lunedì 12 luglio 2010

III.5.3. Le sette e il loro significato

Nel primo secolo a.C., nella Giudea sono ben delineate alcune sette, su cui ora conviene fare un breve cenno.
I sadducei costituiscono un partito d’azione; sostengono la rivolta militare dei maccabei; sono favo¬revoli ad una organizzazione sociale forte, di tipo monarchico; non credono nell’immortalità dell’anima e nemmeno nella resurrezione dei morti, né si abbandona¬no a dottrine di tipo escatologico; sostengono la necessità di vivere secondo la legge scritta come mas¬simo ideale reli¬gioso; sono favorevoli al processo di ellenizzazione.
I farisei formano un partito, per molti versi, opposto a quello dei sadducei: contrari alla monarchia, contrari ad una politica d’azione, contrari anche alla sola legge scritta, i farisei si riconoscono in tutto quel processo di rie¬laborazione delle scritture che, iniziato all’epoca dell’esilio, è cul¬minato nella figura dello scriba o dottore della legge. I farisei, in definitiva, rappresentano il polo più moderno del pensiero religioso ebraico, pensiero che si è attestato su posizioni mes¬sianiche e in prospettiva escatologica. Essi, perciò, rimangono un gruppo chiuso e sostanzialmente indifferente alle vicende politiche e militari. Separati dal resto del mondo, i farisei attendono l’inizio di una nuova era che, a loro parere, dovrà originare dall’intervento diretto di Dio.
Gli esseni possono essere considerati dei farisei estre¬misti. A differenza di questi ultimi (che, pur sentendosi sepa¬rati dal mondo, in realtà vivono nel mondo), gli esseni deci¬dono di separarsi anche fisicamente dal mondo. Anche gli esseni, però, vivono in prospettiva escatologica e aspettano il «giorno del Signore», convinti che gli eletti avranno sol¬tanto una parte passiva nella costituzione del nuovo mondo. Gli esseni amano immagina¬re che il nuovo mondo sarà inaugurato dopo una grande bat¬taglia tra loro stessi, capitanati dal messia, da una parte, e i romani dall’altra, una battaglia dalla quale essi usciranno trionfanti e la potenza romana annientata. Il loro atteggia¬mento è dunque di paziente e pacifica attesa di quest’ultima, decisiva battaglia, a seguito della quale ritengono che essi soli si salveranno.
Gli zeloti, così chiamati per il loro zelo nei confronti della Legge, sono frange inclini all’esaltazione violenta. Appartengono agli strati più umili della popolazione, più vulnerabili dalle esazioni e, quindi, più insoddisfatti. Sono essi che alimentano i torbidi del I sec. d.C., che si muovono all’interno di concezioni messianiche. Lo storico Giuseppe Flavio, vissuto nel I sec. d.C., parla di numerosi episodi di messianismo armato, di pic¬cole rivolte capitanate da «profeti» o «messia» e istigate dagli zeloti, alcune delle quali raggiungono dimensioni ragguardevoli, come quelle che culminano nella distruzione di Gerusalemme e del tempio nel 70 e nel 132 d.C.. Così come gli esseni possono essere considerati l’ala estremista dei farisei, allo stesso modo gli zeloti si col¬locano nei confronti dei sadducei. Essi formano il partito d’azione per eccellenza, il partito della rivolta armata contro il nemico romano. Non che si aspettino “la riuscita della propria azione dalla forza delle armi, bensì da un intervento diretto di Dio che avrebbe ope¬rato un atto miracoloso” (Parente 1985b: 217). Insomma gli zeloti, come gli esseni e i farisei, confidano in Dio e si ritengono gli unici «eletti» ma, a differenza delle altre sette, credono che “Dio sarebbe concretamente intervenuto soltanto quando i fedeli stessi avessero intrapreso l’azione, e si fossero gettati con bruta¬lità, senza curarsi delle conseguenze ter¬rene e delle aspetta¬tive politiche, contro gli empi deten¬tori del potere, contro il potere pagano e senza Dio” (Parente 1985b: 217). I reiterati fallimenti di queste iniziative porterà al progres¬sivo abbandono dello zeloti¬smo, ma solo dopo la disfatta del 132 d.C..

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