martedì 13 luglio 2010

III.2.12. Giuda (716 – 587)

Se è vero che Israele cessa di esistere, è anche vero che Giuda entra nell’orbita dell’influenza assira ed è costretta a versare un tributo talmente rovinoso da prosciugare le casse dello Stato e i tesori del tempio (2Re 16,17-8). Si avvia così quel declino politico e sociale, ma anche morale del paese, che i profeti non indugiano a denunciare (Is 1,21; 3,16).
Alla morte di Acaz, il regno passa al figlio Ezechia (716-687), che migliora le opere di fortificazione e fa costruire grandi quantità di armi (2Cr 32,5). Non solo egli vuole liberarsi dal controllo dell’Assiria, ma spera anche di riannettere Israele. Con questi intenti stringe segreti accordi con l’Egitto, che sta attraversando un momento di ripresa, poi, approfittando del fatto che Sennacherib, appena succeduto al padre Sargon (704), deve fronteggiare alcune rivolte all’interno del suo regno, rifiuta il tributo e si prepara a difendere la sua indipendenza. La propaganda politica si serve della fede nel Patto per riaccendere lo spirito nazionalista: non ha forse promesso Jahve a Davide un regno in eterno e il trionfo su tutti i suoi nemici (Sal 2,7-8; 72,8-11; 89,21-26; 132,11-18)? Solo nel 701 Sennacherib è pronto a guidare le sue truppe all’attacco di Giuda. Ezechia è costretto alla resa e ad un forte aumento del tributo. Ma in Assiria le rivolte interne riprendono e, nel 691, Sennacherib subisce una sconfitta.
Appoggiato dall’Egitto, Ezechia si ribella ancora una volta, e ancora una volta Sennacherib si presenta davanti alle mura di Gerusalemme e chiede la resa, ma poi è costretto a ritirarsi forse perché è colpito da un’epidemia (2 Re 19,35) o perché è richiamato in patria (2Re 19,7). Gerusalemme è fortunatamente salva e i giudei possono esultare e ringraziare Javhe. Questa volta è il profeta Michea che interpreta gli eventi: gli ebrei hanno sbagliato a riporre le proprie speranze sul valore degli uomini e nulla hanno guadagnato cercando l’appoggio del faraone; essi devono invece confidare soltanto in Jahve e meritarsi il suo aiuto, rimanendo a lui fedeli e realizzando condizioni di giustizia sociale (Mi 2,1-2; 3,11).
Ad Ezechia succede il figlio Manasse (687-642), che ritorna ad essere un docile vassallo dell’Assiria. Nel patto di vassallaggio, il popolo sottomesso giura di riconoscere come unico signore il re vittorioso, salvo il diritto di questo di controllare il rispetto del patto stesso e di punire a sua discrezione ogni trasgressione. La lotta per l’indipendenza è, dunque, fallita. La delusione è grande. Che senso ha, allora, la promessa di Jahve a Davide? In altri termini, ci si può fidare ancora di Javhe? La risposta viene da Primo-Isaia e Michea, che sono i profeti del momento. La società, essi dicono, è corrotta, non c’è giustizia, non c’è rispetto per i deboli e il degrado morale dilaga (Is 1,21; 3,14; 5,9; 10,2; Mic 2,2; 3,2-10). Ecco perché Jahve punisce il suo popolo. Gli assiri sono solo un suo strumento (Is 5,26). Ma non è finita, ammoniscono i profeti: Gerusalemme verrà ridotta in rovina (Is 6,11) e si salverà solo un “piccolo resto” (Is 10,21), grazie al quale il popolo di Dio risorgerà di nuovo (Is 6,13) e un discendente di Davide regnerà per sempre (Is 11,1; Mic 5,3). Questa spiegazione riesce a salvare lo jahvismo dallo sfacelo e a mantenere viva la speranza: nonostante tutto, alla fine, Giuda avrebbe trionfato.
Sotto il regno di Giosia (642-609), la Giudea attraversa un momento fortunato. Gli ultimi anni del lungo regno di Assurbanipal (668-31) vedono l’inizio di una ventennale guerra per la successione che finisce per indebolire l’Assiria. È un momento propizio per Giosia, che può contare sul sostegno del profeta Sofonia, il quale annuncia la nascita di un popolo nuovo e l’inveramento della Promessa (Sof 3,11-13). La Bibbia racconta che, nel diciottesimo anno del regno di Giosia, durante i lavori di rinnovamento del tempio ordinati dal re, un sacerdote trova nel tempio stesso, nascosto chissà in quale angolo, il “libro della Legge, che il Signore aveva dato a Mosè” (2Cr 34,14), vale a dire il Pentateuco, che evidentemente, fino a quel momento, era stato dimenticato e che adesso è rimesso in bell’evidenza. È l’inizio di una lunga stagione di riforme. Siamo intorno al 620. L’Assiria non è più in grado di controllare Giuda, che diventa di fatto un paese libero. Giosia può dunque riorganizzare l’apparato amministrativo e militare del suo regno, ma soprattutto può avviare una profonda riforma religiosa, che comprende il divieto culto delle divinità straniere (2Cr 34,33), il rinnovamento dell’alleanza con Dio e il giuramento solenne di rispettare la sua legge (2Re 23,3; 2 Cr 34,31-32).
La riforma di Giosia è inserita all’interno di un’accesa campagna propagandistica finalizzata a convincere la popolazione che sono ormai maturi i tempi perché Jahve mantenga la sua promessa. È un momento magico per Giuda, che sembra aver trovato in Giosia l’uomo da tanto tempo atteso e grazie al quale avrebbe potuto finalmente giungere a compimento la storia della Promessa iniziata con Abramo e proseguita con Mosè e Davide. Non per niente Finkelstein e Silberman vedono in Giosia “l’ideale verso il quale sembra tendere tutta la storia d’Israele” (2002: 289).
Nel 612 l’Assiria cade sotto l’attacco congiunto di medi e babilonesi e Naum riconduce l’evento all’azione divina, notando come tutti i popoli della terra siano in realtà sotto la signoria di Jahve (Na 1,12): è un inno indiretto al monoteismo universale. Da parte sua, Abacuc preannuncia l’ascesa della potenza babilonese come risultato di un preciso disegno divino (Ab 1,6). Ad ogni modo, dal momento che i medi non appaiono interessati all’occidente, la Palestina rimane una regione contesa da Egitto e Babilonia. Nel 609, nel tentativo di fermare (non si sa bene per quale ragione) un’armata egiziana, che si muove contro i babilonesi, Giosia trova la morte in battaglia a Megiddo. Lo sconforto degli ebrei dev’essere enorme, perché in quel re essi avevano riposto molte speranze, che non si dissolvono in un momento.
A Giosia succede il figlio Yeoakaz (609), che appena dopo tre mesi viene deposto dal faraone e deportato in Egitto. Sale dunque al trono suo fratello Yoaqim (609-598), che regna come vassallo egiziano. Geremia, che aveva iniziato il suo ufficio verso gli ultimi anni del regno di Giosia, annuncia che il castigo divino è ormai divenuto inevitabile a causa della perseveranza nell’errore da parte del popolo (Ger 5,14-15) e la punizione consisterà nella distruzione del tempio (Ger 7,14) e nella deportazione degli ebrei in Babilonia (Ger 25,8-9).
Nel 603 il re babilonese Nabucodonosor avanza nella piana filistea, conquista Ascalona e sconfigge un esercito egiziano. Yoaqim non può fare di meglio che divenire vassallo di Babilonia (2Re 24,1), ma dopo tre anni si ribella. In quel momento Nabucodonosor è impegnato altrove e si muove solo dopo due anni. Nella speranza di ottenere un trattamento più clemente, i giudei uccidono Yoaqim, ritenuto responsabile della situazione, gettano il corpo fuori dalle mura di Gerusalemme e lo seppelliscono come una bestia (Ger 22,19). Gli succede il figlio Yoakin (598-7), che tenta una ribellione, ma dopo tre mesi deve arrendersi e viene deportato in Babilonia, insieme alla sua famiglia e ad alcuni notabili e valenti artigiani (2Re 24,14-15): viene trattato con riguardo, come si conviene ad una persona di rango, e gli viene concesso di mantenere il titolo di «re di Giuda».
Nabucodonosor insedia allora sul trono il suo vassallo Sedecia (597-87), i cui funzionari interpretano la deportazione dei loro predecessori come una precisa mossa divina, il cui scopo è quello di liberarsi di gente indegna e di sostituirla con il «resto» di Giuda, ossia essi stessi (Ez 11,14; 33,24). Ritenendosi i veri depositari della Promessa, costoro cominciano ad eccitarsi all’idea di ciò che li aspetta. Nel 589 questa eccitazione si tramuta in ribellione aperta antibabilonese e Sedecia rompe il patto di vassallaggio. Geremia si dichiara contrario a quella ribellione e preannuncia la caduta di Giuda ad opera dei babilonesi e per volere di Jahve (Ger 21,7), ma, sospettato di complicità col nemico, viene imprigionato e sarà Nabucodonosor, dopo aver espugnato Gerusalemme, a liberarlo e proteggerlo da possibili ritorsioni (Ger 39,11-4).
Dopo due anni di assedio, i babilonesi entrano nella città di Davide e ne distruggono il tempio (587). Sedecia cerca di fuggire, ma viene catturato, costretto ad assistere all’esecuzione dei suoi figli e poi accecato. Trasportato in catene a Babilonia morirà poco dopo. Giuda diviene ora una provincia babilonese e il suo primo governatore, un nobile ebreo di nome Godolia, per il fatto di essere amico di Babilonia, viene assassinato in una congiura. Per paura di una punizione babilonese, i congiurati fuggono rifugiandosi in Egitto con grosso seguito di popolo (2Re 25,26; Ger 43,7). In questo frangente a Babilonia vengono deportati diecimila membri dell’aristocrazia e della classe sacerdotale, tutti i maniscalchi e tutti i fabbri. Inizia l’esilio.

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