lunedì 12 luglio 2010

III.5.4. La Giudea (37 a.C.-135 d.C.)

Erode può conservare il suo regno grazie all’appoggio dei romani, ma, nonostante abbia preso in moglie una discendente asmonea, si sia prodigato nella realizzazione di grandi opere, abbia fondato una nuova capitale sulla costa, Cesarea, abbia abbellito Gerusalemme e il suo tempio e incrementato l’occupazione, i giudei lo considerano uno straniero e usurpatore, vassallo di Roma e amante dei costumi ellenici. Erode deve ricorrere alle maniere dure e non esita a eliminare tutti i membri della dinastia asmonea, moglie compresa. Alla sua morte (4 a.C.), lascia in testamento il regno diviso a tre dei suoi figli: Archelao, re di Giudea, Erode Antipa, tetrarca di Galilea e Perea, Erode Filippo, tetrarca di altri territori oltre il fiume Giordano. A partire dal 6 d.C. la Giudea è annessa alla provincia della Siria e governata da un procuratore romano e dal Sinedrio, un consiglio di anziani presieduto dal sommo sacerdote, aventi funzioni politiche e giurisdizionali.
Sul finire del regno di Erode, nasce a Nazareth, un piccolo paese della Galilea, da un’umile famiglia, Gesù. Della sua infanzia non sappiamo nulla di certo, ma sappiamo che all’età di 33 anni inizia a percorrere le strade della Galilea predicando e annunciando l’imminente arrivo del regno di Dio, in un momento in cui è alto, presso gli ebrei, il fervore messianico, che è alimentato dall’insofferenza nei confronti dell’odioso dominio romano e dalla mai sopita speranza in un liberatore inviato da Dio per attuare la sua promessa.
Gesù è il tipico uomo comune, uno dei tanti, uno di noi, uno come noi, ma, al tempo stesso, è un uomo straordinario, che parla in modo semplice e profondo, fa vibrare le corde dei sentimenti di coloro che lo ascoltano e compie miracoli nel nome di Dio, così che molti non esitano a vedere in lui il messia atteso e si mettono al suo seguito. Non si aggrega ad alcuna istituzione socio-politica e nemmeno si lascia condizionare dai legami di sangue (Mt 12,48-50), ma rispetta tutti, anche i suoi nemici; ama vivere da uomo libero, da infaticabile ricercatore della verità, convinto che la verità è l’amore che avvicina gli uomini, li rende solidali, mutuamente disponibili, tolleranti, premurosi e servizievoli. Gesù non dice di essere Dio, ma afferma di essere sottomesso a Dio come il figlio al padre (Mt 26,39-42; Mc 10,18; 13,32) e di esserne distinto anche come volontà (Mt 26,42; Mc 14,32-42; Lc 22,39-43; Gv 18,1). Anche se gli altri lo considerano un profeta, egli si presenta come un uomo «normale» e come tale vive. Non ha titoli, né blasoni, ad accezione di quelli che gli altri vorranno attribuirgli alla luce della fede nella sua resurrezione, come «Profeta», «Cristo», «Messia», «Figlio di Dio», «Dio».
Il suo messaggio è semplice: amate Dio e rispettate la sua legge, che è la legge dell’amore universale, non attaccatevi al denaro, e nemmeno al potere, perché il regno di Dio è vicino e in esso saranno accolti solo coloro che si comportano secondo l’etica cristiana dell’amore scambievole e fraterno! Semplice a dirsi, ma estremamente difficile a mettersi in pratica in un mondo dominato dalla legge della forza, dove i soprusi, le prevaricazioni, le prepotenze, le ingiustizie, le angherie e le violenze sono all’ordine del giorno.
Ebbene, il cristianesimo accoglie questa sfida cruciale e si impegna a cambiare il mondo, invitando tutti gli uomini di buona volontà, indipendentemente dalla razza, dalla nazionalità e dalla famiglia di appartenenza, a farsi degni cittadini del regno che sta per venire. In estrema sintesi, Gesù si presenta come un modello di vita che esige di essere emulato, ed è in ciò che va ravvisato il nocciolo di quello che chiamiamo «cristianesimo». Il succo del suo messaggio è: se mi imiterete, verrà il regno di Dio sulla terra (Mt 5,48; 10,24; Lc 6,40; 1Pt 1,16). Nel nuovo regno ci saranno solo uomini liberi e responsabili, proprio come lo era stato Gesù e non ci sarà posto per chiese istituzionali e gerarchie politiche: “voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). Nel Regno di Dio Si può ben comprendere allora perché il sommo sacerdote giudeo veda in quell’uomo, apparentemente inoffensivo, una minaccia per la propria autorità e il proprio potere e voglia eliminarlo ad ogni costo.
Alla fine, Gesù viene arrestato, processato e messo a morte con l’accusa di sobillare il popolo e di proclamarsi re dei giudei (30 d.C.). La sua figura, i suoi gesti, il suo stile di vita, le sue parole, rimangono, però, bene impressi nella memoria dei suoi discepoli, che rimangono folgorati quando trovano vuota la tomba, dove Gesù era stato sepolto appena tre giorni prima. A quella vista, prorompe entusiastico il loro urlo di gioia: Gesù è risorto, dunque è, «davvero», il Figlio di Dio! L’annuncio di questa «lieta novella» trova inizialmente un’accoglienza tiepida: molti si mostrano diffidenti, altri francamente ostili, ma ve ne sono molti altri disposti a credere in quell’uomo e ad imitarlo. Fra questi ultimi, c’è un rabbino ebreo, originario di Tarso in Cilicia, di nome Paolo, che vede nella nuova religione una setta scismatica da estirpare.
In generale, i giudei non comprendono il messaggio di Gesù e nemmeno sono disposti a riconoscere in quell’uomo comune il loro messia. Il messia che essi aspettano, infatti, è un essere superiore che viene ad instaurare la sua signoria sul mondo e Gesù non ha ai loro occhi le qualità di un personaggio topico e in grado di incidere in modo importante sulla loro storia.
Intanto Paolo (5-67), dopo essere stato fulminato da una visione, comincia a vedere Gesù con occhi nuovi. Ripensa al messaggio «amate Dio e il prossimo» e lo collega alla resurrezione e alla tradizione messianica del giudaismo. Alla fine conclude che il Risorto è veramente un inviato di Dio (o Messia o Cristo) e il Regno che ha preannunciato è davvero imminente e sarà instaurato dallo stesso Cristo, il quale, entro pochi anni, ritornerà glorioso sulla terra (questo ritorno è chiamato parusia). In quell’occasione anche i morti risorgeranno, tutti, buoni e cattivi, solo che i buoni entreranno nel regno di Dio e saranno felici, i malvagi invece saranno condannati alla perdizione eterna. Paolo è convinto che non c’è tempo da perdere: tutti, ma proprio tutti (compresi i non-ebrei), devono conoscere la «lieta novella», affinché a tutti sia data la possibilità di imitare Cristo e salvarsi. Paolo è uno dei pochi ebrei a credere in Gesù e ad imitarlo e la sua fede e la sua testimonianza di vita sono tali da guadagnargli numerosi seguaci, ai quali lo stesso Paolo si rivolge così: “Siate miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo” (1Cor 11,1). Sta qui il segreto del cristianesimo: nell’imitare Gesù e farsi, a propria volta, modello da imitare (Lc 6,40; Gv 13,14-15; 13,34).
Volendo comunicare questa sua illuminazione agli apostoli, Paolo si reca a Gerusalemme, ma viene accolto freddamente. Evidentemente, gli apostoli non si fidano di lui e/o rifiutano l’idea di aprire ai non-ebrei, i cosiddetti «gentili», perché ciò è in evidente contrasto con i princìpi fondamentali del pensiero religioso ebraico, fissati fin dai tempi di Esdra e poi consolidati nel corso dei secoli seguenti, che fanno degli ebrei un popolo eletto, una stirpe santa e predestinata da Dio alla gloria eterna su questa terra. Per essi è, dunque, inconcepibile condividere il proprio destino coi gentili. Paolo, che è un caparbio, non desiste e, ritornato nella sua terra, in Cilicia, comincia a diffondere la «sua» lieta novella a tutti quelli che sono disposti ad ascoltarlo. Poi, non contento, inizia il suo primo viaggio missionario (44), trovando buona accoglienza e facendo proseliti. «Il regno dei cieli è vicino», annuncia, «amatevi l’un l’altro e imitate Cristo, ma, soprattutto, ricordatevi di divulgare il messaggio a quanta più gente potete; io devo proseguire il mio viaggio, perché il tempo è veramente poco, e tutti devono sapere». Nascono così le prime comunità cristiane fuori della Giudea.
Nel 48 Paolo può ritornare a Gerusalemme, latore di queste belle notizie agli apostoli, che continuano a manifestare un’invincibile perplessità. Tuttavia, vedendo la caparbietà e l’ostinazione di quell’uomo, la sua fede profonda e appassionata, le sue idee lucide e cristalline, gli apostoli non si sentono di negargli l’autorizzazione a proseguire nella sua opera di evangelizzazione nei confronti dei gentili: «Tu continua pure a portare la lieta novella ai gentili, noi lo faremo coi giudei». Apparentemente si tratta di un buon compromesso atto a salvaguardare la specificità del popolo ebraico, in realtà si tratta invece di una rottura vera e propria e, infatti, con Paolo inizierà la diffusione di una religione nuova e ben distinta dall’ebraismo, ovvero del cristianesimo. La rottura è sancita pochi anni dopo (seconda metà del I secolo d.C.) quando alcune autorevoli comunità ebraiche e cristiane provvedono a fissare l’elenco (canone) dei rispettivi libri sacri, creando così due diverse Bibbie (una ebraica, l’altra cristiana), le stesse che conosciamo oggi.
L’anno 70 è testimone di un evento straordinario: a seguito di una rivolta ebraica, scoppiata quattro anni prima, i romani espugnano Gerusalemme e devastano il tempio, la Giudea viene staccata dalla Siria e amministrata da governatori come provincia imperiale autonoma, sommo sacerdozio e sinedrio decadono, i giudei vengono dispersi. È con questo evento che solitamente si fa iniziare quel fenomeno della diaspora (dispersione) che, in realtà, esisteva già prima di tale data. Nel 74 un gruppo di 960 giudei, asserragliati nella fortezza di Masada sul Mar Morto, per non arrendersi all’esercito romano che li ha assediati, preferiscono darsi la morte. È l’ultimo tragico atto che sancisce la bruciante sconfitta degli ebrei e fa da preludio alla fine di un’era, che si consumerà sessant’anni dopo e che sarà segnata dal definitivo tramonto della Giudea. La distruzione di Gerusalemme, la diaspora e forse anche Masada vengono interpretate dai giudei come ennesimi castighi inflitti loro da Dio a causa delle loro colpe, dai cristiani come il ripudio da parte di Dio del suo ex popolo eletto e la consacrazione del cristianesimo come unica vera religione monoteista.
Nel corso della sua politica di riorganizzazione dell’impero, Adriano (117-138) dà alla Giudea un’impostazione tutta pagana, inducendo così gli ebrei a prepararsi nuovamente alla guerra sotto il comando di Bar Cocheba, che è da alcuni riconosciuto messia. La guerra ha inizio nel 132 e si conclude dopo tre anni di duri combattimenti con la vittoria dei romani, ma con gravi perdite di vite umane da ambo le parti. I vincitori impongono condizioni particolarmente dure: erigono il tempio dedicato a Giove Capitolino, là dove prima c’era il tempio del Dio degli ebrei, insediano in Palestina una popolazione pagana, cambiano il nome di Gerusalemme (che ora viene chiamata Aelia Capitolina) e anche della Giudea (che ora viene chiamata Palestina). In pratica, la Palestina non è più un paese ebraico.
Sentendosi abbandonati dal proprio dio, molti ebrei ripudiano la propria fede e si lasciano integrare dalle culture locali, ma molte comunità ebraiche rimangono ferme nella loro fede, e anzi ci sono casi di romani che si convertono all’ebraismo. In ogni caso, gli ebrei versano in una condizione di estremo disagio, perché sono mal visti dai cristiani e avversati dalla legge, che proibisce la circoncisione. Essi cercano allora di riorganizzarsi, tenendo come principale punto di riferimento la sinagoga. È qui che i fedeli si riuniscono ogni sabato per leggere la Torah, in ciò avvalendosi dell’aiuto di esperti, i cosiddetti scribi o dottori della legge, che soppiantano di fatto la vecchia classe sacerdo¬tale e che in seguito verranno chiamati rabbini o maestri. Il sadduceismo, lo zelotismo e l’essenismo perderanno d’importanza fino a cessare d’esistere e la religione ebraica si ridurrà alla devota fedeltà alla Legge secondo lo spirito farisaico, nell’attesa che si compia la Promessa. Quale sia il contenuto della Promessa, il luogo, i tempi, i modi e le condizioni è quello di cui andiamo ora ad occuparci.

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