era rimasta nelle mani dei Cananei e che, da questo momento, diviene per tutti la “città di Davide” (2Sam 5,7). Ce n’è abbastanza perché Davide possa effettivamente puntare al trono di Saul, e la fortuna continua ad assisterlo. Saul, infatti, commette un errore fatale: accetta lo scontro coi filistei in campo aperto e, rovinosamente sconfitto, per evitare di cadere nelle mani dei nemici, si toglie la vita. Gli succede Is-Baal, l’unico figlio sopravvissuto, che è di personalità debole. Ma intanto, ad Ebron, col beneplacito dei filistei, Davide viene proclamato re di Giuda. Tra Giuda e Israele si determina uno stato di tensione, che cessa con l’assassinio di Is-Baal. Ormai nessun ostacolo si frappone alla proclamazione di Davide re di Israele.
A differenza di Saul, Davide non difetta di qualità politiche e si mostra rispettoso del ruolo del sacerdote, evitando così di entrare in urto con lui. Decide, inoltre, di collocare l’Arca sotto un santuario mobile, cioè una tenda (2Sam 6,17), cosa che gli accattiva le simpatie di tutti coloro che continuano a rimanere fedeli allo spirito tribale. Ora è pronto per espandere il suo regno. A tale scopo impone la coscrizione obbligatoria, fa costruire armi e allestisce un numeroso esercito permanente, che organizza in modo assai efficiente e al quale affianca truppe mercenarie straniere. Con questa forza di uomini e di mezzi e approfittando di un periodo di debolezza degli imperi assiro ed egiziano, Davide può intraprendere una politica aggressiva, mirante all’accrescimento territoriale, e ciò è la prima volta che avviene nella storia d’Israele. I regni di Ammon, Moab e Edom sono conquistati, poi è la volta di Damasco. Al momento della sua massima espansione, il regno di Davide è grande coma la Sicilia e costituisce una delle maggiori potenze del Vicino Oriente. Questo grado di potenza, che gli ebrei non conosceranno più in seguito, spiega perché Davide sarà ricordato a lungo con nostalgia e si guarderà a lui come ad un modello di re perfetto e al suo regno come a qualcosa che si desidera ritorni.
Un giorno avviene che Davide nota una giovane e avvenente donna, di nome Betsabea, di cui si invaghisce. È la moglie di Uria, un suo soldato. Adesso egli è un re potente e può permettersi di farla portare a corte e di giacere con lei (2Sam 11,4). Quando viene a sapere che la donna è incinta, fa in modo di mandare il marito “in prima linea, dove la mischia è più violenta” (2Sam 11,15). Così Uria viene ucciso e Davide sposa Betsabea (2Sam 11,27). Quest’episodio, che lo scrittore sacro diligentemente riporta, serva a farci capire come il potere assoggetti degli uomini alla volontà di altri uomini, deprivandoli di ciò che, più di ogni altra cosa, li rende umani: la libertà.
Grazie ai ricchi bottini derivati dalle azioni di conquista, Davide può avviare l’organizzazione politica e mili¬tare al suo paese, allestire una struttura amministrativa e costruire una corte capace di ospitare il suo harem, i suoi numerosi figli e un certo numero di funzionari e scribi, oltre a 37 guerrieri (2Sam 23,39), che costituiscono la sua guardia d’onore. All’interno del palazzo si determinano le condizioni favorevoli alla redazione dei primi documenti scritti, che, di norma, nelle fasi iniziali, sono solo di natura contabile-amministrativa. Tuttavia, per quanto ne so, non è provata l’esistenza di tali documenti ai tempi di Davide.
Esauritasi la spinta espansionista, iniziano per Davide gli oneri del governo. In particolare, si rende necessaria una metodica imposizione fiscale, che finisce per suscitare un malcontento diffuso nella popolazione. Inoltre, la disciplina e la rigida organizzazione del regno davidico sono mal tollerate da gente abituata da secoli all’autonomia e alla libertà della vita tribale, e parte della popolazione continua a non gradire il nuovo governo. Così, il figlio Assalonne si ribella e Davide è costretto a fuggire: può tornare solo dopo che Assalonne viene ucciso. Poi è la volta di Seba, un beniaminita, che si lamenta per i presunti favoritismi di Davide nei confronti di Giuda. Seba trova largo seguito fra gli uomini di Israele, che sono pentiti di aver dato la corona a Davide e vogliono rendersi indipendenti: “non abbiamo niente da spartire con la famiglia di Davide […]! Gente d’Israele, torniamo alle nostre tende” (2Sam 20,1). Anche questa ribellione finisce con l’omicidio di Seba (2Sam 20,22). Queste rivolte si possono considerare emblematiche dello scontento della popolazione nei confronti di Davide e della monarchia.
Abbiamo osservato come Davide non abbia costruito un tempio al suo dio. “La tradizione vuole, e forse coglie nel segno, che egli abbia resistito alla tentazione di fabbricarsi un tempio nella sua acropoli, pensando che il dio che lo aveva protetto nella sua vita randagia e avventurosa non voleva abitare sotto un tetto fabbricato da uomini” (Levi Della Vida 1950: 339). In effetti, la mancata costruzione del tempio potrebbe apparire sorprendente se si pensa che una forma di ringraziamento pubblico e solenne (tale è il tempio) da parte del condottiero vittorioso è prassi consolidata da tempo nell’area siro-palestinese. In realtà, come osserva Paolo Merlo, i dati a nostra disposizione depongono per un regno assai più modesto di quello decantato nel racconto biblico (2009: 22), per di più costituito da pastori avvezzi al nomadismo e non ancora pronti alla vita stanziale. È dunque possibile che la mancata costruzione di un tempio sia da imputare al radicato ideale nomadico che anima gli ebrei e che li rende per così dire allergici alla vita statuale: il loro ideale è la tenda, non la casa, e ancor meno il tempio.
Anche se non c’è un tempio, il regno davidico viene comunque a sconvolgere la vecchia cultura tribale, che, come sappiamo, è paritaria. Ai tempi del nomadismo, infatti, non vi erano ricchi e poveri perché non vi era accumulazione di ricchezze. Al contrario, lo sviluppo commerciale e agricolo fatto registrare sotto la monarchia consente l’affermazione di una classe di ricchi commercianti e di grandi proprietari terrieri che, assieme ai funzionari e ai dignitari di corte, formano le classi sociali più elevate, a fronte di una massa popolare povera. Ora, gli israeliti non sono contrari solo alla costruzione del tempio, ma anche alla stratificazione sociale introdotta dalla monarchia e questo scontento sarà cavalcato dai sacerdoti, ma soprattutto dai profeti, i quali non si stancheranno di ricordare che il vero re degli ebrei è Jahve e che, pertanto, tutte le famiglie devono essere riconosciute su un piano di parità. In un ipotetico governo di Jahve la diseguaglianza sociale non trova alcuna giustificazione: essa è la nefanda conseguenza della monarchia. Ma per il momento questa corrente è minoritaria e la monarchia non si tocca.
Un altro problema per la monarchia è legato alla successione. Davide, infatti, si limita semplicemente ad accennare una sua preferenza per Salomone, ma non si preoccupa di formalizzare il passaggio di potere, e così anche un altro suo figlio, Adonia, aspira al trono.

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