lunedì 12 luglio 2010

III.4.6. Il profetismo

Il periodo persiano segna anche il sostanziale tramonto del profetismo, che affonda le sue radici agli esordi della monarchia, anche se, come fenomeno stabile, si afferma intorno alla metà dell’VIII secolo, e che, pur non essendo esclusivo del giudaismo, tanta parte ha avuto nello sviluppo della cultura religiosa ebraica. È ora arrivato il momento di fare luce su questo straordinario fenomeno.
Il profeta è un personaggio complesso, perché compendia nella propria persona le qualità dello sciamano e del divinatore, dell’uomo pio e del santone, del saggio e dell’intellettuale, ma anche del taumaturgo: opera prodigi (1Re 17,16; 2Re 4,6; 4,44), guarisce i malati (2Re 5,14), resuscita i morti (1Re 17,23; 2Re 4,35), fa piovere e cessare la carestia (1Re 18,45). Soprattutto egli è uno che ha un rapporto privilegiato con Dio, parla con lui, comprende i suoi messaggi e li esprime sotto forma di oracoli. Il profeta è essenzialmente uno che Dio ha scelto per far conoscere al popolo la propria volontà e, per conseguenza, è l’unico che sa come ci deve comportare in una determinata circostanza per compiacere il dio medesimo e meritare il suo sostegno. Egli è la «bocca di Dio». Il profeta obbedisce solo a Dio e resiste ad ogni compromesso, non è ricattabile, non si può comprare. Il re lo teme e, al tempo stesso, non può fare a meno di consultarlo, o comunque di tenere in considerazione il suo pensiero, soprattutto prima di prendere un’importante decisione.
Generalmente il profeta vive isolato in un luogo appartato (1Re 13,11; 17,1), oppure opera in gruppo, alla corte del re (1Re 18,20), o presso un santuario (1Re 14,2). Col passare del tempo, egli tende ad allontanarsi dalla corte e a vivere per proprio conto all’interno di comunità indipendenti e circondato da discepoli, e indirizza i suoi oracoli non più solo al re, ma anche al popolo. Sempre critico nei confronti delle novità e pessimista sulle capacità di autodeterminazione dell’uomo, egli esorta la gente a restare fedeli a Jahve e ammonisce a diffidare degli uomini, segue gli eventi sociali e politici, di cui è attento osservatore, li analizza, li elabora e li giudica, come se fosse Jahve in persona. Il profeta vede le cose con gli occhi di Jahve, pensa con la testa di Jahve, parla con la bocca di Jahve, prevede il futuro come se fosse Jahve. Insomma si comporta come un dio e, come tale, può godere della stima generale ed essere trattato con grande rispetto e timore. Il vero profeta stigmatizza certi comportamenti, individua gli errori del re, indica la via del Signore, conforta, rassicura, esorta, garantisce un futuro glorioso al popolo. È come un giornalista, un cronista, un opinionista, che scrive il suo articolo e lo firma col nome di Jahve. “In quanto portavoce di Dio pieni di spirito, i profeti sono i custodi, gli ammonitori, i controllori, gli esortatori scomodi. Non strumenti privi di volontà, ma risoluti interpreti della volontà di Dio” (Küng 1995: 107).
Trascurato nell’aspetto, meditabondo, riflessivo, informato dei fatti, sicuro di sé, convincente, non rispetta le regole comuni, ma vive in modo originale. Esprime il suo pensiero in forma orale e saranno poi i suoi discepoli a metterlo per iscritto, anche in tempi lontani e a più riprese. A volte cade in trance e non risponde alla gente che lo chiama, altre volte si allontana per settimane dai centri abitati e si rifugia nel silenzio del deserto, solo, a rimuginare i suoi pensieri o a dialogare col mondo inanimato che lo circonda o con gli spiriti invisibili. Ma non tutti coloro che possiedono questi requisiti sono considerati veri profeti. Esistono, infatti, anche i cosiddetti falsi profeti, i quali vengono derisi, maltrattati e, talvolta, uccisi: evidentemente, i loro messaggi non sono ritenuti ispirati. In pratica, il vero profeta si riconosce dal fatto che è fedele alla tradizione di Mosè e ai valori tribali e contrario tanto all’urbanesimo quanto alla monarchia.
Il bisogno di ascoltare un profeta diventa massimo nei momenti di crisi, ovvero quando si devono prendere decisioni importanti e non si sa cosa fare. Ebbene, in simili frangenti, la possente voce del profeta ha l’effetto di rassicurare il popolo e di confermarlo nella fede in Jahve e nella certezza della sua promessa. Al contrario, nei periodi di pace e di benessere, o quando si sa esattamente cosa fare, nessuno si sogna di ascoltare un profeta. Infatti, il buon andamento delle cose sta a significare, per i giudei, che Dio è in pace col suo popolo e significa anche che il popolo sta camminando secondo la retta via, e un profeta che levasse la sua voce in un periodo favorevole sarebbe respinto.
Le condizioni per l’affermazione del profetismo maturano ai tempi di Samuele, in concomitanza e in relazione con la questione monarchica. In pratica, il profetismo nasce con la monarchia e si sviluppa insieme ad essa, passando da una posizione di sintonia ad una posizione di scontro. Inizialmente i profeti svolgono la propria funzione all’interno della corte e si comportano come consiglieri del re (tale è il caso di Gad e di Natan ai tempi di Davide). L’attrito con la monarchia si manifesta precocemente e appare già con Achia (1Re 11,29-39), Michea (1Re 22,1-38) ed Eliseo (2Re 9), i quali assumono una posizione critica nei confronti del re, che talvolta assume toni vivaci: “Io voglio distruggerti, popolo d’Israele! Nessuno potrà venirti in aiuto. Dov’è ora il tuo re per salvarti nelle tue città? Dove sono i governanti? Tu stesso mi avevi chiesto: «Dammi un re e dei capi». Io, con ira, ti ho dato un re, ora con furore me lo riprendo” (Os 13,9-11). Il messaggio non può essere più chiaro: gli ebrei non devono contare su capi umani, ma unicamente sul loro dio. Questo è il leit-motiv che i profeti non si stancheranno mai di ripetere.
Nell’ottica profetica, l’uomo è radicalmente incapace di operare bene e nemmeno può esercitare il libero arbitrio e, se si ostina a prendere iniziative autonome, sono guai per la comunità. L’uomo non può avere nemmeno una libera volontà, perché farebbe solo del male. Può solo sperare in Dio. L’unica libertà che gli viene riconosciuta è quella di aderire ciecamente alla volontà di Jahve. Come massimo esponente dell’umanità, il re, è anche il maggiore responsabile delle sventure della propria gente. Egli può solo fallire e mai riuscire, fare il male e mai il bene. Nella figura del re, gli occhi divini del profeta vedono l’arrogante autoesaltazione dell’uomo e la sua pretesa peccaminosa di volersi ergere a protagonista della propria storia, oltre che un’offesa a Jahve e una sfiducia nella sua Promessa. I profeti vedono nella monarchia un’offesa a Dio e un peccato di superbia da parte dell’uomo che si affida a se stesso.
Si capisce allora perché, tipicamente, il messaggio profetico si leva nei momenti di crisi sociale, quando cioè è chiara a tutti l’impotenza umana, in particolare del re, a risolvere i problemi. Se l’uomo è impotente, per definizione, allora è inutile che egli prenda iniziative, che si dia da fare, che arruoli eserciti e incoroni dei re. Tutto ciò a nulla gli servirà, poiché nulla accade senza il volere di Dio. Di conseguenza, tranne rare eccezione, i profeti si oppongono all’attivismo politico e militare e invitano ad un atteggiamento di totale remissione alla volontà di Dio. L’uomo non deve contare su se stesso ma su Dio: “Se tornate a me in pace, sarete salvi. Se avete fiducia in me sarete forti” (Is 30,15).
Date queste premesse di ordine religioso, si può agevolmente comprendere perché gli ebrei siano restii ad elevare la figura del re al di sopra di tutti gli altri uomini e, meno che mai, a divinizzarla. Nel re essi vedono semplicemente un docile strumento, di cui Jahve si serve per realizzare i suoi disegni. Solo uno strumento: non potrebbero concepirlo diversamente. Perciò si aspettano che egli non solo osservi i comandamenti divini, ma che ascolti e si attenga ai messaggi che Jahve gli invia per mezzo dei profeti o di eventuali altri messaggeri da lui, di volta in volta, scelti. Insomma, per gli ebrei il re non è né un dio, com’era invece il faraone egizio, né una sorta di semidio, com’era il re mesopotamico, né l’uomo migliore eletto dall’assemblea dei guerrieri, com’era il re ittita, ma semplicemente un uomo come gli altri, diverso solo in quanto prescelto da Jahve, come suo interlocutore privilegiato e come destinatario della Promessa. «Renderò salda la tua dinastia per tutti i tempi. Ti darò un trono che duri per sempre» (Sal 88,4-5; cfr. 2Sam 23,1-7). In realtà, gli ebrei si aspettano che il loro re rimanga sottomesso alla legge di Jahve ed esegua fedelmente gli ordini impartiti da colui che parla con la bocca del dio.
Il profeta non si oppone solo al re, ma anche al sacerdote, da quale si differenzia per diversi aspetti. In particolare, il sacerdote agisce in virtù del proprio ufficio, che è legittimato da una lunga tradizione, il profeta, invece, agisce in virtù del proprio carisma personale e al di fuori di ogni schema prestabilito; il sacerdote guarda al presente e lo giustifica come fedele riproduzione di costumi che si perdono lontano nel tempo, il profeta guarda al presente e al futuro con gli occhi di Dio e vuole rompere con un passato peccaminoso per creare un ordine nuovo (sotto questo aspetto, la somiglianza tra i profeti ebrei e i legislatori greci è rilevante). Dopo la caduta della monarchia, a contendersi il potere rimarranno il sacerdote e il profeta e, quando il profetismo declinerà perché non avrà più nulla da dire e resterà sul campo solo un popolo sacerdotale.
Gli studiosi sogliono suddividere i profeti in tre gruppi, secondo un ordine temporale che ha come punto di riferimento l’esilio. Li suddividono, dunque, nel modo che segue. Profeti pre-esilici: Gad e Natan (metà X sec.), Achia (fine X sec.), Azaria (inizio IX sec.), Elia (secondo quarto del IX sec.), Eliseo (metà IX sec.), Amos (760), Osea (750-25), Primo-Isaia (740-700), Michea (fine VIII sec.), Sofonia (640-22), Naum (612), Abacuc (fine VII sec.), Geremia (VII-VI sec.). Profeti esilici: Ezechiele (593-71), Secondo-Isaia (539). Profeti post-esilici: Terzo-Isaia (530-15), Aggeo (520), Primo-Zaccaria (520-18), Abdia (fine VI sec.), Gioele (VI-V sec.?), Malachia (prima metà del V sec.), Giona (V-IV sec.), Secondo-Zaccaria (IV-III sec.), Baruc (II sec.?), Daniele (II sec.).
Se invece teniamo conto del pensiero espresso, allora nel profetismo possiamo riconoscere le seguenti tre fasi.
Il primo profetismo (1000-750)
Fino al delinearsi della minaccia assira, il profetismo svolge un ruolo tutto sommato secondario nello sviluppo del pensiero religioso degli ebrei. I profeti Achia, Azaria, Elia, Eliseo, Amos, Osea levano la propria voce essenzialmente per porre un freno alle lotte fratricide tra Giuda e Israele e alle ingiustizie sociali, ma la questione religiosa non occupa ancora un posto di primo piano nel loro pensiero e nei loro messaggi. In questo periodo è diffusa l’idea che ogni tribù, ogni città e ogni popolo sia assistiti da un proprio dio tutelare (Jahve in Israele e Giuda, Kemosh in Moab, Qaus in Edom, Milkom in Ammon, Hadad a Damasco, Baal a Tiro, Assur in Assiria, Marduk in Babilonia), che tutte le divinità tutelari competano fra loro per la supremazia propria e del proprio popolo e che l’esito di tale competizione dipenda in parte dalla potenza del dio, in parte dal comportamento del re umano. Alla fine, si crede, si affermerà quel popolo il cui re umano avrà saputo interpretare più fedelmente la volontà del proprio dio, senza tante flessioni e tentennamenti.
Il secondo profetismo (750-500)
L’era dei grandi profeti inizia con Primo-Isaia e Michea, pochi anni prima della caduta di Samaria ad opera degli assiri (721), ovvero in un periodo di crisi acuta, che vede i profeti prendere le distanze da una monarchia che dimostra tutta la sua impotenza, per avvicinarsi al popolo e indurlo a cambiare vita. Secondo loro, le ingiustizie e le discriminazioni sociali, le sciagure naturali e le malattie, le sconfitte militari e i rovesci di fortuna, non sono eventi ineluttabili, bensì la conseguenza di colpe umane. Le sofferenze degli ebrei, in definitiva, non sono altro che punizioni inferte da Jahve a causa del loro peccato di superbia e delle loro pretesa di affidarsi a re umani. Per contro, i profeti annunciano l’imminente giudizio di Jahve e invitano gli ebrei ad abbandonare l’idolatria e a rispettare la legge dell’unico Dio per far sì che egli si risolva ad attuare la sua promessa.
Il terzo profetismo (500-150)
Dopo l’uscita di scena della monarchia e la proclamazione del monoteismo, ai profeti resta ancora un po’ di spazio per precisare i tempi e i modi dell’attuazione della Promessa e per chiarire l’insindacabilità del comportamento di Dio. In questa terza fase, i profeti definiscono il ruolo infimo dell’uomo, che è essi invitano a rinunciare alla propria autonomia morale e a rispettare fedelmente la Legge, ma anche a non mescolarsi con altri popoli, per far sì che tutto il disegno di Dio si compia nel più breve tempo possibile. Espletate queste ultime funzioni, il profetismo non ha altro da dire e si eclissa.

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