martedì 13 luglio 2010

III.1.3. Terach

Uno di questi è Terach, padre di Abramo e capo di un numeroso clan. Benché sia un uomo attempato, egli conserva ancora il suo carattere volitivo e fermo, che in passato gli ha consentito di guidare con successo la sua gente. È merito suo se il clan ha potuto crescere e se oggi possiede greggi, argento e oro (Gn 13, 2). Terach, insomma, è un uomo ricco, è soddisfatto di sé e di quello che ha fatto e, inoltre, si sente responsabile della sorte del clan. Nella vita ha dovuto misurarsi con ogni tipo di difficoltà e non si è mai tirato indietro, ma adesso è convinto che davvero non c’è speranza. Che cosa lo induce ad assumere questo atteggiamento non è dato sapere. Probabilmente c’è qualche goccia che fa traboccare il vaso, un evento, come una grave carestia, un’epidemia, un’acuta tensione sociale o il profilarsi dell’ennesima guerra, oppure il semplice sentore di nuovi, imminenti pericoli, o forse si sente spinto da un irresistibile e misterioso richiamo verso un destino di gloria.
Terach tiene per sé i suoi sentimenti, osserva gli eventi e tace. In qualità di capo, sa che ogni importante decisione per il gruppo deve prima maturare nella sua testa e sente che qualcosa nella sua testa è cambiato. Ora, non conosciamo i pensieri che frullano nella testa di Terach, ma è possibile che essi si riferiscano a quanto lo stesso Terach potrebbe aver udito da un mercante, e cioè che l’unica regione della Fertile Mezzaluna nella quale è ancora possibile trovare un territorio libero in cui vivere in pace è la terra di Canaan. Certo, non sempre quello che dicono i mercanti di passaggio deve essere preso come oro colato, ma neppure è scontato che i mercanti raccontano solo bugie. Come tutti gli uomini del suo tempo, anche Terach pratica il politeismo (Gs 24, 2; 24, 14) e, come tutti, sa che nei momenti difficili è buona norma chiedere lumi al proprio dio tutelare, tanto più che quel dio in passato ha sempre svolto egregiamente il suo compito. Non si sa se Terach sia riuscito a parlare col suo dio o se abbia avuto un sogno o abbia colto un segno premonitore, fatto sta che, un bel giorno, egli decide di abbandonare la sua città ”per andare nella terra di Canaan” (Gn 11,31).
La cosa non ci deve sorprendere. Sappiamo, infatti, che, per tutto il II millennio, il nomadismo, il seminomadismo e gli spostamenti di popolazioni alla ricerca di posti migliori sono all’ordine del giorno. Un gruppo di qualche centinaio di uomini, se ben organizzato sotto la guida di un capo e usando la necessaria accortezza, non è allo sbaraglio, ma può muoversi con una certa sicurezza in territori sconosciuti, entrare in contatto con altri gruppi e stabilire con essi rapporti di vario tipo, tentare azioni di razzia, di incursione, di saccheggio o di conquista, oppure una fusione, un’alleanza, un’integrazione; può anche arruolarsi nell’esercito di qualche re e, se è particolarmente fortunato, può trovare un bel territorio libero, dove insediarsi in pianta stabile. Storie come quella di Terach sono, dunque, particolarmente frequenti e si contano a migliaia in tutta l’area del Vicino Oriente, ma la maggior parte di questi gruppi vengono dimenticati, o perché sterminati da qualche nemico, o perché integrati con altre popolazioni, o per infinite altre cause. Solo poche decine di capitribù sono così fortunati da entrare nella storia. Uno di questi sarà Abramo. Egli è già sposato, quindi adulto, quando decide di seguire il padre in quello che per lui è forse un viaggio della speranza.
Ignoriamo la data in cui Terach e i suoi uomini si mettono in cammino. Sappiamo solo che essa va collocata nel periodo compreso fra la caduta della III dinastia di Ur (2004) e la definitiva scomparsa di quella città (XVII sec.). In questo ampio arco di tempo, una data plausibile potrebbe corrispondere ai primi anni del regno di Hammurabi (inizi del XVIII sec.), quando la situazione politica della Mesopotamia è fra le più critiche.

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