martedì 13 luglio 2010

I.2. I presupposti del libro

Il pensiero espresso nel presente libro ha per sfondo e per cornice le seguenti verità, di cui mi sono occupato altrove, ma che in questa sede assumo come se fossero certe e incontrovertibili:
1. Ogni persona è dotata di mezzi per soddisfare i propri bisogni e conseguire la propria felicità su questa terra. Chiamerò questa caratteristica umana «volontà di potenza».
2. Non tutte le persone attuano la volontà di potenza allo stesso modo.
3. Lo Stato è vantaggioso per i clan più potenti.
4. La religione serve ad unire molti clan e tribù in un unico Stato.
5. La guerra serve a fondare lo Stato e a difenderlo.
Nelle pagine che seguono proverò a spiegare un po’ meglio ciascuno di questi punti, che potranno essere d’aiuto al lettore per comprendere il contenuto di questo libro.

A) Un aspetto della natura umana: la volontà di potenza
Ogni individuo, senza eccezione alcuna, ha dei bisogni da soddisfare, ma sono pochi i bisogni che possono essere soddisfatti in modo semplice, diretto e immediato dalla stessa persona che ne è portatrice, come raccogliere cibo con le proprie mani o bere acqua da una sorgente. Nella stragrande maggioranza dei casi i bisogni possono essere soddisfatti solo a livello sociale. Ciò avviene, ad esempio, quando l’oggetto del desiderio richieda l’azione congiunta di più persone (ad esempio, abbattere un animale di grossa taglia), oppure si collochi al di là delle possibilità di una singola persona (ad esempio, arginare le acque di un fiume), oppure sia troppo generico per essere conseguito a livello esclusivamente individuale (ad esempio, la voglia di essere felice), oppure implichi il coinvolgimento razionale e/o emotivo di altre ben determinate persone (ad esempio, trovare un partner), e via dicendo. In tutti questi casi il soggetto dovrà ricorrere ad una qualche strategia psicosociale, come la costituzione di un gruppo esteso e solidale, nel caso voglia costruire un argine sulle sponde del fiume, oppure praticare i riti della magia o della religione, nel caso voglia vincere le forze del male ed esaudire i propri desideri, oppure ricorrere all’arte della seduzione, nel caso voglia conquistare un partner, e via dicendo.
Ora, in linea di massima, ogni persona è naturalmente dotata dei mezzi necessari per soddisfare i propri bisogni, sia quelli esaudibili per via diretta sia quelli esaudibili per via sociale. Le scienze psicosociali usano espressioni del tipo «affermazione del sé» o «volontà di potenza», semplicemente per dire che i nostri atti “sono governati da scopi” (Russell 1976: 33) e che dobbiamo mettere in atto “una serie progressiva di sforzi per risolvere problemi” (Cohen 1981: 46) e superare gli ostacoli che si frappongono fra noi e i nostri obiettivi. Ebbene, l’affermazione del sé e la volontà di potenza esprimono l’inclinazione dell’individuo a soddisfare i propri bisogni e a vivere meglio che può, avvalendosi, a tal fine, di tutti i mezzi di cui è naturalmente dotato, come l’intelligenza, la forza fisica e la cooperazione a livello parentale, ovvero di tutto il proprio armamentario biologico. A livello biologico, tuttavia, la cooperazione è limitata alla cerchia parentale, mentre nei confronti degli estranei prevalgono nettamente i rapporti di forza.
Ad un certo punto, però, l’uomo capisce che non può ottenere tutto con i mezzi naturali e, a questo punto, egli ha escogita dei mezzi «culturali», come la cooperazione sociale estesa e il diritto: la prima è favorita dalla fede nello stesso dio e nella comunanza di interessi, ma ha il difetto di non essere sufficientemente stabile; il diritto è più stabile, ma richiede l’esistenza di uno Stato ben organizzato. Il fatto è che, generalmente, il diritto riflette la volontà del più forte (della classe dominante, dei più ricchi, del maggior numero, ecc.), In effetti, un diritto perfettamente equo e giusto non è mai esistito e forse non è nemmeno umanamente possibile. Ne consegue che nessun diritto potrà mai essere accettato da tutti, ed è per questo che esso può essere applicato solo a condizione di sostenerlo con un adeguato apparato di forza armata. In realtà, a ben vedere, il diritto continua ad essere usato con la stessa logica della forza bruta e le ragioni della sua fortuna vanno ricercate nel fatto che, rispetto alla forza bruta, esso consente il conseguimento di scopi in modo apparentemente pacifico e senza spargimento di sangue.

B) L’uomo maturo/immaturo e la questione dell’autonomia morale
Tutti gli uomini sviluppano una qualche volontà di potenza, ma non tutti lo fanno allo stesso modo. Abbiamo detto che gli uomini sono sostanzialmente uguali (cf. cap. I.2.). Ora dobbiamo precisare che «uguali» non significa «identici». Nella realtà nessun individuo è la perfetta copia di un altro, ma ciascuno presenta elementi di diversità (a livello fisico e mentale, nell’intelligenza e nella volontà), ciascuno ha un proprio modo di rapportarsi con se stesso e con la società. Alla fine, possiamo distinguere le persone in due categorie: persone autonome nel giudizio morale o mature e persone dipendenti da altri o immature.
La natura ha voluto che l’uomo abbia un’infanzia particolarmente lunga, il che gli consente di pervenire all’età adulta con la maturità sufficiente ad elaborare autonomamente i contenuti e i modi della propria libertà e della propria felicità. L’autonomia morale rappresenta lo spartiacque fra infanzia ed età adulta, ma non tutti la conseguono, per la semplice ragione che essa richiede un uso intensivo del proprio cervello e non tutti dispongono della volontà necessaria a tale scopo. Nella realtà avviene che solo poche persone fanno lavorare a pieno regime la propria materia grigia, mentre la maggior parte si comporta pigramente e preferisce ragionare con la testa di qualche leader. Ebbene, solo chi consegua l’autonomia morale merita di essere ritenuto una persona matura.
L’uomo maturo si distingue perché esibisce un atteggiamento attivo piuttosto che passivo, tende a risolvere i problemi da sé piuttosto che aspettare che li risolvano altri, costruisce autonomamente i propri valori e li interpreta in modo coerente, sa guardare ai problemi della vita con distacco e serenità, rispetta i propri simili, sa controllare le proprie emozioni, ha fiducia in sé e non esita ad usare la propria testa anche a costo di sbagliare, convinto com’è che è meglio sbagliare con la propria testa che con quella di altri.
L’uomo immaturo ha scarsa fiducia in sé e non sopporta il peso del dubbio né il rischio di sbagliare, non tollera l’incertezza e rifiuta di usare la propria ragione, mentre è disposto ad accettare per fede pseudoverità preconfezionate da altri, che gli danno un senso di serenità e di pace, piuttosto che crearsi verità proprie, che, essendo gravate dal dubbio, gli inducono un senso di insicurezza insostenibile. Di ciò spesso abitualmente approfittano le classi dominanti per esercitare indisturbate il loro potere sulle masse. È così che si diffonde il gregarismo emotivo e irrazionale e si affermano i governi autoritari.

“La diffusione dello spirito gregario nelle moderne società di massa trae origine dal tentativo di superare artificialmente un’angoscia esistenziale. E questo tentativo artificioso, per produrre qualche effetto, implica una rinunzia più o meno grande a informarsi, controllare, sapere. Ogni energia viene infatti rivolta a consolidare la fede, non a metterla in dubbio. È difficile, per fare un esempio banale, che un gregario acquisti il giornale del partito avverso, perché di solito egli respinge pregiudizialmente la critica. Ed è difficile che abbia amici nel campo avverso. L’uomo in cerca di rassicurazione sceglie quasi tutti gli amici nel suo stesso partito, perché soffre acerbamente ogniqualvolta il suo partito, la sua ideologia, il suo capo, vengono disapprovati o, peggio ancora, ridicolizzati […]. L’uomo delle società di massa sacrifica troppo spesso l’autonomia e lo spirito critico per ottenere in cambio false certezze” (Hinde 1981: 144-5).


Non sempre le masse oppresse se ne rimangono indifferenti o passive, ma talvolta si lasciano sobillare da qualche capopopolo e reclamano tumultuosamente dei loro diritti. Ebbene, negli ultimi cinquemila anni, ovvero da quando si è affermato lo Stato come persona giuridica e come soggetto politico indipendente, la storia dell’uomo è segnata da periodiche sollevazioni di masse, contro le quali si sono levate le classi dominanti in nome della ragion di Stato. Ma le masse qualche significativo passo avanti sono riuscite a farlo, sicché, col passare del tempo, l’eterodirezione imposta in nome della ragion di Stato ha dovuto cedere spazio alla crescente domanda di autodirezione da parte degli individui. Il risultato di questo processo è che oggi il conseguimento dell’autonomia personale viene salutato non più come un peccato di superbia e nemmeno come male assoluto, ma come un fausto segno di maturità personale. E, infatti, come osserva Nash, la nostra epoca è contrassegnata dal rifiuto dell’autorità costituita e dalla tendenza a farci guidare “da regole per cui ogni persona diviene l’autorità di se stessa” (1975: 443). Evidentemente abbiamo imparato ad esorcizzare la paura del dubbio e a confidare in noi stessi.
Oggi siamo soliti distinguere uno Stato autoritario da uno democratico sulla base che il primo favorisce la formazione di uomini-massa, il secondo la formazione di uomini liberi, e crediamo che il secondo sia preferibile al primo: esattamente il contrario di quanto si credeva nell’Antico Egitto e nell’Antico Israele. Oggi le persone amano sentirsi libere e responsabili ed è sempre più sentita l’esigenza di una società nuova, in cui ci sia meno ragion di Stato e maggiore libertà delle persone, una nuova società in cui ci sia consapevolezza che, solo attraverso la “realizzazione di se stessi, senza l’intermediazione di mitici capi o di mitiche ideologie, è possibile aiutare gli altri” (Melograni 1977: 125).
Questa presa di coscienza da parte delle persone ha importanti riflessi soprattutto sul piano morale. “La morale, finora, è stata presentata sotto forma di comandamenti, prescrizioni, proibizioni […]. Sempre, comunque, qualcosa che gli altri ci impongono di fare, un limite alla nostra libertà e una costrizione dei nostri impulsi, dei nostri sentimenti e della nostra spontaneità. Questa immagine della morale è destinata a tramontare” (Alberoni, Veca 1988: 97). Ebbene, a mano a mano che va crescendo il numero delle persone autonome, libere, responsabili e capaci di elaborare un proprio codice morale, si va riducendo la domanda di governi autoritari e di sistemi morali esterni, mentre, di pari passo, va crescendo la domanda di democrazia.

C) La funzione dello Stato
Nello stato di natura l’individuo è sovrano, ma costantemente insicuro per la propria vita. Il gruppo esteso, invece, avvantaggia le famiglie e le persone offrendosi ai loro occhi come un formidabile strumento cui ricorrere nei momenti di crisi (il gruppo può prendersi cura di una famiglia in difficoltà), ma anche come forza di offesa (un singolo individuo o una famiglia possono servirsi della forza del gruppo per sopraffare altri gruppi e perseguire una politica di potenza). Da qui la tendenza universale a costituire gruppi sempre più estesi e più forti, finché si giunge allo Stato per volontà dei clan dominanti, che si uniscono fra loro per tutelare sempre meglio i propri interessi.

D) La funzione della magia e della religione
L’uomo prova un senso di disagio quando si trovi di fronte a qualcosa che non comprende o quando versi in condizioni di insicurezza, e non esiterà a ricorrere a qualsiasi espediente atto a farlo sentire padrone della situazione e sicuro nella propria persona e nei propri averi. In altri termini, quando ci troviamo in difficoltà persistenti che non riusciamo a controllare pienamente, tendiamo a costruire con l’immaginazione qualcosa che ci aiuti a ritrovare la pace e la gioia di vivere. “Incapaci di dare un senso alla realtà, ci creiamo una realtà alternativa e illusoria che la sostituisca e nella quale siano dati come risolti i problemi insoluti” (Tullio-Altan 1983: 195).
In genere esigiamo che gli espedienti elaborati dalla nostra immaginazione abbiano un effetto immediato, ma siamo anche disposti ad accettare un effetto differito in un tempo futuro. “L’uomo può scegliere la migliore alternativa nel complesso perché è capace di passare in rassegna tutte le alternative, tutti i futuri possibili” (Elster 1983: 56). La prefigurazione del futuro rende accettabile una sofferenza nel presente: «perdere oggi per guadagnare domani» è una strategia tipicamente umana. A differenza della maggior parte degli animali, che procedono risoluti verso l’obiettivo, l’uomo è l’unico (o quasi) essere capace di fare “un passo indietro per poter fare due passi avanti” (Elster 1983: 48), l’unico essere capace di indietreggiare davanti al traguardo per raggiungere situazioni più favorevoli in un secondo tempo e puntare alla «massimizzazione globale». Ebbene, tra i numerosi espedienti concepiti dall’immaginazione umana al fine di controllare il futuro, due spiccano su tutti gli altri: la magia e la religione. La prima è più primitiva e più adatta a gente più semplice, la seconda è più moderna e adatta anche a persone istruite, ma la sostanza è la stessa. Anche la religione “risponde al bisogno di sicurezza dell’uomo di fronte a un universo incontrollabile” (Mair 1980: 223).
Abbiamo detto che magia e religione aiutano l’uomo tanto nel presente quanto in prospettiva futura. Ora, prendiamo il caso delle numerose popolazioni tribali che affollano la Fertile Mezzaluna nell’Età dei Metalli, il cui grado di competizione è tale che solo le tribù capaci di unirsi fino a formare un grande popolo hanno significative probabilità di sopravvivere. La cosa però è resa difficile dal fatto che ciascuna tribù ha alla spalle una storia millenaria vissuta all’insegna dell’indipendenza e nessuna è disposta ad abbandonare i costumi dei loro padri, a meno che non ci sia un santone che parla con un dio e opera prodigi. Ora, se questo santone annuncia che il suo dio intende guidare alcune tribù verso un futuro radioso, a condizione che si uniscano sotto un unico capo, non è escluso che i capifamiglia prestino fede alle sue parole. Alla fine, la fede nello stesso dio avrà unito più tribù in un solo popolo, e non importa se il santone abbia detto la verità: quel che conta è che la gente creda che ciò che afferma il santone sia la verità.
Magia e religione prendono piede in tutti i casi in cui può risultare preferibile una verità piuttosto che la verità: ad esempio, allorché dei clan dominanti vogliano mettersi a capo di molte tribù per poter avere ragione di un nemico altrimenti troppo potente oppure vogliano fondare una città allo scopo di controllare meglio un territorio o attuare una politica di espansione. In simili casi, l’adesione ad una verità, qualunque essa sia, può svolgere la funzione di unire i gruppi e renderli solidali, al contrario de la verità, che è praticamente impossibile da provare e divide le persone. Ciò dà conto del fatto che “Per la maggior parte delle persone, in tutti i tempi e in tutte le culture, è necessario avere delle conoscenze, anche se sbagliate, piuttosto che non averne affatto” (Beattie 1978: 288). Quando diciamo che è “meglio una spiegazione qualsiasi che nessuna spiegazione” (Nietzsche 1980: 5), diciamo semplicemente che una pseudoverità può avere l’effetto di rassicurare le persone e unirle, con tutti i vantaggi che ne conseguono.
In definitiva, magia e religione offrono certezze garantite da ogni forma di dubbio e risposte ai molti interrogativi spinosi della vita che altrimenti richiederebbero lunghe e gravose spremute di cervello, che talvolta non solo non conseguono risultati apprezzabili, ma finiscono anche col generare frustrazione e angoscia. Così concepite, magia e religione hanno un “sicuro valore terapeutico, poiché offrono all’uomo disorientato un prontuario di manovra che gli evita di riflettere, classifica le informazioni che lo raggiungono in un quadro prestabilito e per di più fa in modo che egli non senta le informazioni che non rientrano in questo quadro” (Laborit 1985: 59). Ma è soprattutto la religione che, con il suo contenuto dottrinale e con il suo pacchetto di verità pronti per l’uso, ha il potere di unire molti popoli diversi sotto una stessa bandiera, renderli docili e obbedienti alle autorità costituite e muoverli compatti verso obiettivi comuni con le migliori probabilità di successo.
La religione, tuttavia, non offre solo vantaggi, ma comporta anche dei rischi. Un primo rischio è quello di limitare la libertà delle persone e indurle a fare un uso limitato delle proprie facoltà critiche, con conseguente compressione del capitale umano. Un secondo rischio consiste in questo che, essendo le verità religiose indimostrabili, non c’è altro modo di imporle ai dissenzienti che con la forza. Un terzo rischio è che quando una religione non sia condivisa a livello universale, essa crea barriere culturali e determina i presupposti per possibili scontri armati fra i popoli.

E) La funzione della guerra
Nello Stato il suddito (o il cittadino) non deve più temere per la propria vita, ma deve rinunciare alla propria sovranità e ad ogni velleità di provvedere autarchicamente ai propri bisogni. Il problema è che non c’è altro modo di appianare le contese insanabili se non la guerra. Ebbene, gli Stati si servono della guerra non solo per far valere le proprie ragioni o a scopo difensivo, ma anche per procurarsi risorse a danno di altri. Ora, nessuna persona sarà disposta a rischiare la propria vita per niente e, di conseguenza, lo Stato dovrà o costringere ciascuno con la forza oppure offrirgli delle buone ragioni, ma poiché obbligare un suddito con la forza è molto dispendioso, alla fine, si preferisce convincerlo promettendogli un pezzo di terra o una parte del bottino. Ai tempi di Hammurabi, è costume che il sovrano conceda ai soldati l’usufrutto di una terra (ilkum) in cambio del loro servizio (Charpin 2005: 131). In caso di saccheggio, il bottino viene diviso secondo “regole rigide” (Charpin 2005: 141). È costume anche che una città assediata possa “comprare il ritiro dei nemici” (Charpin 2005: 141).
Ma la promessa di un premio potrebbe non bastare a giustificare una guerra di conquista, soprattutto se essa si prolunghi per anni. Perciò una guerra offensiva dovrà essere sostenuta anche da ragioni ideologiche. Solitamente esse sono di tre tipi: o si descrive il nemico come un soggetto malvagio e pericoloso, o si descrive se stessi come superiori e meritevoli di imporre agli altri il proprio modello culturale, o si promettono agli arruolati benefici economici, tanto importanti da rendere difficile il rinunciarvi, oppure le tre cose insieme. Dall’esigenza di porre il proprio sistema culturale sopra quello degli altri, originano i fenomeni dell’«etnocentrismo» e del «nazionalismo», ovverosia la tendenza a collocare la propria etnia o la propria nazione al centro dell’universo, fino a giustificare la guerra di religione e l’imperialismo. In ogni caso, o per il servizio reso o perché vittoriosi sul campo di battaglia o perché pagati dai nemici, i soldati incamerano risorse e ciò li ripaga del rischio corso e giustifica la loro fedeltà al re.

Nessun commento:

Posta un commento