lunedì 12 luglio 2010

III.3.2. Gli esuli e la reinterpretazione della fede religiosa

Verosimilmente la caduta di Giuda viene vissuta in modo diverso dagli ebrei di Palestina e di Babilonia. In realtà, dei primi sappiamo assai poco e siamo indotti a supporre che il paese sia caduto in una grave crisi sociale, politica, demografica e culturale. Diverso è lo stato degli esuli di Babilonia, che vengono impiegati come coloni agricoli e inseriti in un piano di rilancio dell’agricoltura locale. Essi godono di una relativa libertà e possono mantenere un rapporto con i loro compatrioti di Palestina, è loro concesso di possedere case e terreni, e alcuni possono crearsi una buona posizione economica. Inoltre, la presenza del re Yoakin, peraltro da tutti rispettato, può alimentare in loro la speranza di una prossima restaurazione della casa di Davide (Ez 34, 23-24; 37,22). Grazie a queste favorevoli condizioni, gli ebrei deportati possono liberamente scegliere fra due alternative alquanto diverse: o integrarsi totalmente nel nuovo contesto, rinnegando il proprio re e spezzando le proprie radici, oppure difendere caparbiamente la propria identità, le proprie tradizioni, la propria cultura e continuare a sognare un futuro radioso. Entrambe queste opzioni vengono, con molta probabilità, praticate, ma a noi interessa solo l’ultima, vale a dire la difesa ad oltranza della propria identità da parte della comunità ebraica di Babilonia.
Dunque, gli esuli si interrogano su molti punti della loro fede religiosa, che ora i fatti rimettono in discussione. Si chiedono perché è caduta la monarchia, perché Jahve non ha mantenuto la sua promessa e se esistono delle responsabilità da parte loro. Soprattutto si chiedono come funzioni la giustizia divina e come sia possibile che il più potente degli déi venga meno alla parola data. Insomma, essi sentono l’imperioso bisogno di «capire» la logica divina e la natura dei propri errori. Vogliono sapere esattamente ciò che Jahve esige da loro e perciò si mettono a riordinare tutti i documenti scritti che possiedono e a raccogliere tutte le testimonianze che possono, il che approda, infine, ad una migliore conoscenza del proprio passato e ad un rafforzamento della propria identità nazionale. Il frutto di questo immane lavoro è rappresentato dai cinque libri della Bibbia che oggi chiamiamo il «Pentateuco» e i libri dei profeti più antichi. In definitiva, l’esilio stimola gli ebrei a ripercorrere la propria storia e a scavare nel proprio passato, con risultati inimmaginabili: in sostanza, essi riconoscono i propri errori e si riconciliano con Jahve, consolidando al tempo stesso il proprio sentimento nazionale. Alla fine, gli ebrei si confermano nella fede di essere un popolo predestinato, una «stirpe santa» (Esd 9,2), perché così ha voluto Dio, il quale ha stretto con loro un’alleanza, promettendo gloria in cambio di ubbidienza.
Il fatto che gli esuli si interroghino sulla propria fede religiosa sta a significare che essi continuano a coltivare quella fede. Se così non fosse, essi si lascerebbero integrare dalla cultura dei vincitori e scomparirebbero dalla storia come popolo, allo stesso modo in cui sono scomparsi gli assiri, i madianiti, gli edomiti, gli amaleciti, i filistei e molti altri. Presso gli esuli prevale invece la convinzione che Javhe non li ha abbandonati e che, se la promessa non si è avverata, è per colpa di se stessi. Gli esuli sono smarriti e angosciati non perché si sono resi conto che la loro fede è infondata, ma perché ritengono che sono stati giustamente puniti per non averla vissuta abbastanza. Non sono in collera con Jahve, ma con se stessi che non sono stati capaci di servirlo come dovevano.

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