lunedì 12 luglio 2010

III.3.5. Tre casi umani: Geremia, Qoelet, Giobbe

La riflessione degli ebrei sulla giustizia divina si sviluppa soprattutto all’interno della comunità degli esuli in terra di Babilonia, ma prosegue anche nel periodo persiano e oltre. La straordinaria importanza che gli ebrei attribuiscono a questo tema è testimoniata dal fatto che essi vi dedicano due interi libri della Bibbia, Il libro di Giobbe, che è datato nel periodo immediatamente dopo l’esilio, e Il Libro di Qoelet, che è stato redatto intorno al III secolo, ma anche ampi passi del Libro di Geremia, che si ritiene siano stati aggiunti in epoca esilica e post-esilica. Questi tre casi meritano un commento più esteso.

1. Geremia
Geremia parte dal presupposto che Dio non può essere che giusto. Questo dato gli pare indiscutibile e, tuttavia, egli vede che, così facendo, la realtà diventa incomprensibile. Perché il giusto soffre e l’empio gioisce? Certo, è possibile sostenere che la giustizia divina segue vie che non sono quelle umane, ma ciò crea una spaccatura tra uomo e Dio, e lascia l’uomo del tutto impotente a comprendere e, talvolta, in balìa della disperazione. L’idea che «Dio è giusto anche se noi non comprendiamo la logica della sua giustizia» non convince Geremia: “Signore, tu sei giusto, eppure io voglio lamentarmi con te; voglio discutere con te a proposito della giustizia. Perché ai malvagi va tutto bene? Perché quelli che compiono il male vivono tranquilli?” (Ger 12,1). Questi interrogativi gettano Geremia nella più nera disperazione: “Quanto sono infelice! Perché mia madre mi ha messo al mondo? Tutti in questo paese mi sono nemici! Non ho fatto debiti, non ho fatto prestiti, eppure tutti mi maledicono” (Ger 15,10). “Il mio dolore è senza speranza, mi sento venir meno” (Ger 8,18). La situazione avversa in cui si viene a trovare, suscita in Geremia sentimenti di vendetta: “Ma tu, Signore, conosci tutti i progetti che essi fanno per uccidermi. Non cancellare questo loro delitto, non perdonare questo peccato. Falli crollare davanti a te, sfoga su di essi la tua collera” (Ger 19,23). “Signore, fa’ pagare a Babilonia la violenza che ha usato contro di noi! Fa’ pagare ai Babilonesi il nostro sangue che hanno versato!” (Ger 51,35). A volte la disperazione diventa incontenibile: “Maledetto il giorno in cui sono nato! Nessuno consideri benedetto il giorno nel quale mia madre mi ha messo al mondo!” (Ger 20,14-18).

2. Qoelet
Il pensiero di Qoelet spicca per la sua immediatezza e, insieme, per la sua estrema coerenza. Questo pensatore parte da un interrogativo che gli viene suscitato dalla realtà quotidiana: “L’uomo si affatica e tribola per tutta una vita. Ma che cosa ci guadagna?” (Qo 1,3). Qoelet non ravvisa alcuna logica retributiva: “Ho meditato su tutto quel che gli uomini fanno per arrivare alla conclusione che tutto il loro affannarsi è inutile” (Qo 1,14). “Chi sa tante cose ha molti fastidi, chi ha una grande esperienza ha molte delusioni” (Qo 1,18). Giunge allora a paragonare l’uomo all’animale, entrambi inconsapevoli del bene e del male. La loro unica certezza è la morte: “Gli uomini e le bestie hanno lo stesso destino: tutti devono morire” (Qo 3,19). Prosegue affermando, coerentemente, che la vita è inutile: “Così ho cominciato a odiare la vita. Tutto quel che si fa mi sembra male. Tutto mi appare inutile” (Qo 2,17).
In un mondo in cui il comune senso della giustizia sembra capovolto, la vita stessa è uno strazio: “Ho riflettuto anche su tutte le ingiustizie che si compiono in questo mondo. Gli oppressi piangono e invocano aiuto, ma nessuno li consola, nessuno li libera dalla violenza dei loro oppressori. Invidio quelli che sono morti. Essi stanno meglio di noi che siamo ancora in vita. Anzi, più fortunati ancora quelli che non sono mai nati, quelli che non hanno mai visto tutte le ingiustizie di questo mondo” (Qo 4,1-3). Qoelet nota che non c’è alcun vantaggio a comportarsi bene. “In questo mondo succede che ai buoni toccano disgrazie, e certi delinquenti se la godono. Le disgrazie dovrebbero colpire i cattivi e i buoni dovrebbero avere un premio: ma non è così” (Qo 8,14). “Innocenti e colpevoli, buoni e cattivi, giusti e peccatori, tutti fanno la stessa fine […]. Per tutti c’è uno stesso destino” (Qo 9,2-3). Proseguendo nella sua inesorabile e intransigente analisi, Qoelet deve ammettere che l’uomo non è in grado di capire i disegni di Dio (Qo 3,11). “Chi sa quel che è meglio per l’uomo? La sua vita ha i giorni contati, passa come un soffio, come l’ombra. Chi può dire che cosa succederà nel mondo dopo di noi?” (Qo 6,12).
La grandezza di Qoelet sta nell’aver avuto il coraggio di seguire fino in fondo la propria riflessione, con logica ferrea. Se l’uomo non può capire, se non ha il discernimento del bene e del male, egli allora non può dirigere il proprio comportamento e resta in balìa di forze esterne che lo sovrastano. Se tale è la situazione quale appare a Qoelet, egli non può che concludere, saggiamente: se non so cosa sia bene, allora tanto vale che faccia ciò che mi piace. “Mi sono convinto che la cosa migliore per l’uomo è stare sereno e godersi la vita” (Qo 3,12). “Unica gioia per l’uomo è mangiare e bere e godere i frutti del suo lavoro” (Qo 2,24). “Allora godiamoci la vita. In questo mondo, non c’è niente di meglio che mangiare, bere e stare allegri” (Qo 8,15). “Perciò, godi la vita, ragazzo! Sii felice, finché sei ancora giovane. Fa’ tutto quello che ti piace e segui i desideri del tuo cuore. Non dimenticare che Dio ti chiederà conto di tutto. Scaccia le preoccupazioni dal tuo animo e tieni lontani da te i dolori, perché la giovinezza passa presto” (Qo 11,9-10). A differenza di Geremia, dunque, Qoelet non si lascia sopraffare dalla disperazione e dall’angoscia ma, più positivamente, propone una soluzione pratica edonistica.
Se Qoelet avesse sentore dell’esistenza di un’anima e di una vita ultraterrena, probabilmente la sua conclusione sarebbe diversa. Potrebbe sostenere, per esempio, la necessità di osservare la Legge per meritare il premio eterno dopo la morte. Ma evidentemente Qoelet non ha sentito parlare dell’aldilà o, se ne ha sentito parlare, non vi crede: “Tutto quello che ti occorre di fare, fallo mentre sei in vita, perché non ci sarà più né attività, né pensiero, né conoscenza, né sapienza nel soggiorno dei morti dove tu te ne vai” (Qo 9,10).

3. Giobbe
Il tentativo più deciso di dare una risposta alla domanda: «perché soffre il giusto?», è rappresentato dal libro di Giobbe. La credenza comune è che la sofferenza sia concepibile solo come conseguenza di un peccato (2Mac 7,18; 7,32; Gb 5,6-7). Giobbe, che ha la coscienza pura, non riesce a giustificare le proprie sofferenze e si chiede: se Dio è giusto, perché io che sono innocente devo soffrire? “Iddio mi ha consegnato in mano dei selvaggi e mi ha gettato in balìa degli empi. Quieto io me ne stavo ed egli mi ha scrollato, m’ha afferrato per la nuca e mi ha fatto a pezzi, mi ha drizzato per suo bersaglio, le sue frecce mi volano intorno, mi trafigge i reni senza pietà, effonde a terra il mio fiele; apre su di me breccia su breccia, mi dà l’assalto come un guerriero” (Gb 16,11-14). Giobbe non ha alcun dubbio che la sua coscienza sia in regola con Dio: “Il mio piede si adattò alle sue orme, mantenni la sua via e non deviai. Non mi scostai dai precetti delle sue labbra e custodii nel mio seno le parole della sua bocca” (Gb 23,11-12). Ora, nel momento in cui si proclama innocente, implicitamente Giobbe accusa Dio di ingiustizia nei propri confronti (Gb 27,2), questo Dio che ripaga il bene col male (Gb 30,26). Giobbe vorrebbe che Dio chiarisse la sua logica di giustizia che per lui è del tutto incomprensibile, ma è lo squilibrio delle parti in causa (Dio e Uomo) che, ancora una volta, si interpone a un normale svolgimento della sfida. Giobbe è nulla di fronte a Dio, non ha alcun mezzo per poterne sindacare il comportamento, qualunque esso sia: “Ecco, Dio è sublime nella sua potenza, chi è maestro al par di lui? Chi indicherà a lui la sua via e oserà dirgli: «tu agisci da iniquo?»” (Gb 36,22-23). “Ecco, Dio è così grande che noi non lo comprendiamo” (Gb 36,26). “L’Onnipotente non possiamo raggiungerlo; immenso in forza e in rettitudine, grande in giustizia; ma non opprime. Perciò devono temerlo gli uomini, ed egli non guarda chi si crede sapiente!” (Gb 37,23-24). Dio è talmente al di sopra delle possibilità di comprensione dell’uomo che questi non può presumere di sindacare il suo operato, qualunque esso sia. Tale è la conclusione amara di Giobbe, ma anche di tanti altri. “Chi oserà mai domandarti: «Perché hai agito così?». O chi potrebbe opporsi alla tua sentenza?” (Sap 12,12). Infatti non c’è nessuno, né re, né potenti, né altri dei ai quali tu debba rendere conto (Sap 12,13-14).
Giobbe, che invoca una giustizia divina chiara o, quanto meno, si aspetta delle spiegazioni circa il criterio seguito da Dio nella retribuzione della condotta umana, non ottenne né l’una cosa, né l’altra: per quanto sollecitato, Dio non si lascia sfuggire la risposta all’interrogativo che Giobbe gli lancia, quasi come una sfida. La sofferenza dell’innocente rimane, dunque, un mistero, e il mistero, si sa, a volte sfocia nella paura! “Ma se egli decide, chi lo farà recedere? Egli fa ciò che la sua mente desidera. Così egli compie il suo disegno su di me, come fa con tanti altri suoi progetti. Perciò la sua presenza mi spaventa; più ci penso e più ho paura di lui” (Gb 23,13-15).
Se la risposta richiesta da Giobbe manca, al suo posto troviamo la seguente argomentazione: essendo perfetto, Dio è al di sopra della nostra portata e noi non possiamo pretendere di comprendere i suoi disegni. Come dire: Dio ha ragioni che l’uomo non può afferrare. Insomma, anche se l’uomo ritiene in coscienza di essere innocente, in realtà Dio scruta il male che l’uomo non riesce a vedere: “Ché egli conosce la gente perversa, vede l’iniquità non conosciuta” (Gb11,11). Si avvalora così la concezione del peccato come realtà oggettiva e indipendente dalla volontà del soggetto che lo compie, il che significa che si può commettere il peccato senza esserne consapevoli! Di male in peggio! Il povero Giobbe non può capire e noi non possiamo biasimarlo, perché è difficile per un uomo capire quella logica. Ma, anziché perdere la fiducia, egli conclude semplicemente che la ragione è impotente a penetrare quel mistero ed è perciò inutile sforzarsi di capire: “Puoi tu scrutare il mistero di Dio, e penetrare la perfezione dell’Onnipotente?” (Gb 11,7). Esplicativo, a tale riguardo, è il passo biblico che narra di un “uomo di Dio” il quale, ingannato dalla menzogna di un profeta (1 Re 13,18), trasgredisce, in buona fede, una disposizione divina (1 Re 13,19) e, per tale motivo, Dio lo fa sbranare da un leone (1 Re 13,24). È certamente difficile per molti di noi trovare in questo episodio una logica di giustizia condivisibile. Ebbene, Giobbe dice che è inutile provarci.
Non solo è inutile cercare di capire, è anche inutile tentare di ribellarsi, poiché qualsiasi tentativo di ribellione all’ingiustizia di Dio da parte dell’uomo non può approdare a nulla, essendo le parti smisuratamente impari (Gb 10,14-17). A questo punto, non solo l’uomo non è all’altezza di poter giudicare il comportamento di Dio, ma non è nemmeno in grado di potere giudicare il proprio comportamento. Quale uomo, infatti, può mai ritenersi innocente agli occhi di Dio (Gb 15,14)? Secondo la mentalità corrente, dunque, se Giobbe viene colpito da Dio ciò è legato al fatto che egli di certo ha peccato (Gb 22,4-5), anche se non ne è consapevole. Perciò, il consiglio che un amico gli può dare è questo: “Riconciliati dunque con lui [Dio] e fa la pace, e così riavrai la tua felicità” (Gb 23,21). In ultima analisi, il libro di Giobbe dimostra che il tentativo di risolvere con mezzi umani la questione della giustizia divina porta ad un vicolo cieco. Insomma, lo sa solo Dio perché soffre il giusto; l’uomo non può presumere di comprendere i disegni imperscrutabili di Dio e non può far altro che osservare le leggi. Alla fine, ma soltanto alla fine, e nonostante ogni apparenza, il giusto trionferà e il malvagio verrà punito (cf. per es. il Salmo 37).

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